60.

Il principio della ragione: ciò che è reale è razionale

Ciò che è razionale è reale;
e ciò che è reale è razionale.

G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), p. 15.

Se la ragione rappresenta l’autonomia e la potenza propria dell’uomo, rispetto alla sua impotenza quando a dominare era lo scenario mitico-religioso, oggi questa potenza è soverchiata dalla prepotenza della ragione che, resasi autonoma e impersonale, ha inserito l’uomo in rapporti d’esistenza che, costruiti sul modello della scienza, hanno assunto le dimensioni di realtà oggettive e autonome da cui non è possibile desituarsi. La libertà può accordarsi intimamente con la razionalità soltanto se non viene intesa come una libertà da questo mondo razionalizzato, ma come una libertà all’interno di quella che Weber chiama:

La gabbia d’acciaio che determina con strapotente costrizione, e forse continuerà a determinare, finché non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile, lo stile di vita di ogni individuo, che nasce in quanto ingranaggio.1

La pre-potenza della ragione non risiede nella sua potenza di razionalizzare qualcosa, o qualche ambito, che poi diventa dominante fino a estendersi anche agli altri ambiti della vita, ma risiede nel porsi come un tutto originario, come un Umgreifende intrascendibile che, pre-determinando ogni pensiero, ogni parola, ogni atteggiamento e ogni condotta di vita, diventa l’êthos dell’uomo, il suo inoltrepassabile soggiorno. Ilpredella pre-potenza ha quindi un carattere ontologico. Come l’essere precede e condiziona l’accadimento e il senso di ogni ente, e dell’uomo nel suo commercio con l’ente, così l’assentarsi dell’essere, nell’“epoca” occidentale, ha consentito il presentarsi della ragione come quell’a priori ontologico da cui ogni senso dipende.

La proposizione hegeliana “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”2 rappresenta in un certo senso l’esito della logica dell’Occidente che, partita con Platone dalla negazione della razionalità del dato, è giunta con Hegel al superamento di questa negatività mediante la creazione del dato stesso a opera della ragione.

Questa creazione della ragione diventa particolarmente evidente nella società tecnologica, dove uomini e cose si definiscono in funzione della razionalità del sistema. Questo non deve più contrastare una realtà antagonista, come era per esempio la materia che Platone chiama mè ón, perché ogni antagonismo è compreso all’interno del sistema stesso, in cui è definito e risolto. La ragione, infatti, è la verità per gli uomini e per le cose, ossia la condizione per cui uomini e cose diventano ciò che realmente sono.

Nella società pre-tecnologica c’era spazio per diverse concezioni dell’uomo e della natura che consentivano modi differenti di comprendere, di organizzare e di mutare natura e società. Con l’avvento della società tecnologica, rigidamente regolata da criteri scientifici intersoggettivi, e quindi oggettivi e universalmente validi, questo spazio è eliminato, e con esso è eliminata la disequazione tra comprensione del mondo e sua realtà. Il mondo non è più una realtà in sé a cui la ragione si deve adeguare, ma la sua realtà è espressa dalla sua scomposizione e ricomposizione, quindi dalla sua trasformazione messa in opera dalla ragione, che dunque costruisce il mondo e lo fa essere a propria misura.3

Nell’età della tecnica la misura della ragione è quella dell’efficacia,4 che traduce la domanda metafisica di natura essenziale: “Che cos’è?” in domanda pratica di tipo funzionale: “A che serve?”. Il pensiero non è più impegnato con il senso della cosa, ma con il suo impiego. Si abbandona così la cura metafisica dell’essere per prendersi cura della sua valenza strumentale.

Meta-fisica diventa la ragione stessa, in quanto a-priori che predetermina il mondo fisico, anticipando le condizioni e le direzioni della sua trasformazione, in modo che questo diventi ciò che deve essere, ossia ciò che la ragione ha deciso che sia. La ragione sostituisce così l’iperuranio platonico in cui la realtà si dà nella sua verità. Il mondo, come riteneva Platone, è sempre da salvare (sózein tà phainómena),5 da ricondurre alla verità, ma la misura di questa verità non è più nella trascendenza metafisica, ma nell’immanenza della ragione.

