30.

Aristotele: il custodirsi della parola e il suo alienarsi nella traduzione dell’Occidente

Ma in che lingua traduce la terra della sera, l’Occidente?

M. HEIDEGGER, Il detto di Anassimandro (1946), p. 347.

Di Platone s’è detto.1 Con lui, la phýsis, l’essere dell’ente, cade sotto il giogo dell’idea che, nel suo ambiguo significare, conserva e a un tempo smarrisce quel senso originario che il pensiero aurorale le aveva affidato insieme a quelle parole (ápeiron, lógos, èn pánta) che risulteranno decisive per il pensiero successivo.

Letta in questo contesto semantico, la parola idéa, che Platone ha semantizzato, non altera il senso originario espresso dal pensiero aurorale. Idéa, infatti, significa: ciò che dischiude la visione della cosa, ciò che ha il potere di splendere per sé, di rendersi visibile. In questa accezione l’idea si identifica con l’essere, ossia con ciò che rende presente l’ente.

Ma dall’identificazione Platone passa alla riduzione della verità dell’essere alla verità dell’ente che, rendendosi visibile, entra in manifestazione. Lo svelamento non si riferisce più all’essere, ma all’ente svelato dalla luminosità dell’idea. Quest’ultima, ridotta a quidditas, diviene ciò che è compreso a opera di quel comprendere o noeîn che ha nell’uomo la sua sede.

Sotto il giogo dell’idea, la verità, da manifestazione dell’essere (alétheia), diventa esattezza dello sguardo (orthótes). La verità dun-que cambia luogo, non è più prerogativa dell’essere, ma del pensare umano che si deve adeguare a ciò che “deve essere visto”, all’idéa eretta a norma.

Dalla sua normatività nasce l’etica dei valori, l’etica che si misura su ciò che si pensa valga per sé. L’autonomia del Valore (tò Agathón), la sua indipendenza dall’essere è la premessa fondamentale di ogni successiva teologia e a un tempo lo smarrimento più radicale del senso dell’essere e della sua verità per tutto il corso dell’Occidente. In questo senso Platone è l’anima dell’Occidente. La sua idéa ancora non sancisce il definitivo oblio dell’essere, il suo significato rimane nell’ambiguità del dire originario e del suo tra-dire. Ma l’ambiguità già ospita le premesse che si concederanno all’oblio.

Aristotele riprende e continua l’ambiguità platonica. La sua meta-fisica è in fondo un’attenzione alla phýsis, la cui essenza è scorta nella “motilità (kínesis)” intesa come “venire alla presenza”. Per questo la determinazione dell’essere del moto diventerà un punto essenziale della domanda aristotelica intorno alla phýsis.

La phýsis è arché. La parola significa “principio”, ciò da cui la cosa prende le mosse per uscirne, e “dominio” per il primato che le deriva dall’essere principio. Definire la phýsis principio del movimento (archè kinéseos) significa riconoscerle la dinamicità genetica propria di ciò che, principiando, fa uscire e conduce alla presenza.

La phýsis è ousía. La parola è stata resa dalla latinità successiva con “sostanza”, “essenza”. Ousía è invece propriamente l’entità dell’ente, ciò che fa dell’ente un ente: l’essere dunque, che, rispetto all’ente, sog-giace (hypo-keîsthai). Di qui la definizione aristotelica “La natura è un soggiacere e consiste nel soggiacere”.2

Ousía è inoltre un modo della presentazione, della parousía. Dire che la phýsis è ousía non significa parlare della “sostanzialità della natura”, ma della presenza dell’essere che, rispetto all’ente, si mostra come ciò che sog-giace (hypo-keímenon). In quanto parousía, l’essere della phýsis è indimostrabile, perché la sua ousía si mostra da sé. Per questo Aristotele dice che: “Voler dimostrare l’essere della phýsis è ridicolo perché l’essere della phýsis è ciò che si mostra da sé”.3 La phýsis è allora kínesis verso lo svelamento. Il suo svelarsi è il suo presentarsi, la sua ousía è parousía.

