85.
La fede come tutela della verità
e la fede come dimenticanza e alienazione della verità
Dalla fede filosofica nascono due proposizioni
che ora vorrei giustificare.
A. La religione biblica contiene in germe una pretesa di
esclusività che appare in tutte le sue ramificazioni, ma che forse
non le è né necessaria, né essenziale. Questa pretesa esclusivista,
nei suoi motivi e nei suoi effetti, è la rovina di noi uomini. Per
la verità e per l’anima nostra, noi dobbiamo combattere questa
pretesa che è mortale.
B. Noi filosofiamo a partire dalla religione biblica e vi troviamo
una verità insostituibile.
Queste due proposizioni sono per noi molto importanti, perché
connesse alla questione che oggi è vitale per il destino
dell’Occidente: che cosa accadrà procedendo sulla via che ha preso
le mosse dalla religione biblica?
K. JASPERS, La fede filosofica (1948), p. 117.
La coscienza della problematicità della cifra e del rischio connesso alla sua attuazione sono gli elementi che consentono di distinguere la fede filosofica da quella religiosa. Entrambe sono promosse dalla convinzione che la verità totale non è compiutamente svelata nell’immanenza, dove ogni annuncio è un rinvio, ogni presenza è un richiamo all’assenza. Muovendo da questa consapevolezza, la fede filosofica non conferisce alla cifra, per cui si risolve, il valore di una verità universalmente valida, perché sa che questo carattere appartiene al sapere apodittico della coscienza in generale, che presiede l’organizzazione scientifica del mondo, e non all’esistenza che, ubbidendo a un’esigenza incondizionata (unbedingte Forderung), che è poi la richiesta di una compiutezza di senso, oltrepassa il mondo in vista di quella trascendenza per la quale le categorie del mondo naufragano.
Consapevole di non disporre di una verità universalmente valida, la fede filosofica non scomunica, non dichiara eretici i dissenzienti, non accende roghi, non dispone di libri sacri privilegiati rispetto ad altri, perché contenenti la verità assoluta. La fede filosofica sa di essere per via (auf dem Wege der Wahrheit) e non scambia la via incerta con la meta definitiva. Per questo non riconosce alcuna autorità all’infuori dell’autorità della cifra, in cui ha deciso di credere, per l’indicazione che fornisce e non per il suo imporsi in realizzazioni temporali.
La fede filosofica sa che la cifra è autorevole in quanto rinvia alla trascendenza e non in quanto esplica la propria autorità nel mondo. Il suo realizzarsi nel tempo, se è inevitabile per far udire il proprio annuncio a quanti nel tempo vivono, può obnubilare il significato proprio di ogni cifra che rinvia oltre il tempo. Per questo ogni realizzazione temporale della cifra contiene già il germe della nonverità (Unwahrheit), da cui la cifra può liberarsi solo sottraendosi a ogni determinata e puntuale incarnazione, solo restando in sospensione (in dem Schweben).
La cifra, infatti, può rivelare la trascendenza, ma, solidificandosi, può anche occultarla. Inoltre l’enigmaticità che accompagna ogni indicazione cifrata non consente di trattare quest’ultima al di fuori di ogni dubbio e di ogni problematicità. Questo significa che chi sceglie la via indicata da una cifra fideistica rischia, e siccome il rischio implica, oltre alla possibilità di salvezza, anche la possibilità del naufragio, non si può attirare nel proprio rischio gli altri, quasi si trattasse di una sicurezza garantita, e tanto meno si può presentare la cifra problematica come verità assoluta che deve essere universalmente accolta.
Ciò significherebbe accostarsi alla trascendenza con la logica della sola immanenza e quindi risolvere la prima nella seconda, al cui controllo non è preposta la coscienza simbolica che dalla presenza rinvia all’assenza, ma la coscienza in generale per la quale tutto è compreso nell’orizzonte logico da essa dischiuso. Per questo la fede filosofica non giudica le altre fedi scambiando se stessa per la verità, ma, pienamente consapevole della sua natura problematica, attende da quest’ultima il giudizio che la trascende. In questo senso è filo-sofica, perché ama (phílei), si protende verso la sapienza (sophía), ma non la possiede.