Ponendosi come orizzonte della totalità, come Umgreifende intrascendibile, che in base all’efficienza conferisce a ogni cosa il suo senso, la ragione traduce nell’insignificanza ogni domanda che la dovesse investire con una richiesta di senso. Non essendoci alcuna realtà metafisica a cui la ragione deve render ragione, è improprio, all’interno del sistema della ragione, chiedere il senso della ragione o addirittura denunciarne l’irrazionalità. In questo modo la ragione si pone come lo stesso assoluto. Del resto ciò che è razionale è da essa stessa determinato, e irrazionale è solo ciò che ancora attende di essere razionalizzato, cioè realizzato nel sistema, nella catena efficientistica in cui ogni cosa trova la propria ragione.

In questo processo di universale razionalizzazione che domina tanto l’arte e la scienza quanto la vita giuridica, statale, sociale ed economica, dove tutto si inserisce in un sistema di dipendenza onnilaterale, per cui ogni cosa è definita in un processo di universale “funzionalizzazione”, e ognuno è inserito, da un inquadramento inevitabile, nella rispettiva “attività organizzata”, non ha senso accusare la razionalità, risultante da tale processo, come qualcosa di irrazionale o senza senso, perché ogni ragione e ogni senso sono dati dal sistema.

Così, per esempio, giudicare razionale il guadagno conseguito per una vita economicamente sicura, e irrazionale il guadagno “razionalizzato” in senso specifico, cioè in vista del guadagno inteso come fine a se stesso, è improprio, perché non si danno né vita né sicurezza al di fuori del sistema che ha tutto razionalizzato.

Il non-senso che si ritiene implicito in ogni radicale razionalizzazione può emergere solo da giudizi che si rifanno a valori che il sistema o ha superato o sta superando. Ma nella misura in cui i valori sono frutto di valutazioni umane, non ci si può appellare ai valori per destituire di senso il sistema della ragione che valuta se stessa come supremo valore, e che fa valere tutte le cose in base alla loro corrispondenza al sistema che essa ha posto in essere.

Non si può abbattere il sistema dall’interno, o accusarlo di assenza di senso servendosi dei sensi messi a disposizione del sistema stesso. Per abbattere il sistema occorre desituarsi, esprimere la propria libertà come libertà dal sistema e non come semplice creatività personale, che al massimo mette capo a un’incalcolabilità dell’agire che, pur sottraendosi ai calcoli della ragione, fa sempre riferimento alla ragione per definirsi.

Non è contestando il sistema permanendovi che lo si destituisce, e neppure ritirandosi superbamente dopo averne denunciato il non-senso. Per abbattere il sistema della ragione occorre mettere in moto un pensiero che non sia il pensiero del calcolo razionale, e che soprattutto abbia effettivamente qualcosa da pensare che non sia già pensato dalla ragione. Ma oggi si dà questa possibilità? Esiste un impensato da pensare? In assenza del suo rinvenimento, all’uomo non resta che affidare se stesso e le sue cose ai calcoli promossi dalla ragione.

Tanto più l’uomo si propone dei valori da realizzare in apparente antagonismo al sistema della ragione, tanto più integralmente si inserisce nel metodo della ragione che, nel promuovere le categorie di fine e di mezzo, traduce i valori in fini, e i fini in cause efficienti di quel processo efficientistico in cui ripone il proprio senso. Infatti non è stata posta dal sistema quell’identificazione tra razionalità e libertà dell’agire, per cui noi ci sentiamo liberi proprio in quelle azioni che siamo coscienti di aver compiuto razionalmente, cioè senza una costrizione fisica o psichica, e con le quali perseguiamo un fine di cui siamo consapevoli, servendoci dei mezzi da noi ritenuti più adeguati a esso? E non è irrazionale, e quindi non-umano, un comportamento differente?6

Se le cose stanno così non è forse opera dell’uomo l’identificazione della propria essenza con il sistema razionale che lo include? Non è forse questa la meta designata dall’antica definizione dell’uomo come “animale razionale”? Mai come nel nostro tempo la definizione è stata così appropriata. Eppure l’uomo si dimostra insofferente, quasi volesse uscire da sé, dalla sua essenza per porsi al di fuori come ec-sistentia. Questa possibilità non va trascurata, forse custodisce la possibilità di pensare a un impensato capace di smantellare il sistema.7 Ma per questo occorre un’altra logica. E se la logica appartiene al sistema della ragione, ciò che ora si richiede è, secondo la parola di Jaspers, una “alogica razionale (vernünftige Alogik)”, il cui intento è di promuovere l’essenza dell’uomo rimuovendolo dalla razionalità del sistema. Infatti, scrive Jaspers:

