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Jaspers: la scienza cartesiana come deriva teologica e come anticipazione dell’ateismo moderno
Il Greco concepisce il cosmo come un tutto perfetto e ordinato, come il razionale e il conforme alla norma, come l’eternamente sussistente. Il resto ai suoi occhi è nulla, è materia, inconoscibile e indegna di essere conosciuta. Ma se il mondo è creazione di Dio, allora tutto ciò che è, in quanto creazione di Dio, è degno di essere conosciuto; non c’è nulla che non si debba apprendere e sapere. Conoscere è come un ripensare i pensieri di Dio. Qui incontriamo Cartesio.
K. JASPERS, Origine e senso della storia (1959), p. 123.
Sul sentiero dischiuso dall’annuncio biblico, Cartesio costituisce per Jaspers la più interessante conferma della propria tesi che vede l’essenza del pensiero moderno radicarsi nella tradizione giudaicocristiana, la quale, pensando l’uomo come imago Dei, fonda quella metafisica della soggettività, che troverà la sua conclusione nel superuomo nietzscheano che proclamerà la morte di Dio.1 Cartesio è il punto nodale di questa parabola. Il suo cogito, separato dal mondo naturale e dalla comunità umana, privilegia la soggettività pensante, ciò per cui l’uomo è simile a Dio.
Fra le idee innate ospitate dal cogito ci sono quelle matematiche, necessarie per l’assoggettamento del mondo, e quella di un essere assoluto e perfetto che l’uomo, ens creatum, non può essersi dato da sé, ma deve aver ricevuto da chi l’ha voluto a propria immagine e somiglianza. Dal privilegio dell’uomo nasce il depotenziamento della natura, che non è più, come per gli antichi Greci, phýsis originaria,2 ma, come dice Cartesio: “la disposizione e l’ordine che Dio ha stabilito nelle cose create”.3 La stessa distinzione tra res cogitans e res extensa riproduce la distinzione cristiana tra interiorità dell’anima ed esteriorità del mondo. Per lo stesso motivo anche un avversario di Cartesio come Pascal assumerà la distinzione cartesiana per affermare il primato del pensiero autocosciente.4
Al rapporto dell’uomo con Dio Cartesio ha attribuito una fondamentale importanza per la ricostruzione fisico-matematica del mondo naturale, perché la verità del pensiero è fondata sulla veridicità di Dio. Dio e l’uomo sono biblicamente pensati come più vicini di quanto non lo siano l’uomo e il mondo, perché l’uomo può conoscere l’essenza di Dio nella riflessione su di sé, imago Dei, nell’esser-presso-di-sé dell’anima o della mente, senza la mediazione dei sensi rivolti alle cose del mondo esterno. Un’analoga concezione la si ritrova nel cartesiano Malebranche:
Non mi stupisce che la maggior parte degli uomini e i filosofi pagani considerino nell’anima solo il suo rapporto e la sua unione con il corpo senza riconoscervi il suo rapporto e la sua unione con Dio, ma mi sorprende che dei filosofi cristiani [...] considerino l’anima più come forma del corpo che non come fatta a immagine e per l’immagine di Dio; vale a dire, secondo Agostino, per la Verità con la quale soltanto ha un immediato legame. È vero che l’anima è unita al corpo e ne è naturalmente la forma, ma è altrettanto vero che è connessa a Dio con un legame molto più stretto ed essenziale. Il rapporto che essa ha con il suo corpo potrebbe anche non essere, ma il rapporto che essa ha con Dio è così essenziale che, senza di esso, è impossibile concepire la creazione di uno spirito da parte di Dio. [...] Quindi il rapporto che gli spiriti hanno con Dio è naturale, necessario e assolutamente indispensabile, mentre il rapporto che il nostro spirito ha con il nostro corpo, per quanto sia naturale, non è assolutamente necessario, né indispensabile.5
Ma proprio in questa intimità del pensiero umano con Dio si opera quel capovolgimento imprevisto che determina l’ateismo del pensiero moderno fino alla proclamazione nietzscheana della morte di Dio. Cartesio infatti pensa Dio come fondamento della verità del pensiero umano, per cui l’affermazione di Dio altro non significa se non che il pensiero umano pensa sé come divino, e come divino opera con la matematica nel dominio del mondo. Questa è la ragione, scrive Jaspers, per cui:
Dio, che nel sistema cartesiano era servito soltanto alla forma pura dell’argomentazione, per poi scomparire quasi completamente nel contenuto complessivo, in seguito fu del tutto eliminato perché la ragione aveva ormai acquistato fiducia in se stessa, e perché, in fondo, per una ragione assoluta, un Dio era fin dall’inizio del tutto superfluo.6
In possesso della ragione matematica, a cui Cartesio attribuisce un valore assoluto, perché matematico è anche il pensiero di Dio, l’uomo può divenire “padrone e possessore del mondo (maître et possesseur du monde)”.7 In conformità alla sua essenza, infatti, l’uomo non è un corpo intramondano, né un meccanismo fisico, ma coagitatio, Io pensante e volente. Di fronte a simili definizioni, Jaspers osserva quanto superficiale sia il rifiuto cartesiano della tradizione scolastica.8 Al di là del rifiuto proclamato c’è infatti in Cartesio l’assunzione integrale della dimensione intellettualistica e volontaristica che il pensiero medioevale, in quanto cristiano, aveva accuratamente preparato e sviluppato.9
La definizione cartesiana dell’uomo maître et possesseur du monde ricalca quella di Ugo di San Vittore, secondo cui Dio ha creato l’uomo come “possessore e signore del mondo: Se infatti Dio fece ogni cosa per l’uomo, l’uomo è causa di ogni cosa”.10 In questa logica biblica che anima la speculazione medioevale è precontenuta la conclusione atea del pensiero moderno, perché, se è vero che l’uomo non può essere la causa causante del mondo, avendo il mondo, per volere di Dio, la sua causa finalis nella creazione dell’uomo, l’uomo stesso può diventare creatore, qualora questo Dio non sia più degno di fede, e tuttavia continui a sussistere l’idea dell’uomo, imago Dei, com’è prefigurata dalla tradizione giudaico-cristiana.
In Cartesio, Jaspers scorge un altro motivo d’ispirazione cristiana che, sviluppandosi, determinerà esiti anticristiani: l’ansia della certezza incontrovertibile che, raggiunta, servirà da base per l’esercizio della volontà di potenza:
Nella passione che spinge Cartesio verso quella certezza che si impone e si fa valere per sempre e per tutti si sente come una volontà di potenza tutta particolare. Questa volontà di potenza, come l’autentica attitudine scientifica che nasce per le cose, non può accontentarsi delle conoscenze particolari, dei piccoli e minuti risultati dell’indagine, che pure hanno un valore che non va mai perduto, come accade a chi rimane nel campo della scienza e nell’attitudine dello scienziato promossa dall’amore per le cose. La volontà di potenza di un pensatore vuol invece raggiungere la piena totalità delle conoscenze, e ciò che ha valore definitivo nei riguardi dei principi che le servono da base. Essa sente e crede di essere come il taglio che separa due epoche, come la fine dell’errore, come l’inizio della verità.11
Il problema della verità come certezza (Wahrheit als Gewissheit) viene generalmente ricondotto a Cartesio perché fu lui a fondare la verità scientifica sulla certezza del sapere, e a cercare, con il dubbio metodico, di escludere ogni conoscenza incerta, per giungere a una verità non più dubitabile. In realtà la radicalità del dubbio cartesiano si lascia spiegare solo nel contesto cristiano proteso alla certezza, soprattutto nella dimensione della certezza di fede.
Ne è prova il fatto che il problema “dubbio e certezza” precede di molto la nuova scienza cartesiana e si accentua nel periodo della Riforma, quando il crollo della fede nella Chiesa aumenta il bisogno di certezza in una verità salvifica, che ormai la coscienza, liberata dall’autorità e dalla tradizione, deve trovare da sé. Sono testimoni del bisogno di una certezza che superi il dubbio, divenuto col cristianesimo più totale e intenso di quanto non lo fosse mai stato nell’antichità, Tertulliano, Agostino, Lutero e Pascal. I primi due si cimentano con la scepsi classica, Lutero con la professio sceptica di Erasmo, Pascal col dubbio di Montaigne.
