88.
Sui sentieri dell’arte alla ricerca del linguaggio
L’essenza del’arte, in cui risiedono contemporaneamente opera d’arte e artista, è il porsi in opera della verità. Dall’essenza poetica dell’arte deriva lo spalancarsi, nel mezzo dell’ente, di un luogo aperto, nella cui apertura ogni cosa è diversa dall’abituale. [...] Il linguaggio, che non è soltanto l’espressione orale e scritta di ciò che deve essere comunicato, è, per prima cosa, ciò che porta nell’Aperto l’ente in quanto tale.
M. HEIDEGGER, L’origine dell’opera d’arte (1935-1936), pp. 56-57.
I sentieri dell’arte dischiudono un senso del linguaggio che non è strumentale ma svelativo. L’arte, infatti, non usa le cose se non per esporle nella loro verità. In questo senso l’opera d’arte è opera di verità. Ciò che essa dischiudendo espone (Auf-stellung) è un mondo (Welt), che però non è chiuso in se stesso, ma dischiuso a quella terra (Erde) che lo produce (Her-stellung). A essa il mondo dischiuso rinvia senza poterla includere, per cui la terra si rivela nel mondo dischiuso dell’arte come ciò che si sottrae all’apertura che fonda. Scrive infatti Heidegger che:
La Terra è l’autochiudentesi (das Sichverschliessende) per essenza. Porrequi la Terra significa portarla nell’apertura come ciò che da sé si chiude.1
La terra, come marmo di un tempio, come colore di un quadro, dischiude un ordine di vita e di morte che esprime il senso di una determinata umanità storica. Ma il marmo, il colore, in una parola, la terra, nell’esporre questo mondo, non si fa osservare, non richiama l’attenzione su di sé, bensì sul mondo che essa, esponendo, dischiude. Nell’esporre il mondo, la terra si sottrae, si custodisce in sé come l’essere che, nell’esporre l’ente, si sottrae e, trattenendosi, si custodisce. In questo senso l’opera d’arte è opera di verità (a-létheia), perché è esposizione che rinvia a un nascosto (léthe) che si trattiene, proprio per consentire all’esposto di esporsi, di apparire.
Tra mondo e terra si stabilisce un conflitto (Streit) che è la stessa messa in opera della verità. Il conflitto non è da intendersi nel senso che uno dei due termini tende a eliminare l’altro, ma nel senso che ognuno dei due richiama l’altro come proprio opposto e, a un tempo, come proprio fondamento. Il mondo dell’opera, infatti, è nulla senza il fondamento della terra o della materia di cui l’opera è fatta, così come la materia viene in luce, sia pure sottraendosi, solo nel mondo dei significati che l’opera istituisce. Per questo Heidegger dice:
Il contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta. Sarebbe però una banale falsificazione della natura di questa lotta se la si intendesse come contesa e rissa, attribuendo a essa solo i caratteri del perturbamento e della distruzione. [...] La Terra non può fare a meno dell’apertura del Mondo se deve essa stessa, in quanto Terra, apparire nel libero slancio del suo autoschiudersi. Il Mondo, a sua volta, non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro. [...] Ma la relazione tra Mondo e Terra non si esaurisce affatto nella vuota unità di elementi indifferenti che si contrappongono. Riposando sulla Terra, il Mondo aspira a dominarla. In quanto autoapertosi, esso non sopporta nulla di chiuso. Invece la Terra, in quanto coprente e custodente, tende ad assorbire e a risolvere in sé il Mondo.2
Ora, questa natura conflittuale, questo implicarsi di una apertura e di una chiusura, che si manifesta come tale nel fondare l’apertura, costituisce proprio l’essenza della verità, come fondo di ogni schiudersi, come aprirsi di un mondo. Sui sentieri dell’arte, il linguaggio si lascia pensare come fondo che dischiude ogni lingua e che, in ogni lingua dischiusa, si rifiuta trattenendosi in sé, per cui dall’aperto bisogna risalire al custodito, dal detto al non detto. Il non detto è la terra da cui nasce ogni modo di dire che dischiude quel mondo e quel popolo che, dicendo, rivela il mondo a cui appartiene. E questo perché, scrive Heidegger:
Ogni lingua è lo storicizzarsi di quel dire in cui per un popolo si apre storicamente il suo Mondo e per cui la Terra è custodita nella sua chiusura.3
Il conflitto tra mondo e terra consente di cogliere la differenza che esiste tra il prodotto e l’opera d’arte. Il prodotto si inserisce in un mondo già aperto, il suo significato è ottenuto sulla base dei rimandi che rinviano ad altre cose già disposte nell’apertura del mondo dischiuso; l’opera d’arte, invece, non essendo come il prodotto il risultato del conflitto, ma il conflitto stesso (Bestreitung) nel suo prodursi, non si colloca in una apertura già raggiunta e pacificata, ma la istituisce dischiudendo un mondo nuovo di significati, che emergono da un fondo che non si lascia mettere del tutto in luce, e che quindi è il fondamento di quel nuovo mondo di cui l’opera d’arte è il primo ente.