La phýsis è inoltre considerata da Aristotele nelle modalità della forma (morphé) e della materia (hýle). I due termini non sono pensati in quella concezione statica dell’essere propria della filosofia medioevale, che interpreta la forma e la materia come due componenti dalla cui sintesi risulta l’ente di natura. Hýle e morphé sono pensate a partire dalla motilità della phýsis, e precisamente: la materia è in vista del suo impiego, dal quale sortisce la motilità in essa contenuta, che giunge alla forma o punto d’arrivo della motilità stessa. In questo senso la materia è potenza (dýnamis) e la forma è idea (eîdos), ossia è l’aspetto che assume la motilità nella quiete a cui perviene. Detta quiete o fine del moto è l’entelécheia aristotelica.

Entelécheia significa il moto (dýnamis) che scaturisce dall’impiego della materia che, quando giunge alla forma, si possiede (échei) nella sua fine (télos). In questo caso, invece di télos, troviamo érgon, ossia l’opera in cui l’enérgheia trova il proprio compimento. In quanto la motilità della phýsis si possiede nella sua fine, in quanto perviene al suo compimento, si presenta nel suo aspetto (eîdos). Pensati in modo greco télos ed érgon coincidono con l’eîdos, ossia con l’aspetto che la natura assume nel compiersi della sua originaria motilità (dýnamis).

La speculazione latina ha tradotto enérgheia e dýnamis con actus e potentia, perdendo così ogni significato contenuto nel pensare aristotelico e in genere greco. Questo perché la considerazione medioevale non avviene più nell’ambito della phýsis, ma nell’ambito della rivelazione di Dio, della creazione dell’universo, di Dio fine ultimo, il cui possesso vanifica per l’uomo il cosmo destinato alla distruzione.

È perciò comprensibile che la speculazione medioevale si trovi nell’impossibilità di pensare a partire dalla natura, di riflettere sull’etimo di questa parola che viene da nasci, nascere, trarre origine (per cui natura è, come phýsis, ciò che genera e fa scaturire da sé), ma trovi ovvio contrapporre la natura allo spirito, la cui elevazione esige la dominazione e la soggezione della natura.

In questo contesto le parole aristoteliche, che ancora custodiscono il senso del pensiero aurorale, diventano principi assunti come schemi entitativi fondamentali del comporsi della realtà finita, o natura, ridotta a ens creatum. Con essi si sviluppa uno schema di gradi entitativi quali: materia-forma, substantia-accidens, essentia-esse (poi existentia), che si compongono e gerarchicamente si articolano, per sublimarsi in quello schema comprensivo di tutto il reale che mette capo all’ente Dio, pensato come l’Essere che sussiste per sé “Ipsum esse subsistens.

Se, partendo da questo contesto, si riprende in considerazione la parola potentia, si nota che questa ha un’impostazione semantica lontanissima dalla dýnamis aristotelica, perché esprime la potentia passiva o receptiva, l’aristotelica capacità di patire (dýnamis toû páschein). L’attuosità della dýnamis aristotelica si trasferisce nell’actus che, in quanto attività, non ha più niente del compimento nell’érgon implicito nell’enérgheia. C’è in questa traduzione non soltanto una trasposizione dello spazio significativo e fenomenico aristotelico, ma anche un disorientamento semantico in cui le parole si disarticolano e si smarriscono, in seguito allo smarrirsi del senso dell’essere.

L’ón aristotelico è sottratto alla sua ambivalenza di essere-ente (eón), e quindi all’ambito fenomenico che consentiva di coglierlo nella concretezza e consistenza propria dell’ente sperimentato nel suo essere. Esso non è più l’ens-esse, ma, con tutto il rigore del metodo scolastico nel suo articolare distinzioni e definizioni, è l’id cui competit esse, quindi l’essentia rei, anzi, come precisa Tommaso d’Aquino: “Illud ad quod intellectum omnem incipere et resolvere necesse est”.4

Risolto in questa accezione, l’ón aristotelico diventa la ratio comunissima a cui fa riferimento ogni ratio, lo schema di ogni concetto, la notio entis nella quale si muove ormai tutto il discorso dell’essere, che, a questo punto, da “metafisico” diventa propriamente “logico”, non nel senso di una fondazione metafisica della logica, ma nel senso di un assorbimento dell’essere nel pensiero, anzi nella sua espressione intellettuale.

