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Schopenhauer: lo smascheramento della ragione e la volontà di vita

Il soggetto del gran sogno della vita è in un certo senso uno soltanto, la volontà di vivere.

A. SCHOPENHAUER, Parerga e paralipomena (1851), vol. I, p. 304.

La storia della ragione, che dall’esporsi della ratio come anticipazione matematica conduce al suo imporsi come pre-potenza totalizzante, esprime un senso che non è “razionale” ma “volontaristico”. Come progetto di comprensione e di intervento nel mondo, la ragione (Ratio) si rivela come volontà di razionalizzazione (Rationalisierung) che, per essere effettiva, deve potere e non dovere, deve elaborare le forme della volontà (Wille) fino a quelle della potenza (Macht). Nella volontà di potenza è custodita l’essenza della ragione come razionalizzazione del mondo. Qui cade la maschera. Qui incontriamo Nietzsche e il suo “educatore” Schopenhauer.1

La rappresentazione del mondo, regolata dal principio di ragion sufficiente dell’essere, del conoscere, del divenire e dell’agire, che tutto coordina secondo necessità, è “fenomeno” nel senso di apparenza, illusione, sogno, velo di Maya.2 Il “noumeno”, la vera realtà che si nasconde dietro il sogno e l’illusione, è volontà che, irriducibile alla ragione, si sottrae a ogni necessità sia logica, sia fisica, sia matematica, sia morale, anzi della ragione si serve come della propria maschera. Per sottrarsi non c’è che una via: la rinuncia (Entsagung).3

La “rinuncia” schopenhaueriana non deve essere vista come il semplice negativo della ragione kantiana ed hegeliana, ma come lo smascheramento della ragione, come la spiegazione effettiva di ciò che si nasconde alle sue spalle e la promuove. Solo così Schopenhauer diventa esponente critico dell’Occidente e i suoi richiami all’Oriente non privi di significato.

Nella Memoria sul fondamento della morale Schopenhauer scorge il fondamento della morale kantiana nell’universalità della ragione estesa in sede pratica: “Il contenuto della legge si riduce tutto all’universalità”,4 esattamente come per la ragione teoretica, la cui efficacia è però limitata alla fenomenicità. Kant non spiega il fatto del comportamento etico, né se e come il comportamento etico può essere fatto, ma esprime solo la sua doverosità. Il dovere (sollen), così enunciato con tutta la sua categoricità, dice solo la missione della ragione nel campo pratico, non la sua effettualità.

Una simile morale sconta già all’interno quella che per Hegel è la sua “miseria”, perché non dice ciò che gli uomini fanno, ma ciò che devono fare; la sua “innocenza” tradisce la sua inefficacia, la sua scarsa aderenza alla realtà e alla condotta effettiva dell’uomo. Nell’attacco al “dovere” kantiano Schopenhauer è con Hegel, ma a Hegel si contrappone decisamente quando si tratta di stabilire la nuova direzione del comportamento etico.

L’etica hegeliana, che pretende di intervenire nella storia “alla sua altezza”, appare a Schopenhauer come un nuovo mascheramento dell’effettivo comportamento umano, e la sintesi dialettica un nuovo ritrovato della ragione per mascherare le effettive motivazioni che provengono dai bisogni della natura umana. I bisogni determinano la “ragion pratica”, i cui ideali permangono nella misura in cui soddisfano i bisogni; questi ultimi garantiscono l’effettualità della morale, la sua efficacia e giustificazione storica.

Se l’etica soddisfa i bisogni, la ragion pratica che la presiede è puro strumento di soddisfazione. Essa, infatti, non si impone da sé, ma è imposta dalla relazione motivazione-bisogno che, al di là di ogni mascheramento, sta alla base dell’effettualità di ogni morale.