La fede religiosa, al contrario, isola se stessa dalla verità, la dimentica e vi si sostituisce. In questo modo perde se stessa e le opere compiute nell’isolamento della verità. Alla volontà di verità (Wille zur Wahrheit) sostituisce la volontà di potenza (Wille zur Macht) che conferisce alla cifra della trascendenza un’autorità assoluta nel mondo, sicché la cifra non rinvia più oltre il mondo, ma, nella sua posizione autorevole, esige manifestazioni mondane di fede, quali le strutture (Stato, famiglia, scuola, partito) che, in nome di un credo, si affermano nel mondo.
Sorretta da queste strutture mondane e da esse solidificata, la cifra fideistica diventa sempre meno enigmatica e, da possibilità di salvezza, si traduce in certezza incontrovertibile in una salvezza, a cui possono partecipare solo coloro che prestano fede, mentre gli altri, in qualità di eretici, ne restano esclusi.
Sicura di sé, pur nel suo isolamento dalla verità, la fede religiosa diventa escludente e traduce in certezza assoluta ciò che per la ragione è problema. Scambia l’unità della verità, che è oltre la parzialità della sua manifestazione temporale, con l’unità raggiunta mediante l’uniformità propria della cieca ubbidienza a strutture mondane che, in nome di una cifra, sono state realizzate nel tempo.
Al rischio proprio della problematicità, la fede religiosa sostituisce la sicurezza di chi aderisce a strutture e a comportamenti non scelti, alla singolarità della scelta esistenziale sostituisce l’universalità dell’adesione comunitaria, alla drammaticità della veglia il sonno della sicurezza garantita. Nella fede religiosa, all’inquietudine (Unruhe) dell’intelletto si sostituisce la quiete (Ruhe) del credente che, convinto di essere già accampato nella verità, si preclude la possibilità di giungervi.
Il carattere escludente (Ausschliesslichkeitanspruch) compete alla verità che, se non vuole annullare se stessa, deve negare la sua negazione. Se ciò non avvenisse la verità sarebbe annullata dalla compresenza dei contraddittori. In questo senso Eraclito coglieva nel pólemos l’essenza del lógos: “Si deve sapere che la guerra (pólemos) è comune a tutte le cose, che la giustizia (díke) è lotta e che tutto accade secondo lotta e necessità”.1 E ancora: “Pólemos di tutte le cose è padre e di tutte è re”.2 Raccogliendo l’antico insegnamento, Jaspers osserva che:
Il carattere polemico che contraddistingue l’affermazione della verità potrebbe cessare solo in quella situazione limite in cui la verità si manifestasse in tutta la sua evidenza. In questo caso la verità sarebbe animata da un’avversione di fondo contro ogni atteggiamento polemico che tentasse di distruggere la pura comprensione della verità. Ma in una situazione come la nostra, caratterizzata dalla ricerca e non dalla visione immediata della verità, il giudizio negativo costituisce la necessaria articolazione del giudizio positivo che afferma la verità. Per questo, lungo il cammino del pensiero, io mi trovo sempre in una situazione che mi prospetta un’alternativa in base alla quale, se voglio afferrare positivamente la verità, devo decidermi contro qualcosa.3
A questo punto la fede religiosa può assumere un atteggiamento escludente nei confronti delle fedi a essa contrarie, solo se si considera identica al lógos, solo se tratta se stessa come assoluta verità e, rinunciando alla sua natura fideistica, si pone come gnosi.
Per sé la religione biblica, soprattutto nella formulazione cristiana che ha dato la sua impronta all’Occidente, ha sempre insistito sul carattere volontaristico dell’assenso fideistico, in cui l’intelletto è “terminatus ad unum ex extrinseco (ex voluntate)” e non “ut ad proprium terminum”, ossia dall’evidenza del contenuto.4 Lo stesso Tommaso d’Aquino, commentando Paolo di Tarso, osserva che la fede, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, conduce “in captivitatem omnem intellectum”, cioè rende l’intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e quindi gli è estraneo (alienus), sicché l’intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla scientia, nei cui riguardi si sente “in infirmitate et timore et tremore multo”.5
Jaspers, quasi parafrasando questo concetto tomista, parla della fede filosofica come di quella situazione spirituale che “deve sempre tener desta la nostra inquietudine (Wir suchen Ruhe durch ständiges Erwecken unserer Unruhe)”,6 a differenza della fede religiosa che, dopo essersi arresa completamente alla gnosi, acquieta il credente nella certezza della sua fede, che diventa così esclusiva e, come la verità, escludente.