Con tutto ciò l’essere non scompare. In Tommaso d’Aquino, per esempio, assume una posizione di primo piano, ma il suo significato è sempre più ontico e statico. A esprimerlo ricorrono i termini subsistere o existere che corrispondono all’hypárchein aristotelico, ma con ben altro posto e peso semantico.

Il termine existentia, infatti, che tanta fortuna avrà nella speculazione medioevale, conserva l’antico significato dinamico di un essere che viene all’essere, ma questa dinamicità è subito costretta nella categoria intellettuale della causalità. Riccardo di San Vittore, per esempio, definisce l’existentia: “ex aliquo sistere, ex aliquo esse”,5 mentre Tommaso d’Aquino, dopo averla spogliata di ogni dinamicità intrinseca, la fissa in un’onticità statica, a cui l’agere le si aggiunge come un ulteriore grado entitativo: “Existentis est agere”.6

Nel latino patristico e scolastico e nel greco stesso delle discussioni teologiche dei primi secoli del cristianesimo, il “sog-giacere” dell’essere nei confronti dell’ente, l’hypárchein aristotelico, viene distinto nei due ambiti fondamentali della sub-stantia e del sub-jectum. Ma l’immissione di queste parole nell’universo ontico che si va affermando, nella dimenticanza dell’essere, ha fatto della substantia il corrispondente dell’ousía aristotelica, senza peraltro riuscire a corrispondervi.

Ousía è parola che non fu tradotta. Il suo senso genuino, da ricondurre a quello di presenza (parousía), nella latinità medioevale restò inafferrato. Ne è una prova la definizione tomista di substantia come “Ciò a cui l’essere compete in sé e non in altro, come nel caso del soggetto (Id cui competit esse in se et non in alio tamquam in subjecto)”,7 dove, a parte l’ambiguità del subjectum, non v’è più nulla di quell’impostazione fenomenologica che l’ousía aristotelica ancora possedeva. Ciò che dalla definizione tomista emerge è, infatti, l’inseità di un essere in sé e per sé, un sostenersi nel proprio in sé, da cui si distingue ciò che in sé non si sostiene e quindi inerisce, l’accidente.

Dalla parousía dell’essere al sostenersi in sé dell’ente, questo è il travisamento di una traduzione che proseguirà con Cartesio, per il quale la sostanza è: “La cosa che esiste in modo da non necessitare d’altro per esistere (Res quæ ita existit ut nulla alia re indigeat ad existendum)”,8 e Spinoza che la definisce “Ciò che è in sé ed è concepito per sé (Id quod in se est et per se concipitur)”.9

La definizione spinoziana si riferisce alla sostanza divina, all’Ipsum esse subsistens tomista. In Dio l’inseità della sostanza è assoluta, mentre nell’ens creatum l’inseità sostanziale è partecipata, è posseduta per aliud. Il concetto di “partecipazione”, che così si introduce, ancora conserva le tracce di quella geneticità della phýsis, per la quale l’essere si partecipava nell’ente. Il senso di questa partecipazione si smarrisce con Platone; la sua méthexis e la sua mímesis lasciano nell’incertezza e nell’ambiguità un rapporto che ormai si profila in termini ontici, anche se il primo termine, tò Agathón, non si determina tanto nel suo in sé, quanto nel suo effondersi e parteciparsi alle idee.