La relazione motivazione-bisogno è la struttura in cui si esprime la volontà di vita, che, in quanto volontà, è mancanza, tensione, ricerca di soddisfazione. L’agire che si manifesta a livello fenomenico come conforme o difforme all’imperativo della ragione è, in realtà, l’attuazione di quell’insopprimibile volontà che non concede libertà di sorta o scelte che non siano a essa vantaggiose. Per questo Schopenhauer scrive: “Tu puoi fare ciò che vuoi, ma non puoi volere ciò che ti pare”.5

Le motivazioni che si adducono come principio di ragion sufficiente dell’agire sono apparenti, irreali, fenomeniche” appunto; suscitano l’azione, ma non la determinano in vista di un “regno dei fini” (Kant),6 o di un piano predisposto dall’“astuzia della ragione” (Hegel)7; l’azione è determinata dall’insopprimibile volontà di vita che dice: carenza, bisogno, tensione, oltrepassamento infinito di sé.

Non il compimento della sintesi dialettica, ma la tensione infinita della volontà spiega l’agire e l’operare dell’uomo nel mondo. Ogni motivazione razionale, ogni imperativo morale che si volesse addurre a sua giustificazione è smascherato dall’insorgere della tensione oltre ogni presunto compimento, dall’insoddisfazione di ogni appagamento che si riteneva compiuto. E come potrebbe essere altrimenti se la volontà di vita è l’essere stesso dell’uomo?

Presupporre che l’agire possa realizzare compiutamente la propria soddisfazione significherebbe presupporre la capacità da parte dell’agire di trasformare la struttura metafisica dell’essere, quindi la capacità da parte dell’uomo di disporre della propria “radice”. Siccome ciò è impossibile, ogni discorso relativo alla libertà dell’agire e alla razionalità del comportamento etico si giustifica solo nel misconoscimento di questa impossibilità.

L’agire non è libero, non ha alcun fine, soddisfa solo il bisogno infinito che lo sostanzia e che lo pone in essere sul piano fenomenico, dove la ragione interviene, con le sue “ragioni sufficienti”, nel tentativo di giustificarlo e di dargli un senso più o meno ultimo. Da questo ingannevole tentativo nascono le morali, gli ideali e i valori che la ragione impone come doveroso realizzare.

Si tratta di “gusci vuoti senza nocciolo”,8 scrive Schopenhauer, che vivono sulla rimozione del momento materiale, corporeo, pulsionale che, riconosciuto, renderebbe impossibile quella riduzione della volontà a ragione su cui non solo la morale kantiana, ma ogni morale edifica le sue costruzioni.

La dimensione logico-rappresentativa, su cui si fonda l’incondizionatezza di ogni imperativo etico, prescinde infatti dalla dimensione genetico-naturale che condiziona i soggetti empirici e che trova espressione nel loro “carattere” che resta invariato dalla culla alla tomba, perché, scrive Schopenhauer: “Ciò che si succhia col latte lo si rigurgita sul sudario”.9

A questo punto il valore dell’agire, dell’operare, dello stesso lavorare (Arbeit) non è nella mediazione dialettica dei soggetti, che la razionalità del sistema vuole integrare, ma è nel grado di soddisfazione che questo agire consente. Soddisfazione senza senso e senza scopo, perché pura esecuzione di una volontà, da cui non si può prescindere perché sostanzia l’essere umano. Nella comprensione dell’ineluttabilità dell’agire, del suo significato strumentale e non ideologico, della sua assenza di significato, in quanto mera esecuzione di una necessità, nasce quella rinuncia-ascesi (Entsagung-Askese) che tenta la liberazione dell’uomo dal mondo.

Il mondo è volontà e rappresentazione. La rappresentazione è il mascheramento razionale della volontà. Ciò che appare come “ragionevole” è semplicemente “volontaristico”. La ragione è inganno perché fa apparire come ordine deliberatamente conquistato ciò che è semplicemente espressione di un’insopprimibile volontà di vita. Scoprirlo è smascherare la ragione, è retrocedere alle sue spalle, onde scorgervi il fondamento irrazionale che la promuove e che, a inganno avvenuto, ricompare in quelle domande che chiedono il senso dell’agire, dell’operare, del lavorare, del darsi da fare in generale; il senso di quel trovarsi così costituiti come volontà volente che, nel possesso delle cose, esprime la propria volontà di vita.

