18.

L’ápeiron di Anassimandro

Principio di tutte le cose è l’ápeiron che comprende in sé tutte le cose e a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno l’origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

ANASSIMANDRO, fr. B 1.

Se ci accostiamo alla filosofia del passato, conferendo alle parole che incontriamo nel corso della sua storia il significato che queste parole possiedono presso di noi, restiamo estranei alla filosofia e alla sua storia, in quanto non comprendiamo il vero senso delle espressioni che le compongono. Questa estraneità non sarebbe un grave inconveniente se la filosofia non fosse il pensare originario degli uomini, per cui rimanere estranei alla filosofia è rimanere estranei al senso originario che gli uomini hanno conferito al linguaggio quando hanno cominciato a parlare. Ripensando l’espressione di Anassimandro, Jaspers osserva che:

Questa frase esprime una visione metafisica, ma la sua comprensione risulta del tutto insoddisfacente se eseguita con le determinazioni concettuali dei tempi posteriori.1

Dopo quanto s’è detto a proposito dell’Occidente e della logica che lo presiede, non esistono dubbi sul senso espresso dall’avvertimento di Jaspers che vuole mettere in guardia proprio da quel tipo di lettura, la cui tendenza è di ricondurre ogni significato al proprio significare. Vediamo di rendercene conto.

Noi ci troviamo inseriti in una cultura che è stata fortemente caratterizzata dal fenomeno religioso del cristianesimo e da quello tecnico-scientifico dell’età moderna. Il cristianesimo ha insegnato a considerare Dio come “principio” di tutte le cose. La parola greca arché, resa dal latino principium, che compare frequentemente nei testi sacri, è sempre stata assunta in una significazione di tipo causale. La scienza, che con la sua nascita ha abbandonato la visione religiosa del mondo, non ha abbandonato l’impostazione causalistica. La differenza tra visione religiosa e visione scientifica del mondo si costituisce come differenza tra due tipi di cause: la causa prima che sottrae il mondo alla contraddizione metafisica, e le cause seconde che lo sottraggono all’inesplicabilità matematica.2

Per la scienza, infatti, spiegare il mondo significa predisporre anticipatamente le cause, secondo quel procedimento che darà vita alla tecnica. A questo punto noi occidentali, cresciuti in una cultura cristiana e poi tecnico-scientifica, cosa possiamo intendere dell’espressione di Anassimandro? Che senso possiamo affidare alla parola che compare come definizione dell’arché? Se le conferiamo il significato di “causa”, alle nostre spalle non sta forse giocando quell’impostazione mentale, a un tempo cristiana e scientifica, che investe il senso della parola prima ancora che questa si annunci? Così facendo stiamo leggendo la parola di Anassimandro o la stiamo violentando conferendole un significato che non ricaviamo dalla parola stessa, ma dalla nostra visione del mondo, dalla nostra impostazione mentale?

Oggi gli uomini, preoccupati di intendere, non si preoccupano minimamente di ascoltare. Accade così che il linguaggio di chi parla sia immediatamente tradotto nelle categorie di chi ascolta, e con ciò equivocato, perché affidato a contesti che originariamente non gli appartenevano o che comunque non l’avevano generato. Appellarsi alla storia della filosofia è disporsi all’ascolto del linguaggio, è creare quella povertà che consente alla parola dell’altro di giungere senza sopraffazioni di sorta, che renderebbero apparente il dialogo e dominante il monologo dell’ascoltatore con se stesso.

Se la filosofia è l’ascolto del linguaggio, la filosofia sa che l’unica maniera di ascoltare è quella di tacere. Tacere, qui non significa tenere la bocca chiusa, ma eliminare quel parlare che esiste anche quando si tace. Ognuno può lasciar parlare l’altro tacendo fisicamente, senza con ciò astenersi dal tradurre i significati dell’altro nei propri, sicché il senso non giunge dalla parola, ma dalla propria investitura. Di fronte all’espressione: “L’ápeiron è il principio di tutte le cose” tacere vuol dire che non si deve significare la parola “principio” con la parola “causa”, perché questo non giunge dalla parola, ma dalla nostra abitudine mentale cristiano-scientifica; vuol dire che occorre scoprire il significato custodito dalla parola espressa da coloro che cominciarono a filosofare, e poi sopraffatta dalla cultura successiva. Come ascolto della parola, scrive Jaspers: “La filosofia è silenzio”.3 La filosofia tace in modo tale che la parola parli.

