101.
Dall’ermeneutica all’esegesi
Sotto l’idea di esegesi si annuncia quella di una Guida (l’esegeta), e sotto l’idea di exegesis traspare quella di un esodo, di una “uscita dall’Egitto” che è un esodo fuori dalla metafora e dalla schiavitù della lettera, fuori dall’esilio e dall’Occidente dell’apparenza essoterica, verso l’Oriente dell’idea originaria e nascosta.
H. CORBIN, Avicenne et le récit visionnaire (1954), p. 33.
Un’esegesi del linguaggio simbolico sfugge sia allo schema concettuale, che costituisce la violenza prima di ogni commento, sia al rapimento poetico che, anche quando va al di là dell’abuso retorico, non lascia mai alle sue spalle le scansioni determinanti del discorso.
Con l’insistenza infinita dell’onda sulla spiaggia, l’esegesi simbolica è come il ritorno e la ripetizione della stessa onda sulla stessa riva, dove però ogni volta tutto il senso si rinnova e si arricchisce, riassumendosi in un’esperienza che, indescrivibile nella concettualità occidentale, è designata nel mondo islamico dal termine ta’wîl che, secondo la definizione di Corbin, significa: “ricondurre una cosa alla sua origine, al suo archetipo”.1 Il ta’wîl non è dunque una rivelazione, una parola che discende dall’alto, ma, come scrive Corbin, un “ritorno”:
Ta’wîl significa far ritornare a, ricondurre all’origine e perciò rinvenire il senso vero e originario. Siccome fa giungere una cosa alla sua origine, colui che pratica il ta’wîl è uno che distoglie l’enunciato dalla sua apparenza esteriore e lo fa ritornare alla sua verità.2
È evidente la rassomiglianza tra il ta’wîl islamico e il “richiamoritorno” heideggeriano. Meno evidente, e perciò da sottolineare, è che con il richiamo-ritorno non siamo più nel circolo ermeneutico, dove il riconoscimento che ogni interpretazione è sempre guidata da una pre-comprensione consente di discorrere da un’interpretazione all’altra senza legarsi definitivamente a nessuna, ma siamo usciti (esegesi, esodo) nell’abisso, dove a giocarci non è la nostra pre-comprensione, ma la vertigine dello spazio simbolico che distoglie tutti i significati dal loro significare “abituale”.
Se il simbolo è un richiamo all’origine, rispondere all’appello non significa chiarire la parola secondo vari criteri accettati e accettabili nei rispettivi ambiti storici (pre-comprensione ermeneutica), ma significa sospendere il tessuto della continuità storica, rinunciare a priori a una tavola di criteri precedentemente stabilita, per mettersi a disposizione di quella parola che ci fa quel “dono (Gabe) che è niente meno che il darsi di se stessa”.3
Questo “dono” non è il significato, né l’apertura alle possibili significazioni, ma è l’insondabilità della significazione, che sventa in anticipo la trappola dello storicismo come quella del relativismo che, con le loro parole ordinate dalla pre-comprensione e perciò giustificate, sopprimono quella vigilia dell’origine delle parole a cui il richiamo intende far ritorno, non per scoprirvi una scena muta, ma quella scena in cui ogni senso non è ancora del tutto spento nella parola.
L’abisso (Ab-grund) non si limita a rivelare l’impossibilità di un discorso assoluto (guadagno ermeneutico), ma induce al sospetto che la parola espressa non sia che il cadavere della parola psichica, per cui bisogna ritornare a quella “parola” che è prima delle parole (guadagno esegetico).
Questa parola non è la parola della rivelazione, perché se questo fosse l’“esito esegetico” non potremmo parlare di esodo e di uscita, ma solo di perdita, la perdita del guadagno ermeneutico. La “parola” che è prima delle parole l’abbiamo chiamata “psichica” nel senso in cui Platone parla di psyché in relazione alla divina follia (theía manía).