La ragione non cessa mai di offrire “buone ragioni” per vivere, nasconde il tragico sotteso al non-senso della volontà di vita, e così facendo la difende dalla tentazione sempre incombente della rinuncia, che ne determinerebbe l’estinzione per il riconoscimento avvenuto.

La “rinuncia (Entsagung)” alla volontà di vita è la via seguita da Schopenhauer. La sua affermazione, “l’eterno sì (das ewige ja)”,10 e quindi la sua traduzione in volontà di potenza, è la via più coerente seguita da Nietzsche. Infatti una volta che si è riconosciuto l’inganno della ragione, rifiutare la volontà di vita, perché irrazionale, è un permanere nell’ambito della ragione, è un implicito e incondizionato riconoscimento del suo indiscusso valore. Smascherare l’illusione e non accettare la realtà è amare la maschera, è rifiutarsi di abbandonare l’inganno, è compiacenza nichilista senza neppure il conforto dell’illusione. Al proprio essere si preferisce il nulla, per il solo fatto di non aver trovato alcuna “ragione sufficiente” per essere.

Con la “rinuncia” di Schopenhauer non ci si sottrae alla volontà di vita, ma, dopo aver riconosciuto l’inganno della ragione che la difende, ci si sacrifica al suo altare. Questo almeno è il senso che traspare da quelle vie di liberazione che si chiamano arte, compassione, ascesi, che dovrebbero condurre all’evanescenza del mondo, alla sua negazione (Vernichtung).

Il nulla afferma l’effettualità della soddisfazione che nessun agire consegue. Non volere la vita, ovvero quella trama di bisogni e soddisfazioni che la ragione presenta come motivazioni e fini, disinserisce da quell’irrazionalità dell’agire che non ha alcun senso, quindi dall’inganno e dalla volontà di perpetrarlo. Chi non cerca più soddisfazioni è soddisfatto. I nuovi concetti morali vengono dedotti da questo nuovo punto di vista.

La compassione non è il legame dialettico intramondano e storico, ma esattamente l’opposto. Essa significa l’annullamento di qualsiasi interesse per il riconoscimento avvenuto dell’equivalenza del mondo del bisogno e del dolore, dell’impotenza dell’agire, dell’inganno delle ragioni che lo motivano. Una volta riconosciuto l’esse, che determina i fenomeni della vita, non si produce più alcun interesse. Scrive in proposito Schopenhauer:

Che l’esistenza umana debba essere una specie di smarrimento risulta a sufficienza dalla semplice osservazione che l’uomo è una concrezione di bisogni, la difficile soddisfazione dei quali non gli garantisce se non una condizione senza dolore, nella quale poi è dato in preda alla noia. Questa dimostra direttamente che l’esistenza non ha in sé alcun valore: infatti essa non è altro che il sentire la sua vacuità. Se la vita, nel desiderio della quale consiste la nostra essenza ed esistenza, avesse un valore positivo e un contenuto reale in se stessa, non potrebbe esservi noia: bensì la pura esistenza in se stessa dovrebbe appagarci e soddisfarci. Ma noi gioiamo della nostra esistenza solo in questi due modi: o nel desiderio, nel quale la lontananza e gli ostacoli ci fanno apparire la meta come un appagamento – e questa illusione scompare dopo che si è raggiunta la meta – oppure in un’occupazione puramente intellettuale, nella quale, però, propriamente, usciamo dalla vita, onde considerarla dall’esterno come gli spettatori nei palchi. Perfino il godimento dei sensi consiste in un continuo desiderio, e cessa non appena è raggiunto il suo scopo. Ogni volta che non ci troviamo in uno di quei due casi, ma siamo respinti nella nuda esistenza, ci convinciamo della nullità e della vacuità di essa – e questo è la noia.11