In Aristotele, sotto il quadro cosmico apparentemente definito in modo mirabile, l’ambiguità prosegue, e accanto a una chiara impostazione causale, per la quale: “Tutto ciò che si muove è mosso da altro”,10 si nota la traccia platonica di tono finalistico per la quale il primo motore “muove in quanto è amato”.11

Ritroviamo il concetto di “partecipazione” nell’apórroia di Plotino, che è quell’efflusso che, traboccando da sé, si espande. In seguito, per distinguerla dalla creazione, l’apórroia fu resa con emanazione, a proposito della quale, scrive Plotino: “Tutti gli enti, finché sussistono, emanano necessariamente intorno a sé e fuori di sé, dal fondo della loro essenza, una certa esistenza connessa alla loro attuale virtù”.12

Nel pensiero cristiano il concetto di “creazione” si distingue dal concetto plotinico di “emanazione” per la caratteristica della libertà. Eppure anche la concezione tomista di creazione risente dell’ambiguità aristotelica di efficienza e finalità. Dio è infatti causa essendi che comunica il proprio essere e fa essere.13 Nello stesso tempo però è anche “Bonum diffusivum sui esse”.14

È questa un’espressione che Tommaso ricava da Dionigi Areopagita,15 e che, riferita all’essere, ne esprime la geneticità e l’espansione. Ma ormai ogni significato originario è andato smarrito. Si parla infatti di agire e fare, di produrre, di procedere, si parla di causa e causa essendi in senso efficiente, dove la geneticità non è più dell’essere nell’ente, ma è da ente a ente. Quando Tommaso scrive che “Ogni cosa che è per partecipazione è causata da ciò che è per essenza”,16 il quadro di riferimento è quello di un “partecipare di...” e non di un “parteciparsi in...”, come il pensiero aurorale, lontano da ogni impostazione ontica, aveva pensato.

Di fronte a questo quadro così sconcertante che, nella presunta fedeltà al mondo greco, ne sconvolge la fondamentale esperienza dell’essere, sorge spontanea la domanda di Heidegger: “Ma in che lingua traduce la terra della sera, l’Occidente?”.17 La risposta non lascia dubbi:

La traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che ancor oggi si ritiene. Dietro questa traduzione letterale, e quindi apparentemente garantita, si nasconde invece il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere. Il pensiero latino, infatti, assume i termini greci senza la corrispondente sperimentazione cooriginaria di ciò che essi dicono, senza la parola greca. La mancanza di fondamento del pensiero occidentale comincia proprio con questo genere di traduzione.18

1 Cfr. il capitolo 24: “Platone e il giogo dell’idea”.

2 Aristotele, Fisica, Libro II, 192 b, 33. Recita il testo greco: “hypokeímenon gár ti kaì en hypokeiménoi estín he phýsis aeí”.

3 Ivi, Libro II, 193 a, 4.

4 Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ. Quæstio I: De veritate (1256-1259), Marietti, Torino 1959, questione I, articolo I c.

5 Riccardo di San Vittore, De Trinitate, in J.-P. Migne, Patrologia Latina, Paris 1845-1855, vol. 177, capitolo IV, § 12.

6 Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ (1259-1273), Editiones Paulinæ, Roma 1962, Parte I, questione 77, articolo 1.

7 Id., Summa contra Gentiles (1269-1273); tr. it. Somma contro i Gentili, Marietti, Torino 1967, I, 25.

8 R. Descartes, Principia philosophiæ (1644); tr. it. I principi della filosofia, in Opere, Laterza, Bari 1986, vol. III, Parte I, § 51, p. 47.

9 B. Spinoza, Ethica ordine geometrico demonstrata (1665, edita postuma nel 1677); tr. it. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Boringhieri, Torino 1959, Parte I, 3° Definizione, p. 19.

10 Aristotele, Fisica, Libro VIII, § 4, 256 a.

11 Id., Metafisica, Libro XII, § 7, 1072 b 3.

12 Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, Enneade V, 1, 6, 31-33.

13 Tommaso d’Aquino, Somma contro i Gentili, cit., I, 37.

14 Id., Summa theologiæ, cit., Parte I, questione 5, articolo 4.

15 Dionigi Areopagita, De divinis nominibus; tr. it. Nomi divini, in Tutte le opere, Rusconi, Milano 1983, capitolo IV, 1.

16 Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ, cit., Parte I, questione 61, articolo 1. Recita il testo latino: “Omne quod est per partecipationem causatur ab eo quad est per essentiam”.

17 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 347.

18 Id., Der Ursprung des Kunstwerkes (1935-1936); tr. it. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., p. 9.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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