Secondo Platone, infatti, ci sono due modi per andare oltre l’opinione (dóxa) che ciascuno possiede intorno alle cose: l’epistéme, che si sottrae all’oscillazione e alla disparità dei pareri perché, come discorso fornito di fondamento, sta in piedi da sé (epì hístemi), e la theía manía che, non parlando alla mente (noûs) dell’uomo ma alla sua anima (psyché), giunge dove non giunge la stessa epistéme. Per questo Platone dice che: “I doni più grandi ci vengono dalla follia, naturalmente data per dono divino”.4 E ancora:
La profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in condizioni di follia (maineîsai) fecero un gran bene alla Grecia, sia ai singoli sia all’intera comunità, mentre poco o nulla fecero quando erano nelle condizioni di chi può ragionare (sophronoûsai).5
Assunta in questa accezione, la parola psichica, che non ha nulla a che fare con quanto della psiche dice la moderna psicologia, è quel “sentirsi situati (Befindlichkeit) proprio dello stato d’animo in cui ci si trova” che già percorre Essere e tempo e che in Che cos’è metafisica? si presenta come fonte di quei “sentimenti ontologici” che, nella forma della gioia, della noia e dell’angoscia, consentono di accedere all’essere nella sua differenza dall’ente e quindi nella sua identità con il ni-ente. Scrive in proposito Heidegger:
La noia (Langeweile)
profonda che serpeggia nelle profondità dell’esserci, come una
nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con
loro noi stessi in una strana indifferenza. Questa noia rivela
l’ente nella sua totalità. Un’altra possibilità di una tale
rivelazione si nasconde nella gioia (Freude) che nasce in presenza dell’esserci – e non
della mera persona – di un essere amato. Simili tonalità affettive,
per cui si “è” così o così, ci consentono, quando ne siamo pervasi,
di sentirci in mezzo all’ente nella sua totalità. Il sentirsi
situati (Befindlichkeit) proprio dello
stato d’animo in cui ci si trova non solo svela a suo modo l’ente
nella sua totalità, ma questo svelamento, lungi dall’essere un mero
accidente, è al tempo stesso l’accadimento fondamentale
(Grundgeschehen) del nostro esser-ci.
[...]
Questo accadimento è possibile e, sebbene di rado, talvolta è anche
reale in quegli istanti dominati da quella tonalità affettiva che è
l’angoscia (Angst). [...] L’angoscia
ci soffoca la parola. Poiché l’ente nella sua totalità si dilegua e
proprio il niente ci assale. In sua presenza tace ogni tentativo di
dire “è”. Che nello sgomento dell’angoscia noi si cerchi spesso di
infrangere il silenzio vuoto con parole dette a caso (durch ein wahlloses Reden), non è che la prova
della presenza del niente. Che l’angoscia sveli il niente, l’uomo
lo constata non appena l’angoscia se ne è andata. Con lo sguardo
rasserenato, ma ancora fresco del ricordo, noi ci chiediamo: di che
cosa e per che cosa ci siamo angosciati? In fondo non c’era
“propriamente” niente. E in effetti il niente stesso, come tale,
era presente.6
Se l’esegesi è in grado di farci compiere il passo indietro (zurück zu Schritt) dalla parola parlata alla parola che abbiamo chiamato “psichica”, allora comprendiamo anche il senso della “nostalgia” heideggeriana, che non è rimpianto di un essere che un tempo, all’alba dell’Occidente, s’è rivelato, e oggi, a tramonto inoltrato, più non si rivela, ma è “intimo raccoglimento”.
Nóstos in greco è “il ritorno a casa”, il ritorno in patria. Omero parla di nóstos Achaídos, ritorno in Acaia, mentre Euripide parla dinóstos pròs Ílion, ritorno da Ilio. La “nost-algia” è il dolore (álgos) che accompagna questo ritorno (nóstos). Heidegger dice che:
La parola greca che sta per dolore, cioè álgos, c’è da presumere che sia imparentata con alégo, che, come intensivo di légo, significa intimo raccoglimento. Il dolore sarebbe allora ciò che raccoglie nel più intimo.7
Ma per questo occorre oltrepassare l’a-létheia, la manifestazione, per giungere a quel fondo nascosto che è il léthe che la dispiega. Questo oltrepassamento non si compie a colpi di sillogismi e neppure abbandonando il piano della manifestazione, della parola espressa, per il fondo nascosto e custodito dalla parola “psichica”, ma adunando i due (sym-bállein) in composizione simbolica.