L’arte gioca con il mondo, il suo operare non rispetta le regole della ragione, non persegue valori né scopi. L’arte rompe la trama, è accadimento senza sequenza: “Allora vediamo le cose con tutt’altri occhi”12 perché, sottraendosi al principio di individuazione, la coscienza si fa assoluta. Se infatti l’Io individuale, giocato dalla volontà come cieca pulsione, è sempre sofferenza, interesse, bisogno e alla fine noia, la coscienza che si fa assoluta, perché sciolta (soluta ab) dai legami con l’Io, è contemplazione distaccata e onnilaterale di tutte le cose guardate nella loro oggettività, senza interesse, come dalla prospettiva di tutte le prospettive.

Così si esce dal tempo e dalla successione causale per approdare a quell’eterno presente che Schopenhauer descrive come:

Punto inesteso [...] che resta immobilmente saldo, quale un eterno mezzogiorno al quale mai succeda la sera, o come il vero sole, che arde senza intermittenza, benché sembri tuffarsi nel seno della notte.13
Punto inesteso [...] il cui aspetto è come quello dell’arcobaleno sopra la cascata dove milioni di gocce trapassano cangianti, mentre l’arcobaleno, di cui esse sono il sostegno, sta in immobile calma, interamente immune da quell’incessante mutarsi.14

Concedendo di negarsi come individui e di annullare il corso del mondo, scrive Schopenhauer:

La contemplazione estetica, consente di raggiungere quello stato senza dolore che Epicuro stimava il bene supremo e la condizione degli dèi. [...] In tali condizioni è indifferente contemplare un tramonto di sole dal carcere o da un palazzo.15

A questo stadio non si perviene attraverso l’educazione o uno sforzo di volontà, perché il problema è piuttosto quello di annullare ogni volontà o interesse. In questo senso l’atteggiamento estetico, così come l’atteggiamento della compassione morale, non può mai essere l’obiettivo di un processo di formazione, perché, scrive Schopenhauer: “La virtù, come il genio, non si insegna”.16

L’ascesi, che Schopenhauer indica come terza via di liberazione, non è a sua volta una conquista o un merito pratico, ma la possibilità che ha l’uomo di orientarsi verso l’altra faccia della sua natura, quella rivolta al mondo della volontà che interiormente lo abita e da cui può riconoscere che “nulla nel mondo esterno possiede valore”.17

Il suo astenersi da ogni soddisfazione rende perfetto il consumo del mondo, che invece risorge da ogni parziale consumazione compiuta dalla volontà che di continuo promuove bisogni e soddisfazioni parziali. La continuità ininterrotta del processo indica che ogni consumo puntuale non soddisfa, per cui si rinuncia alla consumazione contingente per raggiungere la soddisfazione totale, non come calcolo utilitaristico e quindi come nuovo prodotto della ragione calcolante, ma come oltrepassamento della volontà, in quanto consumazione parziale del mondo.

L’ascesi è la consumazione totale, come insignificanza ed evanescenza del mondo non più inseguito. Il nulla a cui si perviene è nulla per quanti cercano soddisfazioni nel mondo, ma è pienezza per chi rinuncia all’idea di soddisfazione, dopo aver riconosciuto il nulla del mondo e aver rinunciato alla volontà a esso.

