72.

La volontà di potenza e la terra

Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra; possono scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrilegi. Commettere il sacrilegio contro la terra è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!

F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883-1885), Prefazione, § 3, p. 6.

“Rimanete fedeli alla terra” dice la terza proposizione fondamentale della Prefazione a Così parlò Zarathustra. Essa rappresenta la conseguenza tratta dalla morte di Dio e dal superamento dell’ultimo uomo a opera del superuomo, che ha liquidato tutti i retro-terra metafisici.

L’ultimo uomo ha usato e abusato della terra per abbellire il concetto dell’al di là, ha sottratto a essa i colori e le immagini con cui ha adornato il regno delle idee eterne. Il superuomo, che sa della morte di Dio, riconosce nell’al di là una fantastica immagine della terra, e alla terra restituisce tutto quanto le è stato sottratto.

Dall’alienazione, il superuomo ritorna alla “Grande Madre”,1 alla “terra dall’ampio petto” e in essa trova i limiti, il contrappeso dei suoi tentativi, che prima immaginava di realizzare nell’al di là, e ora riaffida alla terra, in quanto grembo da cui ha origine tutto ciò che appare alla luce, e nello spazio e nel tempo trova permanenza e luogo. Dove per l’umanità imprigionata dalla metafisica stava Dio, ora sta la terra, nel senso, scrive Nietzsche, che:

Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio; ma Dio è morto e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Peccare contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra.2

Nietzsche non pone l’uomo al posto di Dio, egli non divinizza né idolatra l’ente finito, perché altrimenti ricalcherebbe i sentieri dell’ultimo uomo. Al posto di Dio, al posto del Dio dei cristiani e del regno platonico delle idee, egli pone la terra. La terra è una dea antichissima, ma senza forma, senza contorno, che è “vicina eppure è difficile da afferrare”. La terra è l’essere,3 il grande assente nella storia del pensiero occidentale, che ha rivolto ogni sua cura all’ente e al suo possesso.

La volontà di potenza dell’Occidente ha voluto l’ente e nient’altro che l’ente, la volontà di potenza del superuomo di Nietzsche vuole invece il niente, e l’ente solo per gioco. L’Occidente aveva assicurato l’ente con Dio, ossia con quell’Ente supremo che, estromesso da sé il tempo, era stato posto come eterno e imperituro, quindi come sufficiente garanzia per la totalità dell’ente. Nietzsche vuole riportare nel tempo l’essere come “terra”, e pensa il rapporto essere e tempo come un rapporto di identità, che esclude ogni Ente privilegiato fuori dal tempo. Scrive in proposito Nietzsche:

Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose diritte e fa girare tutto quanto è fermo. Come? Il tempo sarebbe abolito, e tutto ciò che è perituro solo una menzogna. Pensare queste cose è vortice e vertigine per gambe umane, e vomito per lo stomaco: davvero, abbandonarsi a simili ipotesi io lo chiamo avere il male del capogiro. Io lo chiamo cattivo e ostile all’uomo tutto questo insegnare l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e l’Imperituro. Ogni Imperituro non è che un simbolo! E i poeti mentono troppo.4

In questo modo Nietzsche riconduce l’ente a quella precarietà a cui era stato sottratto dalla volontà di potenza dell’Occidente, mascherata sotto il nome di Dio e sotto quello del principio di ragion sufficiente. Entrando nel tempo, volgendosi a quel precario terreno che è il gioco di tutte le cose, il superuomo apprende e conosce la sua finitezza, perché ogni cosa che incontra non è compimento ma superamento. E non il superamento “ascetico” di tempo e vita (Schopenhauer), ma il superamento di gradini finiti, di mete finite poste dalla volontà. Nel tempo il superuomo continua a costruire sopra di sé, distrugge ciò che era, cerca ciò che non è ancora e non si accontenta del possesso stabile e definitivo dell’ente, a cui invece è protesa la volontà di potenza dell’ultimo uomo. E in effetti, scrive Nietzsche:

Creare – questa è la grande redenzione dalla sofferenza, e il divenir lieve della vita. Ma perché vi sia colui che crea è necessaria molta sofferenza e molta trasformazione. Sì, molto amaro morire deve esserci nella vostra vita, o creatori! Solo così siete coloro che difendono e giustificano ogni cosa peritura.5

Difendere e giustificare ogni cosa in quanto “peritura”, essere creatori in quanto testimoni di “molto amaro morire” significa rapportarsi alle cose e vederle non per quello che valgono, ma per quello che sono: creazioni e prodotti della terra, pensata come forza creatrice, come poíesis originaria da cui ogni cosa prende forma, contorno e durata. Significa capovolgere la metafisica dell’Occidente, per la quale la terra è l’al di qua, il mondo limitato dallo spazio e dal tempo, il mondo svalutato, apparente, improprio, perché il mondo vero sta al di là dello spazio e del tempo, come cosa in sé accessibile solo al pensiero, come regno delle idee, di Dio, come “regno dei cieli”.

A capovolgimento avvenuto la terra si ripropone come la phýsis del pensiero aurorale, come ciò da cui ogni ente promana, come la base portante sulla quale ogni ente finito appare e scompare nel rispetto dei tempi assegnati. La terra non è vicina o lontana come gli enti finiti, essa è onnipresente, senza tuttavia essere mai oggetto. La terra è ciò che fa germinare, è il grembo di tutte le cose, è quel produrre dal quale l’ente molteplice e determinato nasce, prende contorni, forma e durata.