Essa, nel dischiudersi, porta con sé il senso indistinto della propria terra, a differenza del prodotto che della propria terra non sa nulla, perché è senza terra, è mero oggetto seriale che non ha in sé il senso del suo esser messo in opera, ma, al di là di sé, nello scopo per cui è stato fabbricato, nell’impiego per cui è stato previsto. Il prodotto utilizza la terra ridotta al complesso delle materie prime da sfruttare, l’opera d’arte, invece, opera con la terra per dischiudere un mondo che non rinvia fuori di sé, perché rimane in quella materia, la terra, in cui è fatto, e da cui un’apertura si dischiude. Infatti, scrive Heidegger:
L’esser-prodotto del mezzo e l’esser-fatta dell’opera hanno in comune il fatto di costituire una produzione (Hervorgebrachtsein). Ma l’esser-fatta dell’opera ha, rispetto a ogni altra produzione, la sua peculiarità nell’esser-fatta-dentro ciò che è fatto.4
Ciò significa che il prodotto testimonia l’uso della terra, mentre l’opera d’arte testimonia ciò che la terra è nel mondo che dischiude e nel fondo in cui si trattiene. Anche la parola può subire la sorte del prodotto o dell’opera d’arte, a seconda che il suo significato sia nel rimando ad altri significati, disposti in un mondo già aperto che più non porta con sé le tracce del conflitto, o sia piuttosto nel rinvio a quel fondo abissale che dischiude mondi e aperture, di cui le parole sono richiamo e testimonianza. Infatti, scrive Heidegger:
Solitamente il linguaggio è inteso come una specie di comunicazione. Serve alla conversazione e all’accordo, cioè, in genere, alla comprensione interumana. Ma il linguaggio non è soltanto e in primo luogo l’espressione orale e scritta di ciò che deve essere comunicato. Esso non si limita a trasmettere in parole o frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta nell’aperto l’ente in quanto ente. Là dove non ha luogo linguaggio di sorta, come nell’essere della pietra, della pianta e dell’animale, non ha neppure luogo alcuna apertura dell’ente e quindi nessuna apertura del non essente e del vuoto. Il linguaggio, nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere al linguaggio e allo svelamento.5
In quanto dischiude nuovi sensi e nuovi mondi, l’opera d’arte sospende il nostro modo abituale di vivere e di pensare, e in ciò è la sua forza e la sua autenticità. Il nuovo dischiuso non è l’originale ma l’originario, non suscita meraviglia ma pensiero, fa pensare ciò che finora era stato impensato, perché trattenuto nel fondo nascosto dell’essere. Per comprendere l’opera d’arte, allora, non è sufficiente ricorrere a criteri o a metodologie critiche, ma è necessario permanere nell’apertura aperta dall’opera, e appartenere al mondo che essa ha istituito. Infatti ciò che opera l’opera, non è un semplice mutamento delle relazioni che solitamente intercorrono tra gli enti, ciò che essa mette in gioco non è un rapporto interno al mondo, ma il mondo nella sua totalità.
Heidegger chiama urto (Stoss) la messa in crisi e la distruzione dei rapporti che prima erano consueti e familiari e poi, con l’intervento dell’opera, diventano stra-ordinari (ungeheuer) e non più sicuri. L’urto è prodotto dal fatto che l’opera rinvia all’essere che l’ha messa in opera, e, così rinviando, si sottrae al rinvio abituale che accompagna la considerazione di ogni ente nella sua relazione con gli altri enti.
L’urto interrompe l’abituale essere tra gli enti, in cerca di sensi e di significati che si lasciano raccogliere nell’impiego e nell’utilizzazione scientifica e tecnica degli enti; distoglie dall’errore a cui questo errare inevitabilmente conduce, per porre fuori strada, su sentieri desueti e disertati dalla ragione scientifica, che conosce solo le strade maestre da essa dischiuse.