A dimostrazione della prevaricazione della fede religiosa che, invece di tutelare l’ulteriorità della verità, scambia se stessa per verità, Jaspers menziona il rifiuto, da parte della fede religiosa, della filosofia, o quanto meno la sua subordinazione alla teologia a cui deve attenersi la fede (philosophia ancilla theologiæ), l’affermazione di una autorità assoluta e infallibile, il diritto di indicare l’unica via in grado di condurre alla verità e alla salvezza, l’accettazione indiscussa della rivelazione e la sua immediata identificazione con la verità, l’assolutizzazione di un fatto storico e la sua elevazione a verità assoluta e decisiva per tutta la storia che, a questo punto, è ridotta a corollario inessenziale.7
Jaspers nega che queste possano considerarsi “posizioni di fede” perché non hanno nulla di problematico, ma sono affermate come verità incontrovertibili, intorno alle quali non è ammesso il minimo dubbio o la più piccola deroga. L’incontrovertibilità appartiene al lógos, alla verità, non alla fede che, proprio perché non sa, crede,e fa che ciascuno, in quanto credente, stia “in utrumque paratus”. Parafrasando questo concetto di Tommaso d’Aquino, Jaspers scrive che:
È autentica solo quella fede che conosce, sperimenta, sopporta la negazione della fede, che si mette a dura prova con essa, che si spinge fino alle manifestazioni di quest’ultima per superarle e divenire così sicura di sé. Per questo la fede ha sempre in sé la possibilità della negazione della fede. La forza della fede sta sempre nella bipolarità, che viene rimossa quando parlo unilateralmente della fede e della sua negazione. La riduzione della fede a un contenuto o a un ambito, per quanto potente e vitale, si chiama negazione della fede, mentre l’estensione del contenuto e la purezza della positività che rimane attiva e operosa per lo stimolo della negazione della fede, si chiama fede. Quando si indebolisce o si perde la polarità che esiste tra fede e negazione della fede nasce la mancanza di fede.8
Se la fede usurpa le categorie della verità e si pone come contenuto incontrovertibile, allora, invece di condurre gli uomini su una delle possibili vie che dall’immanenza conducono alla trascendenza, preclude loro l’accesso, arrestandone bruscamente il cammino. Un simile atteggiamento è volontà di potenza, è totalitarismo.
La volontà di potenza che si esprime nella religione biblica consiste nel fatto che, alla base dei propri contenuti, non è e non può essere, come in ogni fede, il lógos, ma un atto di fede che, agli occhi della verità, ha lo stesso valore di tutti i possibili atti di fede che si applicano a contenuti differenti. Privilegiarne uno dei molti possibili è volontà di potenza. Esigere, oltre alla fede nel contenuto, anche la fede nella fede posta a fondamento di quel contenuto è totalitarismo, perché, scrive Jaspers: “Nel totalitarismo la fede diventa fede nella fede (In Totalitarismus Glaube wird zum Glauben an den Glauben)”.9
Totalitarista è allora la religione biblica quando non si limita a chiedere al credente la fede in un contenuto (il cui valore veritativo, anche se creduto, continua a essere problematico, sì da giustificare l’inquietudine coscienziale del credente, che appunto crede in timore et tremore multo), ma pretende anche la fede nella verità indiscussa del contenuto che, dal punto di vista della verità, è discutibilissimo.