Mentre il pensiero logico dispone di una reale potenza, in primo luogo per la sua identità e universale accettazione da parte di tutti gli esseri intelligenti, e in secondo luogo per la sua capacità di conoscere e dominare la realtà delle cose, il pensiero alogico sembra caratterizzato da una sostanziale impotenza, in quanto vuol pensare l’impensabile. Ma nonostante la sua impotenza questo pensiero appartiene all’intima forza dell’uomo che, silenziosamente, si dispone alla verità quando rinuncia ai metodi del pensiero logico che, con determinati mezzi, si volge a determinati scopi.8

Ma come può l’impotenza sopraffare la prepotenza? Come può l’uomo “disporsi alla verità” se la sua situazione storica è quella di essere disposto in quella verità che è l’ordine pre-disposto dalla ragione? Se oggi l’uomo è in grado di riconoscere se stesso solo nell’ordine del sistema, se affida la sua identità alla sua professionalità che lo inserisce anima e corpo nelle relazioni ordinate del sistema, al punto che si smarrisce se quest’ordine per un attimo vacilla, e si disorienta se è sradicato dall’assoluto adeguamento a quest’ordine, che cosa può contrapporre a questo ingranaggio per evitare che almeno un residuo della sua umanità si assoggetti alla razionalità del sistema? Che tipo di libertà è richiesta per affrancarsi? E che tipo di realtà si trova fuori dal sistema che, razionalizzando la totalità del reale, l’ha sganciata da quei valori che la regolavano nelle epoche precedenti, riducendola a sobria e arida oggettività?

Per rispondere a queste domande bisogna ricreare un linguaggio. Quello a disposizione, infatti, è così fortemente condizionato dalla razionalità del sistema che non sa più nominare la cosa per quello che è, ma solo per quello a cui serve. Imprigionato da questo linguaggio, il pensiero non sa esprimersi se non in termini efficientistici che gli consentono di calcolare, non già di pensare. Senza linguaggio e senza pensiero, il nostro, come dice Heidegger, è “tempo di carenza (dürftige Zeit”),9 nonostante l’apparente pienezza prodotta dall’efficienza del sistema che non concede spazi vuoti, né tempi liberi.

Da questi spazi e da questi tempi, che la razionalità del sistema chiama “tempi morti”, può forse nascere ciò che dissolverà il sistema. Ma per questo sono necessari uomini non funzionari, pensieri non calcoli, parole che siano comunicazione non denominazione o definizione. Ma soprattutto è necessario che il sistema, ordinato dalla ragione intersoggettiva, cessi di essere il dato di fatto intrascendibile da cui prende le mosse il pensiero, e diventi un problema su cui il pensiero insiste. Solo in questo caso l’uomo, originario depositario del pensiero, può prendere il sopravvento sulla prepotenza del sistema che, di giorno in giorno, gli impone le cose da pensare e i termini in cui le deve pensare.

La rivoluzione è affare del pensiero. Se l’Occidente fino a oggi l’ha conosciuta nei mutamenti dei rapporti di proprietà, ebbene la prima cosa di cui l’uomo deve ritornare in possesso è la possibilità di pensare, attualmente alienata nell’anonimato dell’intersoggettività della ragione, o, se si preferisce, nei coordinatori dell’efficienza del sistema. Ogni altra rivoluzione che si limiti a trasferire il possesso delle cose opera all’interno del sistema, che proprio in questo possesso si riconosce, e che, pur di mantenersi, è disposto anche a cambiare i possessori. La sua logica, infatti, è logica di dominio e di controllo affinché nessuno sfugga a questo dominio.

1 M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905); tr. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia delle religioni, Utet, Torino 1976, vol. I, p. 32.

2 G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821); tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, p. 15.

3 Questo motivo trova il suo adeguato svolgimento in U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 54: “Il totalitarismo della tecnica e l’implosione del senso”.

4 Ivi, capitolo 38: “La verità come efficacia”.

5 Si veda a questo proposito il saggio di G. Bontadini, Sózein tà phainómena. A Emanuele Severino (1964), in Conversazioni di metafisica (1971), Vita e Pensiero, Milano 1995, vol. II, pp. 136-166.

6 Per un approfondimento di questo tema si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 50: “La libertà come dissimulata schiavitù”.

7 Cfr. Parte I: “L’impensato da pensare”.

8 K. Jaspers, Vernunft und Existenz (1935); tr. it. Ragione ed esistenza, Marietti, Torino 1971, p. 134.

9 M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 57. Recita il testo di Heidegger. “Il nostro è tempo di carenza, perché esso si trova in una doppia mancanza e in un doppio non: nel ‘non più’ degli dèi fuggiti e nel ‘non ancora’ degli dèi venienti”.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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