Se il problema dubbio e certezza si presenta soltanto in pensatori cristiani, non è fuori luogo pensare che il vero problema sia tra certezza fideistica e dubbio scettico e non viceversa. Il dubbio filosofico non ha, come tale, un proprio rapporto con la fede: la conoscenza scettica e critica dei limiti del sapere, la consapevolezza dell’incertezza che lo caratterizza, non bastano da sole a portare, oltre tali limiti, verso la fede.
La scepsi antica conosce l’epoché che genera l’ataraxía intellettuale, mentre il dubbio cristiano, essendo dubbio intorno alla salvezza, non può acquietarsi nella sospensione del giudizio, ma genera una disposizione che solitamente si risolve con il salto nella fede. Lessing rifiutò ironicamente questo salto perché “la sua testa pensante e le sue vecchie gambe non glielo permettevano”,12 Kierkegaard, che lo compì con tutto se stesso, avvertì che l’incontro che così si operava con Dio rimaneva una certezza elevantesi “sul mare infinito dell’incertezza” perché “il punto di Archimede del religioso”13 è proprio soltanto un punto, su cui non si può stare comodamente a proprio agio.
Questa immagine del punto di Archimede richiama Cartesio che, nella sua ricerca di un punto fisso sulla via del dubbio, credeva di averlo trovato nella soggettività autocosciente. In realtà la soggettività autocosciente, nella sua espressione intersoggettiva e nella sua struttura matematica, era salvata dal dubbio, perché semplicemente ne era lasciata fuori come certezza incontrovertibile e come misura per dubitare di tutte le cose. Ciò consente a Jaspers, nel capitolo intitolato: “La nuova dogmatica” di parlare del dubbio cartesiano come della finzione di un dubbio.
Sebbene Cartesio col suo dubbio abbia cercato di staccarsi da tutto, tuttavia non è riuscito a realizzare un distacco veramente radicale. Egli dubita di tutto ciò che può dubitare allo scopo di raggiungere la certezza, ma non dubita minimamente del genere di questa certezza. Il suo dubbio non è assolutamente radicale, perché presuppone come data una determinata certezza, quella matematica, a cui riconosce un’universale validità, e a cui abbandona se stesso e sottomette i suoi lettori.14
La riflessione cartesiana, infatti, estende il suo dubbio su tutto, fuorché sull’essere cogitante, la cui evidenza appare nei termini di quella chiarezza e distinzione che dissolvono il dubbio nel momento stesso in cui si presenta. Ma che cos’è la chiarezza e la distinzione? Jaspers non ha dubbi: è il presupposto della matematica come norma del veritativo.
Chiaro e distinto sono due attributi che in sé non sono assolutamente né chiari né distinti, se non si applicano al contesto matematico da cui sono tratti.15
Per Cartesio, infatti, qualcosa è evidente in maniera chiara e distinta solo se si lascia tradurre in figura geometrica o in espressione numerica, ma allora l’ordine matematico consente di uscire dal dubbio solo in quanto la matematica è stata prescelta come unica forma veritativa del pensiero, e questo è stato preconcepito, al di fuori di ogni dubbio, come mathesis universalis. In questo senso il dubbio è una finzione, e “ciò che resta da esaminare è il programma grandioso della mathesis universalis”16 che Jaspers così definisce:
Mathesis universalis è l’universalizzazione del pensiero matematico e l’assunzione del suo metodo come valido per la totalità del sapere. [...] In quanto esecutrice del pensiero matematico, la filosofia di Cartesio non cerca il senso dell’essere, ma di un certo tipo di essere, quello matematico, quello cioè che il pensiero umano ha pregiudizialmente anticipato.17
Tale pensiero altro non è se non quella ragione che si deve presumere identica in tutti gli uomini in quanto matematicamente precostituita. È l’intersoggettività intellettuale o, come dice Jaspers, la coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt) che si riduce a quell’organismo logico che, presunto identico in ogni intelletto (das Gleiche für jeden Verstand), è in grado di fondare l’oggettività della conoscenza.
