71.
La volontà di potenza e il superuomo
Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra (1883-1885), p. 6.
Lo scopo non è l’“umanità”, ma il superuomo.
F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1884, fr. 26 (232), p. 192.
Nella dottrina del superuomo Nietzsche ha voluto indicare, secondo Heidegger, l’essenziale distacco che il protagonista dell’oltrepassamento ha posto tra sé e la tradizione che si appella a Dio e ai valori. Il superuomo, pertanto, in questa sua funzione di distacco radicale, non è tanto rivelatore di una sua propria essenza, quanto dell’essenza dell’uomo riscattata dall’alienazione nella “menzogna bimillenaria”. Infatti, osserva Heidegger:
Il “super” nella denominazione “super-uomo” contiene una negazione e significa il sorpassare e l’andare oltre l’uomo finora esistito. Il no di questa negazione è incondizionato, poiché proviene dal sì della volontà di potenza e colpisce in assoluto l’interpretazione del mondo platonica, morale-cristiana, in tutte le sue varianti palesi e occulte.1
Solo uscendo dalla tradizione, e dai valori da questa posti e fatti valere come criteri di giudizio nell’incontro con le cose, è possibile scoprire l’errore e comprendere la storia, soprattutto quando questa coincide con quell’errare prodotto dalla dimenticanza della verità dell’essere. Il superuomo (Übermensch) non ha nulla da spartire con lo sfruttamento che di questo concetto hanno operato fascismo e nazismo quando si riferivano all’uomo che si mette al di sopra degli altri (über-alles) nella morale o nella lotta per il potere. Ciò oltre cui va l’Über-mensch è l’uomo come è stato finora, l’uomo del tu devi, l’uomo che si è assoggettato a Dio e ai valori, e non ha riconosciuto nella volontà di potenza l’unico fondamento del loro valere.2
Il superuomo è l’uomo entrato in una “seconda innocenza”3 perché si è liberato del concetto di colpa connesso a quello di Dio. Come tale, egli si pone “al di là del bene e del male” perché è giunto all’ultima verità che “proibisce a se stessa la menzogna della fede in Dio”.4 Liberandosi dal sovrumano, l’uomo diventa superuomo.
Il disincanto dei substrati troppo umani di tutto ciò che è ideale e trascendente non conduce solo alla distruzione della volta celeste della religione, della metafisica, della morale che l’uomo ha eretto al di sopra della sua esistenza, non conduce solo alla morte di Dio e alla svalutazione di tutti i valori, ma provoca anche un rivolgimento dell’uomo, un mutamento della sua posizione, della sua esistenza, che non può più essere definita in relazione alla trascendenza.
L’uomo non cerca più mete fuori di sé, ma, in sé, passa dal “tu devi” all’“io voglio”.5 Da Santo, da Artista, da Saggio, che sono poi le modalità in cui si esprime la grandezza dell’uomo nella forma dell’estraneazione, l’uomo diventa “Spirito libero”, diverso tanto dal “grande uomo” che realizza se stesso nell’ideale, quanto dal “piccolo uomo” che ha come unica possibilità di esistere quella di sottomettersi all’ideale. L’uno e l’altro sono gli “ultimi uomini” che vivono come schiavi della prepotenza della ragione, che a sua volta vive perché riesce a tenere in vita quegli ideali e quei valori a cui gli ultimi uomini si sottomettono. Democrazia borghese e socialismo, gli ultimi ideali della prepotenza della ragione, fanno dell’uomo un animale da gregge, a proposito del quale Nietzsche scrive:
Ecco! io vi mostro l’ultimo
uomo. “Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella?” –
così domanda l’ultimo uomo e strizza l’occhio. La terra allora sarà
diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo che tut-to
rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di
terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti.
“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e
strizzano l’occhio. Essi hanno lasciato le
contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama
anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore.
Ammalarsi ed essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo
dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e
negli uomini!
Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto
veleno alla fine per morire gradevolmente. Si continua a lavorare,
perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento
non sia troppo impegnativo. Non si diventa più né ricchi né poveri:
ambedue le cose sono troppo fastidiose. Chi vuole ancora governare?
Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo gravose. Nessun pastore e
un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali:
chi sente diversamente va da sé al manicomio.
“Una volta erano tutti matti” – dicono i più raffinati e strizzano
l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come
sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì,
ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non
guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza
per la notte: salva restando la salute.
“Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e
strizzano l’occhio.6
I valori della tradizione che trattengono il gregge non valgono per il superuomo che fa la sua comparsa con la morte di Dio. Questa morte esige dall’uomo, che crea con la volontà se stesso e a cui nessun Dio dice più che cosa deve fare, che egli giunga, assieme alla liberazione da Dio, anche al superamento dell’uomo. L’uomo perde così la sua posizione tradizionale di essere compreso tra l’animale e Dio, senza per questo prendere il posto lasciato vacante dalla morte di Dio.
Il superuomo non sostituisce Dio, ma, liberatosi di Dio, fa perno su se stesso come su di una corda tesa sull’abisso del nulla che si è spalancato con la morte di Dio. La sua esistenza, come quella dell’acrobata nel preludio dello Zarathustra, è essenzialmente in pericolo.7 Il rischio e il pericolo sono i caratteri che competono all’uomo che si è liberato dalla sicurezza in cui era custodito (anche se come schiavo) dalla pre-potenza della ragione, che realizzava il suo scopo con la magia di quegli ideali che dicono felicità, virtù, giustizia, pietà, speranza ultraterrena. Rendersi conto di questo, scrive Nietzsche, significa aver inteso che:
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo – un cavo al di sopra dell’abisso. Una passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, perché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.8
Il superuomo vive la condizione “umana” come trapasso (Übergang), ponte (Brüche) e guarda l’ultimo uomo per superarlo. Il superuomo è Zarathustra che, scendendo dai monti che hanno ospitato la sua solitudine, annuncia al vecchio santo, che ancora prega nella foresta, che Dio è morto.9
Se la dottrina del superuomo nasce in così stretta connessione con la morte di Dio, la sua portata non è antropologica, ma metafisica. L’über di Über-mensch indica l’inizio di una nuova era dominata non più dai valori, ma dalla loro svalutazione operata dalla volontà di potenza che, volendo se stessa, ripete se stessa. Non a caso l’uomo diventa superuomo quando l’ente si presenta come eterno ritorno dell’identico, quando cioè è superata la concezione del valore incondizionato dell’ente, e questo è rigettato nel gioco dell’essere che, come quello del fanciullo, non ha scopi né fini da realizzare. Per questo al “tu devi” del cammello deve subentrare l’“io voglio” del leone. Ma, avverte Nietzsche:
Ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve ancora diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota che gira da sola, un primo moto, un sacro dir di sì. Sì per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista da sé il suo mondo.10
A commento di questa riflessione di Nietzsche, Heidegger scrive che:
L’eterno ritorno dell’identico è il nome per l’essere dell’ente, mentre super-uomo è il nome per l’essere umano che corrisponde all’essere dell’ente. Solo quando l’essere dell’ente si rappresenta all’uomo come eterno ritorno dell’uguale, l’uomo può passare sul ponte ed essere colui che passa oltre, il superuomo. [...] Come maestro dell’eterno ritorno e del superuomo Zarathustra non insegna due cose diverse. Ciò che egli insegna è strettamente connesso, perché l’una dottrina richiama l’altra.11
Se l’ultimo uomo è circoscritto nell’orizzonte ontico in cui domina la prepotenza della ragione, il superuomo è colui che oltrepassa questo orizzonte e si dischiude a quel nulla di ente che è condizione dell’apparire dell’essere. Ma in quanto il tempo presente è compreso nella storia dell’assenza dell’essere, per descrivere l’essenza del superuomo manca il linguaggio, né si può impiegare quello a disposizione dell’ultimo uomo, inadeguato al senso dell’essere. Per questo Così parlò Zarathustra è “un libro per tutti e per nessuno”. Se oggi, fa osservare Heidegger, questo sottotitolo si è avverato in senso opposto, è perché l’opera è stata letta da tutti senza che nessuno si sia mostrato all’altezza di comprenderla nella sua intima problematica e nella sua portata essenziale che è riferimento all’essere.12
Per comprendere il senso del superuomo bisogna ricondursi a quella phýsis che si annuncia oltre l’ente e in cui la volontà di potenza si risolve. La morte di Dio, infatti, riconsegna l’uomo e la natura a se stessi, riscattandoli dall’alienazione bimillenaria che li aveva definiti in funzione di Dio. Morto Dio, uomo e natura si ridefiniscono in quel rapporto di reciprocità già noto al pensiero aurorale, e poi dissolto con la comparsa di Dio. Per questo la seconda proposizione fondamentale, a cui Nietzsche dà particolare rilievo nella Prefazione a Così parlò Zarathustra, dopo la prima che proclamava la morte di Dio, dice: “Io vi insegno il superuomo”,13 l’uomo cioè che oltrepassa (über) la sua definizione bimillenaria che lo rapportava a Dio, per ricomprendersi in quell’Uno-Tutto che è la natura.