Dal punto di vista etimologico ápeiron è ciò che non può essere attraversato da parte a parte, è l’inesauribile, l’illimitato, l’indeterminato, l’infinito. La parola è frequente in Omero. Achille che piange la sua schiava rapita si apparta lungo la riva del mare che è ápeiron4; ep’ apeírona gaîan è l’infinita terra che dovrà ospitare chi svelerà i disegni e le decisioni di Zeus5; ápeiron è l’Ellesponto,6 ápeiron è il sonno infinito7; apeírones sono i legami che Ermete vorrebbe avere pur di giacere presso Afrodite8; ápeiron è la folla “senza numero e infinita” che piange Ettore.9

Da questo rapido riscontro emerge, dai vari contesti, un carattere comune: ápeiron è ciò che sfugge al numero, alla misura, all’anticipazione matematica, al limite. Se noi pensiamo che il numero greco, a differenza di quello moderno, era a un tempo aritmetico e geometrico (Pitagora), perché la matematica non era astratta, ma sensibile e riferita alle cose; se pensiamo che il limite era indice di perfezione, per cui l’universo, dice Aristotele, è finito e il cosmo geocentrico; se consideriamo che lo spazio era il piccolo, il limitato, il circoscritto, per cui si sacrificava agli dèi del luogo e si raccoglievano i confini della patria intorno a quei rapporti di vicinato che costituivano la pólis, al di fuori della quale ogni cosa era estranea se non addirittura nemica, possiamo comprendere la portata metafisica del termine ápeiron, che trascende ogni cosa familiare e ogni prospettiva alla portata dello sguardo umano. A partire da queste considerazioni Jaspers scrive che:

Il tutto è l’ápeiron, l’illimitato, l’indeterminato. È il salto dal visibile e dal sensibile al primo concetto. Nell’incircoscrivibile molteplicità del mondo che appare alla nostra vista, tutto è individuale, delimitato, determinato. Ciò da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna non può essere una cosa singola, determinata (come è anche il caso dell’acqua), e non può nemmeno avere il carattere visibile delle cose singole. Esso può quindi definirsi soltanto per via negativa, mediante la sillaba “alpha”.10

La sillaba “alpha” è la rinuncia a chiamare con un nome, a circoscrivere con una misurazione numerica ciò che non si offre alla visione dell’uomo così come si offrono tutte le cose. Il nome che vuole comprendere e contrassegnare, e quindi circoscrivere e delimitare le impressioni che si hanno del mondo, è affine al numero in cui la delimitazione prende forma. L’origine del numero è identica a quella del mito. Il primitivo trasforma le impressioni naturalistiche indeterminate in divinità (numina), fissandole ed evocandole mediante un nome (nomen). Analogamente il numero è qualcosa che circoscrive le impressioni della natura e in questo modo permette di evocarle.11

Mediante nomi e numeri l’intelletto umano conquista un potere sul mondo, difendendosi così dall’inquietudine del mistero. Ciò si compie mediante il nome, con cui si designa e si evoca il numen, o mediante la simbolica dei numeri che assume l’aspetto del sacro. La posizione di limiti mediante concetti e numeri, la conoscenza sistematica secondo cause sono le forme più sottili, ma anche le più possenti a cui in seguito ricorrerà tale difesa. La conoscenza maturatasi in parole e in nomi, traducendo il caos delle impressioni originarie in una natura che ha leggi a cui deve obbedire, trasforma il mondo in sé in un mondo per noi. Essa calma l’angoscia cosmica domando il mistero, forgiandolo in una realtà afferrabile o incatenandolo mediante le leggi ferree del linguaggio intellettuale e della logica causale.