Le strade (odós) della scienza, perseguite con metodo (metá-odós), conducono a un progresso che è sconosciuto all’opera d’arte, la quale, come apertura di un mondo, è sempre all’inizio (am Anfang). L’inizio non ha un seguito, quindi è anche conclusione. L’opera d’arte dischiude un mondo che ospita, come primo e unico ente, quell’opera d’arte che l’ha dischiuso.
Concludendosi nel suo inizio, l’opera d’arte custodisce, fa la guardia (Bewahrung) a quel fondo che l’ha istituita e l’ha fondata, non come la ragione fonda (gründet) le sue opere, ma come, nel fondo, affondano (stiften) le opere che dalla terra traggono in dono (Stiftung) vita e alimento.
Affondando nella terra e dalla terra emergendo, l’opera espone la terra senza dissolverla nel dispiegamento. L’opera eventua l’essere; nell’opera l’essere lascia traccia di sé. La successione discontinua delle opere, che hanno in comune il loro radicarsi nell’essere, è la storia (Geschichte) del destino (Geschick) dell’essere, che nulla ha da spartire con la storia (Historie) delle opere della ragione. Queste, infatti, connettendosi tra loro nella dimenticanza della terra, stabiliscono nella loro successione la consequenzialità di un mondo, la sua coerenza e la sua logica, ma non l’apertura di nuovi mondi e l’esposizione di nuovi sensi e significati. In questo senso l’opera d’arte è opera di svelamento (a-létheia) e quindi di verità, a differenza della scienza, perché, scrive Heidegger:
La scienza, attraverso la comprensione e la giustificazione di ciò che nel suo dominio si manifesta come esatto in linea di possibilità e di necessità, non è affatto uno storicizzarsi originario della verità, ma semplicemente l’elaborazione di un dominio di verità nel già aperto.6
In quanto l’opera d’arte dischiude un’apertura, l’opera d’arte deve essere creata, inventata (gedichtet), in questo senso è poesia (Dichtung). Ciò non significa che le varie forme dell’arte debbano sottostare alla forma della poesia nel suo senso ristretto (Poesie), ma che arte e poesia sono tali solo se “poietiche”, solo se pro-ducono (poiéo), se conducono davanti, se creano e inventano (dichten) nuovi mondi, che affondano nell’unica terra di cui sono eventi, doni.
Il primo dono della terra, la prima forma poetica che ha dischiuso mondi, è il linguaggio, perché, scrive Heidegger: “Il linguaggio è poesia nel suo senso più essenziale”.7 Questa essenza non appartiene al linguaggio quotidiano, che nomina gli enti in funzione dell’uso e quindi li manifesta in un’apertura già dischiusa (l’apertura dell’utilità), ma al linguaggio poetico che non manifesta nell’aperto, ma apre l’apertura.
L’apertura dischiusa dal linguaggio poetico non è arbitraria perché, in quanto fondazione (Stiftung), è anche riconoscimento di un fondo che sta alla base della fondazione stessa. La parola allora non fonda arbitrariamente, ma risponde a quel fondo da cui nasce. Quando nomina gli dèi risponde al loro appello, perché scrive Heidegger:
Gli dèi possono venire alla parola solo se essi stessi ci chiamano e ci reclamano. La parola che nomina gli dèi è sempre una risposta a questo richiamo. Questa risposta ha origine di volta in volta dalla responsabilità di un destino.8
L’appello agli dèi è l’appello dell’essere che trascende l’uomo e le sue opere. Rispondendo all’appello, dice Heidegger: “l’uomo testimonia la sua appartenenza alla terra”,9 di cui nomina gli eventi, le aperture “poetiche”, i mondi che la terra dischiude per concedere ospitalità all’uomo.
All’uomo resta la “responsabilità” di non chiudersi nel suo mondo, ma di aprirsi dal mondo alla terra. Ciò è possibile solo se l’uomo non si limita a usare il linguaggio, ma ne fa oggetto di pensiero. Il linguaggio, infatti, scrive Heidegger: “attesta di ogni mondo la creazione e il sorgere, così come la distruzione e il tramonto”.10
1 M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes (1935-1936); tr. it. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 32.
2 Ivi, p. 34.
3 Ivi, p. 57.
4 Ivi, p. 49.
5 Ivi, p. 57.
6 Ivi, p. 46.
7 Ivi, p. 58.
8 M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, pp. 48-49.
9 Ivi, p. 44.
10 Ibidem.