È vero, infatti, che la parola espressa, l’essoterico (tà éxo), è ciò per cui Platone nella Seconda Lettera dice: “Non c’è alcuna opera scritta di Platone, nessuna, e non ce ne sarà mai. E quello che ora gli si attribuisce sono i pensieri di Socrate, quando era nel tempo bello e nella pienezza della vita”,8 ma è pur sempre attraverso l’essoterico che si può risalire all’esoterico (tà éso), a ciò che è nascosto, così come in Heidegger è solo attraverso l’“abituale” che si può ritornare all’“abitare”.
L’itinerario simbolico dischiuso dall’esegesi non approda alla distruzione del pensiero, al suo naufragio nell’irrazionale puro, ma inaugura quel nuovo modo di pensare che è un passare (Überschreiten), un passare oltre andando verso, attraverso la metafora, il cui senso non è alle spalle della lettera, ma nella lettera come e-nunciato (Aus-sage), come trasgressione del nascosto.
In questa accezione la metafora è la parola che porta fuori (meta-phérein) il nascosto. Prima che procedimento retorico del linguaggio, essa è l’insorgenza stessa del linguaggio. E l’esegesi, parlando la metafora, la riconduce nell’orizzonte silenzioso della nonmetafora, da cui essa è uscita come tras-gressione. Facendone uso, l’esegesi la consuma, la logora come si logorano le parole della tradizione, e, logorandola, dischiude lo spazio aperto dal simbolo, la cui potenza, anche se non viene nominata, come quella del sole, è già in mezzo alle cose. Infatti, scrive Corbin:
Il simbolo non è un segno artificialmente costruito, ma è ciò che nell’anima spontaneamente si dischiude per annunciare qualcosa che non può essere espresso altrimenti. Esso è l’unica espressione attraverso cui una realtà si fa trasparente all’anima, mentre in se stessa rimane al di là di ogni possibile espressione.9
La struttura della trasparenza istituisce un nuovo rapporto tra essoterico ed esoterico, tra manifesto e nascosto, tra parola detta e parola custodita. Non più e non solo luogo in cui la verità si custodisce,10 il nascosto diventa il luogo del ritorno, dell’esegesi come esodo, del ta’wîl. In questo modo gli itinerari simbolici dischiudono un senso del linguaggio che non è strumentale, ma rivelativo, perché il simbolo non usa le parole se non per esporle al loro ritorno o al loro rinvio.
In questo senso l’operazione simbolica è operazione rinviante. Ciò che essa dischiudendo espone è un mondo per l’“abituale” che non si chiude nelle sue abitudini, ma rimane dischiuso a quell’“abitare” che lo produce. A esso il mondo dell’“abituale” rinvia senza poterlo includere, per cui l’“abitare” si rivela nel mondo dischiuso dell’“abituale” come ciò che si sottrae all’apertura che apre.
Comprendiamo a questo punto perché tra “abituale” e “abitare” o, in altra metafora, tra “mondo” e “terra”11 si apra un conflitto, che è poi la stessa attuazione dell’operazione simbolica. Infatti, scrive Heidegger:
Il contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta. Sarebbe però una banale falsificazione della natura di questa lotta se la si intendesse come contesa e rissa, attribuendo a essa solo i caratteri del perturbamento e della distruzione. [...] La Terra non può fare a meno dell’apertura del Mondo se deve essa stessa, in quanto Terra, apparire nel libero slancio del suo autoschiudersi. Il Mondo, a sua volta, non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro. [...] Ma la relazione tra Mondo e Terra non si esaurisce affatto nella vuota unità di elementi indifferenti che si contrappongono. Riposando sulla Terra, il Mondo aspira a dominarla. In quanto autoapertosi, esso non sopporta nulla di chiuso. Invece la Terra, in quanto coprente e custodente, tende ad assorbire e a risolvere in sé il Mondo.12
Il conflitto non è da intendersi nel senso che uno dei due termini tende a eliminare l’altro, perché in questo caso si smarrirebbe la composizione simbolica (sym-bállein) per quella lacerazione che, etimologicamente, dovrebbe dirsi diabolica (dia-bállein). Il conflitto è da intendersi nel senso che ognuno dei due termini richiama l’altro come proprio opposto e a un tempo come proprio fondo.