La capacità di pervenire a conclusioni oggettive, che è prerogativa dell’indagine scientifica, su null’altro si fonda che sul previo accordo di operare, nella ricerca, con l’impiego esclusivo dell’intersoggettività intellettuale. Questo comporta l’impiego degli stessi metodi, impostati con identiche categorie, al fine di ottenere risultati identici, se non nel contenuto, almeno nella forma matematica che li rende tra loro comunicabili. Ciò comporta quella successione lineare, e quindi quel progresso, che non a caso si registra solo nella scienza e non nella filosofia che rifiuta di ridursi ad astratta intellettualità intersoggettiva. Questa è la ragione per cui, scrive Jaspers:
Occorre farla finita con il pregiudizio che i filosofi lavorino allineati sullo stesso piano all’avanzamento di una conoscenza alla quale ciascuno porta il suo contributo, poggiandosi sui risultati di quelli che li hanno preceduti, così come accade nelle scienze particolari per i fisici, per i chimici, gli zoologi e i medici. Dobbiamo invece vedere nella società dei filosofi, ciascuno nella sua unicità e tutti nella loro mirabile diversità, riferiti a qualcosa che non è il risultato finale, ma esiste come presenza costante dell’intero.18
È in questo senso, secondo Jaspers, che Cartesio, col suo cogito matematicamente pre-concepito, riduce la filosofia a scienza e alla scienza offre in un sol colpo: 1. la soggettività raccolta nella coscienza in generale o intersoggettività intellettuale, 2. l’oggettività edificabile con l’organismo logico anticipato come identico in ogni intelletto, 3. il metodo matematico o ipotetico-deduttivo, 4. il progresso nella somma dei risultati ottenuti grazie alla loro identica struttura logica che ne consente la trasmissione e la loro disposizione in successione lineare.
L’impostazione matematica della filosofia cartesiana è alla base anche di quel dualismo gnoseologico presupposto che, ponendo l’alterità dell’essere nei confronti del pensiero, determinerà, per tutto il corso della filosofia moderna, il progressivo smarrimento dell’essere, fino al suo risolvimento nell’inconoscibilità del noumeno kantiano, irraggiungibile nella sua inseità.19
Jaspers osserva che alla base del dualismo c’è l’impropria identificazione dell’alterità spaziale con l’alterità coscienziale: “Zwischen räumlichem Dasein der Dinge und Bewusstsein”.20 Che una cosa sia fuori di noi nell’ordine spaziale non significa che sia fuori dal nostro orizzonte coscienziale, ma se l’orizzonte coscienziale è matematicamente predeterminato, la dimensione coscienziale non è più in grado di distinguersi da quella spaziale di natura matematica.
Tutto ciò è ben evidente nella distinzione tra res cogitans e res extensa, operata in base al riferimento positivo della misurabilità dell’esteso, in relazione al quale, il cogito si distingue per la sua non-misurabilità. La definizione negativa della res cogitans, operata in base al criterio matematico della spazialità distinta e misurabile, interrompe l’originaria intenzionalità del pensiero all’essere, ed esclude per tutto il corso della filosofia moderna quella che, a partire da Parmenide, era stata pensata come originaria coappartenenza: “La stessa cosa infatti è pensare ed essere (tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai)”.21
La verità dell’essere originario, la sua originaria manifestazione è così soppressa dal presupposto che riduce la verità alla chiarezza e alla distinzione matematica. L’oggettività dell’essere, pre-definito dalle idee matematiche che dimorano innate in quella coscienza intersoggettiva espressa dal cogito, diventa il nuovo volto della verità, mentre il cogito, che dispone delle condizioni dell’oggettività dell’essere, ne diviene la misura. Matematicità del pensiero e umanismo si dispongono così nell’ordine di premessa e conseguenza.