Infatti è del credente, e non della verità, l’affermazione che il contenuto della fede cristiana è rivelazione divina e quindi è verità. È il credente in quanto tale a credere che ciò in cui crede è rivelazione divina, e quindi che ogni fede diversa è irrimediabilmente errore, nei confronti del quale non è ammessa alcuna tolleranza. Ora, scrive Jaspers:
Qui non si tratta della realtà o della verità della rivelazione, ma solo di quell’effettiva realtà che è la fede in essa. Ma anche mediante la fede, la rivelazione non può essere giudicata come universalmente valida per tutti, ma solo come incondizionatamente valida per i credenti e per la comunità dei credenti.10
A questo punto a peccare di razionalismo non è la fede filosofica come potrebbe far pensare l’aggettivo che l’accompagna, perché quest’ultima sospende il suo giudizio in attesa del giudizio della verità, a differenza di quella religiosa che, dopo essersi riconosciuta, con Tommaso d’Aquino, come “eccedente le capacità dell’umana ragione”,11 si presenta con i caratteri dell’universale validità, che sono propri dell’umana ragione là dove questa raggiunge e fonda incontrovertibili verità. Tutto ciò significa che nell’ambito della fede religiosa il rapporto ragione-fede è deciso dal punto di vista della fede che, lungi dallo stare in timore et tremore multo in attesa del giudizio della verità, giudica e stabilisce che cos’è verità.
A questo punto, alla volontà di verità (Wille zur Wahrheit), che nel riporre la propria fede in qualcosa mantiene il contenuto in sospensione (in dem Schweben) e il credente in utrumque paratus, succede la volontà di potenza (Wille zur Macht) che assolutizza il creduto e fa del credente (Glaubende) un militante (Glaubenskämpfer), disposto a qualsiasi forma di lotta per difendere quella fede che impropriamente ha scambiato per verità. Alla volontà di verità si lega allora un sentimento di superiorità e di potenza, a cui subito si aggiunge il desiderio di combattere, di distruggere, di tormentare. L’apparente veracità diventa un mezzo al servizio dell’odio. Per questo, scrive Jaspers:
È una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa di incondizionato, discorrono amichevolmente senza avere realmente presente ciò che prima s’era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte, infatti, si sentono sicuri, terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altra pare loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta a oggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio contenuto di fede.12
La fede filosofica di Jaspers si sottrae così al contesto polemico della fede religiosa e al giudizio dei militanti della fede (Glaubenskämpfer) che si oppongono ai militanti delle altre fedi. Essa è una possibilità che si offre solo al credente (Glaubende) che alla lotta (Kampf) preferisce il dialogo, di cui egli solo è capace, perché all’assolutizzazione della propria posizione preferisce, in omaggio alla verità, la comunicazione (Kommunikation) o se vogliamo, la lotta amorosa (liebende Kampf) con le posizioni altrui. E questo perché, scrive Jaspers:
La fede filosofica è inseparabile dalla disponibilità incondizionata alla comunicazione, perché la verità autentica nasce dall’incontro delle fedi nella presenza dell’Umgreifende. Di qui l’affermazione: solo i credenti possono realizzare la comunicazione. Di contro, la non-verità nasce dalla fissazione dei contenuti della fede che si respingono l’un l’altro, donde l’affermazione: non si può parlare coi militanti di una fede determinata. Per la fede filosofica tutto ciò che costringe a interrompere la comunicazione o tenta di farlo è diabolico.13
1 Eraclito, fr. B 80.
2 Id., fr. B 53.
3 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 315.
4 Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ (1256-1259), Quæstio XIV: De fide, Marietti, Torino 1959, art. I.
5 Ibidem.
6 K. Jaspers, Der philosophische Glaube (1948); tr. it. La fede filosofica, Marietti, Torino 1973, p. 174.
7 Ivi, pp. 117-137. Per le obiezioni che i teologi protestanti e cattolici hanno mosso alla fede filosofica di Jaspers, si veda U. Galimberti, Introduzione a K. Jaspers, La fede filosofica, cit., § 8, pp. 36-46.
8 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): I Philosophische Weltorientierung; tr. it. Filosofia, Libro I: Orientazione filosofica nel mondo, Utet, Torino 1978, pp. 375-376.
9 Id., La fede filosofica, cit., p. 169.
10 Id., Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung (1962); tr. it. La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano 1970, p. 27.
11 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles (1269-1273); tr. it. Somma contro i Gentili, Marietti, Torino 1967, “Proemio”, capitolo VII. Recita il testo latino di Tommaso: “Quamvis autem prædicta veritas fidei christianæ humanæ rationis excedat, hæc tamen quæ ratio naturaliter indita habet, huic veritati contraria esse non possunt”.
12 K. Jaspers, La fede filosofica, cit., p. 109.
13 Ivi, p. 183.