Questo fondo non ha nulla a che fare con i fondamenti della ragione (Grund) che tutto spiegano e motivano, ma con quel fondo abissale (Ab-grund) a partire dal quale solamente possono ancora accadere eventi e novità. Là infatti dove ogni nascondimento è dissolto perché tutto è dispiegato, l’uomo è alla fine, e con lui la sua storia che di ogni Ab-grund ha fatto un Grund, di ogni fondo nascosto un fondamento esplicativo.
Ma proprio per aver percorso questo itinerario, oggi l’uomo occidentale si trova nell’impossibilità di prodursi in nuovi sensi e nuovi significati, perché il linguaggio come spiegazione ed esplicitazione ha dissolto ogni terreno nascosto da cui solo possono nascere nuove parole, nuove metafore, nuove trasgressioni. Che deve fare a questo punto il linguaggio se non passare dall’esegesi come spiegazione all’esegesi come risposta a un appello che è in-audito, perché “abitualmente” non è udito?
L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’wîl islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi). In questo senso, scrive Corbin: “Con il ta’wîl non si tratta di afferrare le cose, ma di incontrarle al loro ‘Oriente’”.13
In questo senso, i modi del lavoro esegetico heideggeriano sono sì “dispersivi”, ma non per la mancanza di un principio d’ordine, ma perché proprio da questo principio ci si vuole difendere, essendo la ricerca di un principio d’ordine ciò che l’Occidente ha sempre fatto, concludendo se stesso in un avvenire che non conosce altre novità se non quelle rigorosamente previste e predisposte dai calcoli della sua ragione.
Abbandonato il Grund, il fondamento della ragione, l’ermeneutica approda al Boden, al terreno che dà ospitalità a tutte le interpretazioni, mentre l’esegesi approda all’Ab-grund, all’abisso che è “una regione totalmente diversa”. La prima ci inserisce nell’apertura del mondo e ottiene il suo significare sulla base dei rimandi che rinviano ad altre parole già disposte nell’apertura del mondo dischiuso dal linguaggio, la seconda, invece, come espressione del conflitto nel suo prodursi, non si colloca in un’apertura già raggiunta e pacificata, ma la istituisce, dischiudendo un mondo di significati che emergono da un fondo che non si lascia mettere del tutto in luce, e che quindi è il fondo di quella terra di cui il simbolo è la prima parola.
In quanto dischiude nuovi sensi e nuovi mondi, lo spazio simbolico sospende il nostro modo “abituale” di vivere e di pensare, e perciò è preoccupante, anzi “il più preoccupante (das Bedenklichste)”, perché, scrive Heidegger:
Di qualcosa che ci dà da pensare diciamo che è preoccupante (ein Bedenkliches). Ma ciò che non ci preoccupa soltanto occasionalmente o in un caso ogni volta determinato, ciò che piuttosto ci dà da pensare per sua natura, e quindi da sempre e senza interruzione, è preoccupante in maniera particolare. Di esso diciamo che è il più preoccupante (das Bedenklichste).14
Lo spazio simbolico, infatti, comporta la messa in crisi e la distruzione dei rapporti che prima erano consueti e familiari e che, dopo la sua apparizione, diventano inquietanti e non più sicuri. Rinviando infatti a quel fondo nascosto (Ab-grund) che l’ha generato, il simbolo si sottrae al rinvio “abituale” del linguaggio, che non sporge oltre il circuito di sensi e di significati da esso istituito, per porre “fuori strada” (esodo dell’esegesi), su sentieri desueti e disertati dal linguaggio “abituale”.