L’essenza dell’uomo viene così a identificarsi con l’essenza del mondo che non è più creatura di Dio, ma totalità che tutto abbraccia, al di qua della distinzione platonica tra mondo vero e mondo apparente, al di là del bene e del male. Liberato da Dio, l’uomo non è più quella soggettività privilegiata a cui il mondo è consegnato come oggetto di conquista, secondo il comando biblico e il tentativo realizzato dal pensiero moderno, ma è la forma suprema dell’essere dove tutte le cose trovano la loro corrente e la loro controcorrente, il loro flusso e riflusso.
Designando l’essenza vitale di tutto l’essere, la volontà di potenza anima sia il mondo naturale sia il mondo dell’uomo, entrambi accomunati dall’essere processo e accadimento. Il mondo naturale che tutto abbraccia, “l’anello degli anelli”,14 non è creato, come diceva Eraclito, né da un Dio, né dall’uomo.15 Al pari della phýsis greca, esso esiste da sempre come fatto supremo senza inizio e senza fine. Per questo, nell’annunciare “la nuova concezione del mondo” Nietzsche scrive:
Il mondo sussiste; esso non è niente che divenga,
niente che perisca. O piuttosto: esso diviene, perisce, ma non ha
mai cominciato a sussistere, né ha mai cessato
di perire, esso si conserva in
entrambi i processi, vive di se stesso, i suoi escrementi sono la
sua nutrizione.
L’ipotesi di un mondo creato non deve preoccuparci neanche per un
istante. Il concetto di “creare” è oggi del tutto indefinibile,
inattuabile nella mente; niente più di una parola, di un rudimento
dei tempi della superstizione, con una parola non si spiega niente.
L’ultimo tentativo di concepire un mondo che comincia è stato
recentemente fatto più volte con l’aiuto di un procedimento –
perlopiù, come si può indovinare, per un recondito fine
teologico.16
Nella nuova concezione nietzscheana, che è poi l’antica concezione eraclitea, il mondo non ha fini da realizzare, né scopi da raggiungere, non è l’effetto di alcuna causa, ma, come dice Nietzsche: “è puro caso (Chaos sive natura)”17 che comprende anche il caso umano:
È davvero beatitudine, non blasfemia, quando insegno: “Su tutte le cose sta il cielo caso, il cielo innocenza, il cielo accidente, il cielo tracotanza”. “Per caso” – questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte le cose, io le ho redente dall’asservimento allo scopo.18
Aderendo alla casualità del mondo, il superuomo supera l’uomo occidentale, sia nella sua versione metafisica che colloca in Dio il senso dell’accadere mondano, sia nella versione laicizzata della tensione metafisica che colloca nel progresso il senso della storia. Il superuomo, infatti, è colui che ha fatto suo l’insegnamento di Zarathustra:
Questo mondo è volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro.19
In questo modo il superuomo taglia i ponti con l’ultimo uomo che ancora vive della “vanità” di essere immagine di Dio, e quindi di occupare una posizione assolutamente privilegiata nei confronti del mondo della natura. Si chiede infatti Nietzsche:
Che cos’è la vanità dell’uomo più vano rispetto alla vanità che possiede il più modesto, per il fatto che nella natura e nel mondo si sente “uomo”?20
Questa vanità ha incantato l’Occidente, facendogli smarrire il senso del “testo originale” della natura. Dallo scire me vivere di Agostino al cogito me cogitare di Cartesio, dall’Io kantiano che accompagna tutte le mie rappresentazioni, all’autocoscienza hegeliana dello Spirito essente per sé, l’uomo occidentale non ha fatto che coltivare la sua vanità, esasperando la sua soggettività in nome di Dio e contro la natura. Il superuomo di Nietzsche, che nasce con la morte di Dio e con il riconoscimento della casualità del mondo, oltrepassa l’ultimo uomo “vano”, e avverte che ciò che importa per l’avvenire è ricondurre l’uomo alla natura, alla natura di tutte le cose. Ma per questo, avverte Nietzsche:
Occorre superare le numerose interpretazioni vane e i significati derivanti, che sono stati finora scarabocchiati e dipinti su quell’eterno testo originale che è l’homo natura. Occorre far sì che l’uomo in avvenire stia di fronte all’uomo e all’altra natura, muto ai richiami dei vecchi uccellatori metafisici, che troppo a lungo hanno suonato col flauto: “Tu sei di più! Tu sei superiore! Tu hai un’altra origine!” – questo potrebbe essere uno strano compito, ma è un compito – chi potrebbe negarlo?21
1 M. Heidegger, Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 774.
2 A proposito della traduzione italiana del termine Übermensch, G. Vattimo, ne Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, propone, a mio parere molto opportunamente: “Il termine ‘oltreuomo’ al più usato ‘superuomo’ per tradurre il nietzscheano Übermensch. E questo per accentuare la trascendenza di questo tipo di uomo rispetto all’uomo della tradizione. L’incapacità di cogliere questa trascendenza e novità sembra accomunare la maggior parte delle interpretazioni che sono state date della filosofia di Nietzsche. Essa avvicina anzitutto, e paradossalmente, la lettura nazista di Nietzsche e quella lukácsiana. [...] Non sfugge a questa riduzione dell’Übermensch nietzscheano all’uomo della tradizione metafisica neanche l’interpretazione di Heidegger che vede in Nietzsche il ‘compimento’ della metafisica occidentale” (pp. 183-184). E ancora: “L’Übermensch di Nietzsche si manifesta come una forma di umanità collocata oltre l’uomo così com’è oggi; non è un’intensificazione dell’essenza uomo quale finora si è manifestata, e nemmeno, come vuole Heidegger, l’uomo in quanto capace di ‘andare oltre’, in una forma che conferma e potenzia soltanto le strutture della metafisica su cui si fonda il nostro mondo” (p. 283).
3 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (1887); tr. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, in Opere, Adelphi, Milano 1968, vol. VI, 2, p. 291.
4 Ivi, p. 364.
5 F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1: “Delle tre metamorfosi”, pp. 23-25.
6 Ivi, Prefazione, § 5, pp. 11-12.
7 Ivi, § 6, pp. 13-14.
8 Ivi, § 4, p. 8.
9 Ivi, § 2, pp. 4-5.
10 Ivi, “Delle tre metamorfosi”, p. 25.
11 M. Heidegger, Wer ist Nietzsches Zarathustra? (1953); tr. it. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 77.
12 Ivi, p. 66.
13 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., Prefazione, § 3, p. 6.
14 Ivi, “I sette sigilli”, p. 278.
15 Eraclito, fr. B 30: “Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure”.
16 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., 1974, vol. VIII, 3, fr. 14 (188), pp. 163-164.
17 Id., Nachgelassene Fragmente 1881-1882; tr. it. Frammenti postumi 1881-1882, in Opere, cit., 1975, vol. V, 2, Edizione riveduta e ampliata 1991, fr. 11 (197).
18 Id., Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., “Prima che il sole ascenda”, p. 201.
19 Id., Nachgelassene Fragmente 1884-1885; tr. it. Frammenti postumi 1884-1885, in Opere, cit., 1975, vol. VII, 3, fr. 38 (12), p. 293.
20 Id., Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, cit., “Dell’uomo superiore”, § 1, p. 348.
21 Ivi, § 11, p. 353.