In quanto principio di ogni generazione la terra è vita, così come la phýsis è phýein. A differenza di tutte le cose generate dalla vitalità della terra, la vita come tale non ha fondamento, né ragione del suo essere. Per questo Nietzsche può dire:

Nel tuo occhio guardai or non è molto, o vita! E mi parve di sprofondare nel senza-fondo. Ma tu mi riportasti a galla con lenza d’oro; ironicamente ridevi, perché ti avevo chiamata senza-fondo.6

Se “senza-fondo” è l’origine, senza senso finale è il suo protendersi: “La vita vuole salire e salendo superare se stessa”.7 In questo modo la vita della terra si annuncia come volontà di potenza. Dal superuomo creatore, Nietzsche ritorna, con il pensiero, all’atto del creare, alla volontà di potenza della terra stessa:

Sì, tu sei per me quella che infrange tutti i sepolcri. Salve a te, mia volontà! E solo dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni.8

Dal sepolcro di Dio e della metafisica risorge il significato originario della phýsis, obliata per tutto il corso dell’Occidente. A scoprire la lapide è la volontà di potenza, in cui Nietzsche vede la matrice di quell’idea metafisica che ha spinto l’uomo ad assicurare gli enti e se stesso tra gli enti, mediante la posizione di Dio che tutti li fa valere. Andare al di là del bene e del male, misconoscere i valori, proclamare la morte di Dio significa riconoscere l’impossibilità di affidare a un mondo sovrasensibile di enti o a un Ente privilegiato il compito di salvare l’ente dal nulla.

Questo compito appartiene all’essere (in Nietzsche alla “terra”), il cui destino (Geschick) è appunto quello di far accadere (geschehen) l’ente. Strappare all’essere il suo destino per affidarlo a un Ente privilegiato è oblio dell’essere, per Nietzsche è “infedeltà alla terra”, e a un tempo ricerca affannosa di qualcosa che assicuri durante la sua assenza. Proclamare la morte di Dio significa allora riconoscere l’impotenza radicale del mondo sovrasensibile nei confronti di quello sensibile, significa aprirsi la possibilità di un recupero del senso dell’essere.

Il recupero è indicato da Nietzsche proprio nella direzione della volontà di potenza, che vuole sempre di più ciò che la metafisica ha sempre voluto: la sicurezza dell’ente, l’eliminazione della sua problematicità. Ma la volontà di potenza, così come ce la presenta Nietzsche, non si arresta al possesso di alcun ente, ma, insaziabile, oltrepassa ogni ente e ogni possesso. Essa vuole sempre di più, e in ciò rivela che non vuole mai abbastanza, che è insufficiente al suo compito, che la fondazione dell’ente, la sua assicurazione resta sempre da eseguire. La volontà di potenza denuncia in tal modo un’insufficienza, denuncia l’impossibilità di assicurare definitivamente l’ente, di sottrarlo alla sorte precaria consegnatagli dall’essere.

Il sempre di più della volontà di potenza rivela il sempre meno dell’ente nei confronti dell’essere, la sua insopprimibile precarietà, per cui dire volontà di potenza equivale a dire impotenza dell’ente a essere garantito dalla possibilità di precipitare nel nulla. In questo senso la volontà di potenza “infrange i sepolcri”, ovvero quella serie di tentativi messi in atto dalla metafisica per assicurarsi l’ente e per custodirlo da ogni possibile rapina. Infrangendo i sepolcri, la volontà di potenza annuncia resurrezioni.

Dal sepolcro di Dio, che custodisce la morte del più alto tentativo messo in atto per assicurare l’ente, risorge la terra come la “Grande Madre” che accoglie ogni “amaro morire” e “ogni cosa peritura”. L’ente è così restituito alla precarietà del suo essere, e l’essere riappare in quella differenza ontologica, dal cui oblio ha preso le mosse l’Occidente, la terra della sera.

Con Nietzsche, che decreta la fine dell’ultimo tentativo metafisico, si annuncia una nuova filosofia che prelude l’aurora di un mondo disincantato, non più coperto dalle nebbie metafisiche e dalle nuvole teologiche, un mondo che è “territorio di caccia dello spirito libero” perché si è liberato di Dio. Lì giungono, scrive Nietzsche:

I doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera, ora gioiosa e ora meditabonda, sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino.9

1 Sulla figura della “Grande Madre” si veda U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 11: “Dalla terra al cielo”, pp. 93-105.

2 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Adelphi, Milano 1973, vol. VI, 1, § 3, p. 6.

3 Id., Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in Opere, cit., 1972, vol. III, 1, p. 105, parla de “La via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose (Der Weg zu den Müttern des Seins, zu dem innersten Kern der Dinge)”.

4 Ivi, “Sulle isole Beate”, p. 101.

5 Ibidem.

6 Ivi, “Il canto della danza”, p. 131.

7 Ivi, “Delle tarantole”, p. 121.

8 Ivi, “Il canto dei sepolcri”, p. 136.

9 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein buch für freie Geister (1878-1880); tr. it. Umano troppo umano I, in Opere, cit., 1965-1967, vol. IV, 2, § 638, p. 305.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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