In quanto matematicamente predeterminato, il problema della verità diventa un problema di metodo. Là infatti dove l’indagine non cerca più il senso dell’essere, ma il suo “volto matematico”,22 là dove “il reale si riduce alla sua corrispondenza a quelle ipotesi matematiche”,23 preconcepite da una ragione che, come mathesis universalis, è pensata “identica in tutti gli uomini”24 ed elevata a “unità del sapere”,25 là dove intuire è “tradurre in espressioni geometriche”,26 e dedurre è “matematizzare”,27 è il metodo, l’unico vero compito della filosofia, perché è ciò che consente di ordinare l’oggettività conseguente, in vista del sapere totale. Infatti, osserva Jaspers:
Se in ogni conoscenza c’è qualcosa di identico, si può stabilire un metodo unico: il metodo universale, e una sola scienza che deve comprendere tutto il sapere: la mathesis universalis. Il “pathos” che anima Cartesio, e che gli fa ricercare la certezza vincolante, si rafforza ulteriormente nella convinzione che il metodo, produttore della certezza, è nello stesso tempo ciò che permette di dominare ogni conoscenza. Per questo Cartesio lo interpreta come methodum ad quasliebet difficultates in scientiis resolvendas, ovvero come un procedimento che rende accessibile alla conoscenza ogni sapere e ogni oggetto. Questo metodo dischiude delle possibilità illimitate. [...] Agire conformemente a questo postulato è la vera e propria ambizione filosofica, e la risposta a questo appello è la ricerca della totalità, dell’essenza unica che fa di un sistema una totalità.28
Con Cartesio dunque la filosofia mantiene la sua essenziale tensione alla totalità, ma la totalità le sfugge perché è anticipatamente e pregiudizialmente limitata, nonostante la retorica del dubbio, alla certezza apodittica (zwingende Gewissheit) della matematica, che, spaziando da Dio al mondo, risolve il primo nel principio della deduzione e il secondo nel logicamente dedotto.
Con Cartesio l’ansia cristiana della certezza ha trovato la sua quiete nella scienza e nella rigorosità del suo metodo. L’intera civiltà moderna, vale a dire la civiltà occidentale compresa fra l’età di Cartesio e la nostra, è caratterizzata dalla fiducia nella scienza. La convinzione che questa possa risolvere tutti i problemi si è diffusa a tal punto che il sapere scientifico ha ereditato la funzione originariamente assolta dalla pratica religiosa: la funzione di dispensatrice di certezza.
La fede nella scienza ha sostituito in gran parte la fede in Dio. Con ciò non si vuol dire che Cartesio eliminò l’esperienza religiosa, ma che la trasformò in un culto della ragione incline a fare di Dio un matematico onnisciente, perché fornito di perfetta consapevolezza intuitiva delle leggi razionali. Da allora in poi gli scienziati divennero i nuovi sacerdoti, finché gli sviluppi della matematica e della fisica, da Cartesio così rigorosamente impostate, non hanno aperto un varco alla critica.
Oggi, infatti, gli assiomi della geometria euclidea, incondizionatamente accolti da Cartesio, e il principio della causalità e della sostanza non sono più accettati dai fisici moderni, perché costoro sanno che la matematica è analitica e che le sue applicazioni alla realtà fisica hanno la validità delle ipotesi, soggette a continue correzioni in base ai suggerimenti dell’esperienza ulteriore. In altre parole essi sanno che non v’è alcuna certezza vincolante, ed è impossibile affidare a un principio il valore di una verità assoluta e a un sistema scientifico la capacità di esaurire la comprensione del tutto.
Ma per riuscire a concepire una dottrina scientifica aliena da ogni aspirazione alla verità eterna era forse necessario che l’ansia della certezza si consumasse nei tentativi del passato, e che la volontà di potenza, a essa sottesa, si rivelasse nella sostanziale impotenza della scienza, nel presente, a risolvere il problema dell’uomo e del senso del suo inconsapevole dimorare nella verità dell’essere.