Questa è la positività della rinuncia. Per coglierla è necessario un pensiero differente da quello espresso dalla ragione occidentale che ha posto la sua realizzazione nel mondo. È necessario un pensiero che sia in grado di cogliere il positivo nella nullificazione del mondo e il valore dell’agire in quell’agire che, consumandolo, lo vanifica. Un simile pensiero è stato chiamato in Oriente “avvicinamento al Nirvana”. Esso consiste nella rinuncia alle soddisfazioni del mondo, nella padronanza raggiunta nella sua nullificazione, nel disinter-esse che anima chi è giunto al riconoscimento dell’insensatezza del suo esse. Infatti, scrive Schopenhauer:

Per quanto sul teatro del mondo cambino i drammi e le maschere, gli attori sono sempre i medesimi. Sediamo insieme e parliamo e ci sollecitiamo gli uni con gli altri, e gli occhi rilucono e le voci diventano più forti: proprio allo stesso modo migliaia di anni fa altri sono stati così a sedere: era la stessa cosa, erano le stesse persone: e così sarà tra mille anni.18

Compassione, arte e ascesi, le tre vie di liberazione dalla volontà come cieca pulsione, sono tutte giocate sulla rinuncia all’Io individuale che Platone, all’alba dell’Occidente, aveva inaugurato con la nozione di “anima”,19 mentre scrive Schopenhauer: “L’individualità di ognuno è proprio ciò a cui si deve rinunciare”,20 perché il mondo a cui l’individuo si apre è un teatro la cui regia è “dietro le quinte”. Qui non si nasconde alcuna “armonia invisibile”, ma solo la cieca pulsione di una natura (phýsis) che, in tutte le sue espressioni, non vuol altro che vivere.

Nietzsche, “educato” da Schopenhauer a riconoscere la maschera della ragione, non tornerà come il suo “educatore” nelle braccia di quest’ultima, ma potenziando quella volontà di vita che la ragione maschera, e portandola a espressione come volontà di potenza, le affiderà il consumo del mondo nella ripetizione ininterrotta di sé medesima. È infatti volontà che nulla vuole fuorché se stessa. La consumazione del mondo coinvolgerà anche Dio, la cui morte consentirà il riapparire dell’essere in quella cifra che è l’eterno ritorno dell’uguale.

1 F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Drittes Stück: Schopenhauer als Erzieher (1874); tr. it. Considerazioni inattuali, III, Schopenhauer come educatore, in Opere, Adelphi, Milano 1972, vol. III, 1.

2 A. Schopenhauer, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813); tr. it. La quadruplice ragione del principio di ragion sufficiente, Carabba, Lanciano 1932.

3 Sulla rinuncia (Entsagung) schopenhaueriana si veda l’ottimo saggio di M. Cacciari, “Utilità e Entsagung”, in Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, pp. 13-29, a cui le pagine di questo capitolo sono in parte debitrici.

4 A. Schopenhauer, Über das Fundament der Moral (1840); tr. it. Memoria sul fondamento della morale, in I due problemi fondamentali dell’etica, Boringhieri, Torino 1970, p. 217.

5 Id., Über die Freiheit des menschlichen Willens (1839); tr. it. Memoria sulla libertà del volere, in I due problemi fondamentali dell’etica, cit.

6 I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785); tr. it. Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1994, sezione II, pp. 154-155.

7 G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817); tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Utet, Torino 1981-2000, Parte I, “La scienza della logica”, § 209, p. 434.

8 A. Schopenhauer, Memoria sul fondamento della morale, cit., p. 205.

9 Ivi, p. 176.

10 F. Nietzsche, Dionysos-Dithyramben (1882-1888); tr. it. Ditirambi di Dioniso, in Opere, cit., 1970, vol. VI, 4, p. 61.

11 A. Schopenhauer, Parerga und paralipomena. Kleine philosophische Schriften (1851); tr. it. Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano 1981, vol. II, p. 377.

12 Id., Die Welt als Wille und Vorstellung. Ergänzungen (1844); tr. it. Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1930, p. 455.

13 Ivi, p. 322.

14 Ivi, p. 589.

15 Ivi, p. 235.

16 Ivi, p. 313.

17 A. Schopenhauer, Memoria sul fondamento della morale, cit., p. 221.

18 Id., Parerga e paralipomena, cit., vol. II, p. 377.

19 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima (1987), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 7: “La filosofia antica e l’interiorità dell’anima”.

20 A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, cit., vol. II, p. 861.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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