Ma l’ápeiron, che sfugge al numero e al nome, non si lascia afferrare e non tollera legge alcuna all’infuori di quella che esso stesso pone, e per la quale tutte le cose devono pagare il fio della loro prevaricazione. L’impossibilità di circoscrivere l’ápeiron deriva dalla sua natura “onnicomprensiva” (Umgreifende). Perciò Jaspers può dire: “Siccome l’ápeiron è l’onnicomprensivo (periéchon) non può essere compreso da altro (periechómenon)”.12 Nei confronti dell’ente l’ápeiron è il differ-ente. “Di fronte a tutte le cose del mondo (tà ónta) che nascono e muoiono, esso è eterno”,13 ma è anche l’identico, perché le cose dall’ápeiron provengono opponendosi e nell’ápeiron ritornano riducendo la loro opposizione. In questo senso, scrive Jaspers: “L’ápeiron, pur essendo ciò da cui si generano gli opposti, non possiede internamente alcuna opposizione”.14 L’identità-differenza che caratterizza, contro ogni formulazione logica, il relazionarsi dell’ápeiron agli enti rende il principio anassimandreo del tutto identico alla phýsis, perché, scrive sempre Jaspers:

L’intero complesso delle cose esistenti nelle loro opposizioni (tà ónta) dicesi phýsis. La phýsis è infatti ciò che non si trova tra gli opposti, ma tutti in sé li comprende (umgreift).15

Qui Jaspers concorda con Aristotele per il quale l’ápeiron anassimandreo “contiene tutte le cose e tutte le governa (periéchein ápanta kaì pánta kybernân)”.16 Da un principio così caratterizzato si scostarono sia la tradizione platonico-aristotelica sia l’apologetica cristiana che con Lattanzio, per esempio, trova addirittura “perverso” che un simile principio faccia riferimento alla natura invece che a Dio: “Quodsidem naturam vocant, quæ perversitas est naturam potius quam Deum nominare”,17 mentre Agostino, dopo una breve esposizione del pensiero anassimandreo, osserva che: “Neppure lui attribuì alcuna parte alla mente divina nella produzione di queste cose”.18

L’unità della visione di Anassimandro fu spezzata dalla speculazione platonico-aristotelica che, alla legge dell’ápeiron, ha sostituito la legge causale che regola quel cosmo di enti (ontologia) nato dalla dimenticanza dell’ápeiron-periéchon, che Jaspers rende con Umgreifende,19 la cui comprensione (periecontologia) è possibile solo superando la tradizione che ha voluto distinguere quello che i primi filosofi non avevano distinto quando parlavano di phýsis, di ápeiron, di lógos, di èn pánta.

L’ápeiron, che non ha limiti (pérata) che ne costituiscano l’inizio e la fine, è eterno e insenescente (aídion kaì aghéros). All’interno di questa eternità e insenescenza è da cogliere il senso di principio (arché) e di governo (kybèrnesis) che l’ápeiron esercita nei confronti degli enti.

Aídios lascia trasparire la sua parentela con aeí (sempre), donde aión, tempo della vita, ævum, æternus, e l’espressione epica aièn eóntes che Omero riferisce agli dèi.20 L’ápeiron è aídion perché dura sempre, è aghéros perché è immune da vecchiezza, in quanto è al di là del tempo in cui le cose hanno nascita e morte. Ippolito Romano riferisce che “Anassimandro chiama tempo ciò che delle cose determina la generazione, l’esistenza e la distruzione”.21 Dunque il tempo esiste ed è opposto all’eterno, perché nel tempo esistono le cose che nascono, crescono e muoiono, ma non esiste ciò che subisce queste condizioni come è appunto il caso dell’ápeiron.

A questo proposito torna alla mente il detto di Talete riportato da Diogene Laerzio: “Degli esseri il più sapiente (sophótaton) è il tempo, perché scopre (aneurískei) tutte le cose”.22 L’aneurískei di Talete acquista significato e consistenza filosofica proprio nel contesto di Anassimandro suo discepolo. Infatti lo “scoprire” suppone un antecedente “star-coperto”, dunque le cose passano di continuo da uno stato “nascosto” a uno “scoperto”, vengono e vanno, nascono e muoiono nel tempo. L’ápeiron è principio in quanto scopre (aneurískei) e non in quanto causa che lascia fuori di sé il proprio effetto, come entità indipendente o comunque separata da quel principio che, è bene non dimenticarlo, tutto abbraccia (periéchein) e governa (kybernân).