1 Si veda a questo proposito K. Jaspers, Nietzsche. Einfürhung in das Verständnis seines Philosophieren (1936); tr. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996; Nietzsche und das Christentum (1938); tr. it. Nietzsche e il cristianesimo, Ecumenica, Bari 1978; Zu Nietzsches Bedeutung in der Geschichte der Philosophie, in “Die neue Rundschau”, n. 61, 1950, pp. 346-358; Nietzsches Nachtlied, in Pro regno, pro sanctuario, Callenbach, Nijkerk 1950, pp. 267-271.
2 Cfr. il capitolo 10: “L’essere come phýsis”.
3 R. Descartes, Discours de la méthode (1637); tr. it. Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. I, Parte V, p. 317.
4 B. Pascal, Pensées (1657-1662, prima edizione 1670); tr. it. Pensieri, Rusconi, Milano 1993. Si vedano a questo proposito, nella numerazione Chevalier, il pensiero 210: “L’uomo è manifestamente fatto per pensare, in questo sta tutta la sua dignità; e tutto il suo valore e tutto il suo dovere stanno nel pensare come si deve. Ora, l’ordine proprio del pensiero consiste nell’incominciare da sé, dal proprio autore e dal proprio fine”; il pensiero 258: “Io posso ben concepire un uomo senza mani, piedi, testa. Ma non posso concepire l’uomo senza pensiero: sarebbe una pietra o un bruto”; il pensiero 264: “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante”.
5 N. Malebranche, De la recherche de la vérité (1674); tr. it. La ricerca della verità, Laterza, Bari 1983, Prefazione, pp. 3-4.
6 K. Jaspers, Descartes und die Philosophie, De Gruyter, Berlin 1937, pp. 97-98.
7 R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., Parte V, p. 318.
8 Ivi, Parte I, pp. 293, 297. Scrive in proposito Cartesio: “Non appena ebbi compiuto tutto il corso di studi in capo al quale, di solito, si viene accolti nel numero dei dotti, mutai completamente opinione. Infatti mi ritrovai sotto il peso di tanti dubbi ed errori che mi sembrava di aver tratto dal mio tentativo di istruirmi un unico utile: la crescente scoperta della mia ignoranza”. E ancora: “Per questa ragione, non appena l’età mi permise di sottrarmi alla tutela dei miei insegnanti, abbandonai del tutto lo studio delle lettere e decisi di non cercare altra scienza se non quella che avrei potuto trovare in me stesso o nel gran libro del mondo”.
9 Cfr. Parte V: “Lo smarrirsi dell’essere in intelletto e volontà”. Questo motivo è ribadito da K. Jaspers in Descartes und die Philosophie, cit., p. 84.
10 Ugo di San Vittore, De arrha animæ (1139); tr. it. I doni della promessa divina, in Didascalicon, Rusconi, Milano 1987, p. 229. Il testo latino parla dell’uomo come: “possessorem et dominum mundi. Si enim omnia Deus fecit propter hominem, causa omnium homo est”.
11 K. Jaspers, Descartes und die Philosophie, cit., p. 91.
12 G.E. Lessing, Die Erziehung des Menschengeschlechts (1780); tr. it. L’educazione del genere umano, Laterza, Bari 1951, § 89.
13 S. Kierkegaard, Papirer (1834-1855); tr. it. Diario, Morcelliana, Brescia 1963, I, A, 68 (29 luglio 1835), vol. I, p. 187.
14 K. Jaspers, Descartes und die Philosophie, cit., p. 84.
15 Ivi, p. 38.
16 Ivi, p. 43.
17 Ivi, pp. 42, 14-15.
18 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 192.
19 Si veda a questo proposito G. Bontadini, Studi di filosofia moderna (1966), Vita e Pensiero, Milano 1996.
20 K. Jaspers, Descartes und die Philosophie, cit., p. 102.
21 Parmenide, fr. B 3.
22 K. Jaspers, Descartes und die Philosophie, cit., p. 15.
23 Ivi, p. 53.
24 Ivi, p. 23.
25 Ivi, p. 92.
26 Ivi, p. 37.
27 Ivi, p. 39.
28 Ivi, pp. 43-44.