Il termine periéchein compare in Omero nel significato di gettare le braccia intorno a qualcuno, e dunque di proteggere, di venir in aiuto.23 L’epica bada più al terminus ad quem dell’azione che al terminus a quo. Anassimandro, che proprio di questo si preoccupa, presenta l’ápeiron come ciò che abbracciando fornisce l’essere alle cose. Il suo è un abbraccio “esistenziale” solo in parte simile a quello dell’oceano omerico che “avvolge la terra”24 e dal quale “tutti i fiumi e tutto il mare, tutte le fonti e i pozzi profondi traboccano”.25

Il circondare (periéchein) dell’ápeiron spiega il governare. Kybernân si dice degli uomini che reggono la nave,26 e, per metafora, si estende il significato al governo della vita di un uomo, di una casa, di uno Stato. In Anassimandro kybernân significa: reggere le cose che, rispettando i tempi della presenza a esse concessi, realizzano l’ordine, il cosmo dell’apparire. Se questo è il senso metafisico (e non giuridico) del termine, non stupisce il ritrovarlo in Eraclito per il quale “Una sola è la cosa saggia: conoscere il lógos che governa (ekybérnese) tutto attraverso tutto”,27 e in Parmenide per il quale “In mezzo alle due vie c’è la Divinità che tutto governa (pánta kybernâi)”.28

L’ápeiron governa “secondo l’ordinamento del tempo (katà tèn toû chrónou táxin)”. Commentando questo frammento di Anassimandro, Jaspers scrive:

Il tempo non è il giudice, ma solo colui che reca il giudizio. Il tempo, infatti, non è l’ápeiron, ma questo governa il mondo negli eventi del tempo, secondo necessità (katà tò chreón). Ma che cos’è la necessità? Si è creduto di trovare in Anassimandro l’idea che solo più tardi sarà intesa come legge del mondo, legge naturale, necessità del divenire. Le cose per Anassimandro sorgono e tramontano “secondo necessità” (o, traducendo diversamente “secondo la loro colpevolezza”, o “come è stato disposto”). Non siamo affatto di fronte all’idea di una legge naturale scientificamente conoscibile, o a una norma causale, ma piuttosto di fronte all’idea di destinazione o destino.29

Seguendo quest’ordine di idee è possibile scorgere un’antitesi che sta alla base di uno dei più antichi e più gravi problemi dell’umanità: l’antitesi tra principio di causalità e idea di destino.30 Ogni lingua possiede un certo numero di parole che adombrano la profondità del mistero. Tali sono: “sorte”, “fatalità”, “caso”, “predestinazione”, “provvidenza”, “destino”. Nessuna scienza, per quanto rigorosa nella sua strutturazione causale, può eliminare ciò che si prova quando ci si compenetra nel senso e nel suono di tali parole.

La causalità è qualcosa di razionalistico, di deterministico, di esprimibile mediante consequenzialità, nessi, numeri, analisi concettuali. Destino è invece il nome per una certezza interna che non si può descrivere, perché esprime la nostalgia cosmica di un’anima che si sa separata eppure dominata dal principio. Nessuno vi può sfuggire. Anche l’uomo contemporaneo, che col suo razionalismo, il suo pragmatismo e la sua potenza tecnica, può avere l’impressione di poter dominare il destino, non può evitarlo quando deve affrontare il suo essere più profondo, perché in quel momento se lo vede sorgere innanzi con una chiarezza terribile e tale da sconvolgere ogni causalità e ogni calcolabilità che avevano regolato il corso della sua esistenza.

La “necessità” di Anassimandro, che “governa le cose secondo l’ordine del tempo”, non ha nulla a che fare con la causalità che non conosce il tempo, perché il mondo che essa regola è quello del possibile, del costante e delle verità senza tempo conosciute analizzando e distinguendo. La causalità non conosce la colpa della prevaricazione e, di fronte alla pena, non sa dir nulla a proposito del “come”, del “quando” e del “per quanto tempo”. Nel suo rapporto meccanico di causa ed effetto, non riesce a seguire e a spiegare il destino della tragedia, perché le sfugge il senso profondo dell’angoscia. Il suo tentativo è quello di opporvisi, stendendo sull’angoscia generata dal destino quella trama fitta di cause e di effetti che vuole esprimere potenza, la potenza del sapere che, conoscendo, domina. Indicare la causa significa infatti aver potenza sull’effetto, come, nel rapporto magico, conoscere il nome significa aver potenza sulla cosa.

Leggere il pensiero aurorale che parla di némesis, anánke, týche, moîra, tò chreón in chiave causale, e fare del “principio (arché)” la causa prima di tutte le cose, significa non lasciarsi ospitare da questo pensiero, ma costringerlo nella propria logica; significa esprimere in forma nuova quella tracotanza (hýbris) che è fonte di ingiustizia (adikía); significa dimenticare che sulla tracotanza e sull’ingiustizia domina la díke secondo necessità, a proposito della quale Jaspers dice:

Questa necessità è ben al di sopra di ogni rappresentazione mitica e dell’arbitrio personale di una potenza sovrumana e del caso. Essa custodisce ciò che in seguito andrà perduto a causa delle varie scissioni, ossia la visione metafisica di cui rimane una trama nella “necessità” di Spinoza e nello “scudo della necessità” di Nietzsche. Questa visione rimane incomprensibile a ogni pensiero che si attiene al determinato, e inaccessibile a ciò che si esprime in termini di oggettività razionale.31

1 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 715.

2 Sulla dipendenza della scienza moderna dalla concettualità teologica cristiana si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 33: “L’epoca moderna e il primato della scienza e della tecnica come deriva teologica”.

3 K. Jaspers, Philosophie (1932-1955): II Existenzerhellung; III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro II: Chiarificazione dell’esistenza, p. 545; Libro III: Metafisica, p. 1180, Utet, Torino 1978. Il motivo ritorna in Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 981.

4 Omero, Iliade, Libro I, v. 350.

5 Ivi, Libro VII, vv. 446-447.

6 Omero, Odissea, Libro IV, v. 510.

7 Ivi, Libro VII, v. 286.

8 Ivi, Libro VIII, v. 340.

9 Omero, Iliade, Libro XXIV, v. 776.

10 K. Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen (1919); tr. it. Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950, p. 239.

11 Cfr. il capitolo 43: “Il numero e la mathesis universalis”.

12 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 715.

13 Ibidem.

14 Ibidem.

15 Ivi, p. 716.

16 Aristotele, Fisica, Libro III, § 4, 203 b.

17 L.C.F. Lattanzio, Divinæ Institutiones (304-313), edizione latina con traduzione italiana a cura di U. Boella, Sansoni, Firenze 1973, Libro III, capitolo 28, § 5.

18 Agostino di Tagaste, De civitate Dei (413-426); tr. it. La città di Dio, Rusconi, Milano 1984, Libro VIII, capitolo 2.

19 Cfr. il capitolo 7: “Jaspers: L’Umgreifende e l’operazione filosofica fondamentale”.

20 Omero, Iliade, Libro I, v. 494.

21 Ippolito Romano, Philosophoumena o Refutatio contra omnes hæresos (222), in P. Wendland (a cura di), Griechisch-christhliche Schriftsteller, Leipzig-Berlin 1915-1931. Weke, a cura di P. Wendland, Leipzig 1907, Libro I, capitolo 6. Questo passo è riportato anche da Diels-Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker (1966); tr. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1983: Anassimandro, Testimonianza A 11.

22 Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi (220-250), Laterza, Bari 1983, Libro I, capitolo I, 35.

23 Omero, Iliade, Libro I, v. 393; Odissea, Libro IX, v. 199.

24 Id., Iliade, Libro XVIII, v. 607.

25 Ivi, Libro XXI, v. 167.

26 Omero, Odissea, Libro III, v. 283.

27 Eraclito, fr. B 41.

28 Parmenide, fr. B 12.

29 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 717.

30 Sul rapporto fra il concetto di causalità e l’immagine del destino si veda il capitolo 44: “Causalità e destino”.

31 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 717.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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