Affondando nell’abisso e dall’abisso emergendo, lo spazio simbolico espone l’abisso senza dissolverlo nel dispiegamento. Il luogo di questa esposizione è un “nuovo linguaggio”, dove la novità consiste nel fatto che, mentre il linguaggio “abituale” espone il senso delle cose in un’apertura già dischiusa (pre-comprensione ermeneutica), il linguaggio simbolico non espone nell’apertura, ma apre l’apertura.
L’apertura così dischiusa dal linguaggio simbolico non è arbitraria, perché la nuova fondazione è anche riconoscimento di un fondo che sta alla base della fondazione stessa. Il simbolo, allora, non fonda arbitrariamente, ma ritorna (ta’wîl, zurük zu Schritt) a quel fondo da cui nasce. Quando nomina nuovi sensi, in realtà risponde al loro appello. Per questo Heidegger può dire:
Quello che oggi è il significato abituale si radica e si fonda nell’altro che sta all’inizio e dà la misura. Che cosa significa infatti la parola “nominare”? [...] Nominare una cosa è chiamarla per nome. Ancora più originariamente è chiamarla nella parola. Ciò che così viene chiamato sta allora nella chiamata della parola. [...] Esso è nominato, ha un nome. Nel nominare chiediamo (heissen) a ciò che è presente di venire. Di venire dove? Questo resta da considerare (bedenken). Comunque ogni nominare ed essere nominato è un chiamare (heissen) nel senso corrente, solo in quanto il nominare stesso nella sua essenza consiste nell’autentico chiamare (im eigentlichen Heissen), nell’invito a venire (im kommen-Heissen).15
Heidegger chiama questo appello Er-eignis, che noi possiamo tradurre con E-vento nell’intento di designare il luogo proprio (eignen) da cui qualcosa viene. Rispetto a questo luogo, scrive Corbin che traduce Er-eignis con É-vénement:
Compiere un’esegesi significa sì ricondurre le espressioni a ciò che significano, ma nel senso di valorizzare i simboli portandoli all’altezza dell’evento che li dischiude, e non nel senso di farli ricadere indietro, al livello dei dati razionali che li precedono.16
Qui, a parere di Corbin, cade la barra tra Occidente e Oriente, tra un’esegesi che è la violenza dell’interpretazione e un’esegesi che è un esodo da una parola che si sa decaduta, puro avanzo retorico, parola perduta per l’Evento.
L’E-vento, infatti, viene da un certo luogo silenzioso che sta al di qua della parola e delle sue possibili interpretazioni. L’incamminarsi verso questo luogo è un tenersi in cammino, Unterwegs dice Heidegger, ta’wîl dice l’esperienza islamica, perché il luogo è nascosto e la sua dimora abissale. Come la quiete non distrugge se stessa nel clamore delle parole, come il silenzio non si concede all’esplicitazione totale, così l’Evento (Ereignis) si sottrae a ogni interpretazione che pretenda di esaurirlo.
All’esegesi intesa come arte che tutto porta all’esplicitazione perché, dimentica del Luogo, si limita a sistemare i vari “luoghi” secondo i criteri del linguaggio “abituale”, Heidegger propone quell’esercizio esegetico che consiste nell’uscire dai luoghi per trattenersi nella prossimità dell’Ereignis, non per esplicitarlo nei sensi e nei significati richiesti dall’epoca, ma per far venire in luce lo spazio simbolico che ne costituisce la forza. Questa esegesi non spiega la parola, ma, direbbe Corbin, “la incontra al suo Oriente”, in quella cognitio mattutina che Nietzsche così descrive:
Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione non può poi sentirsi sulla terra nient’altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale, perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tenere gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano tutte le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà. [....] Quando silenziosamente, nell’equilibrio dell’anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino.17
1 H. Corbin, En Islam iranien. Aspects spirituels et philosophiques, Gallimard, Paris 1971, vol. I, p. XXVIII. Henry Corbin, oltre a essere uno dei maggiori islamisti, è anche un attento lettore di Heidegger, di cui ha curato la traduzione in francese e l’introduzione dei saggi heideggeriani più significativi editi da Gallimard.
2 Id., Avicenne et le récit visionnaire, Département d’Iranologie de l’Institut Franco-Iranien, Teheran-Paris 1954, p. 33.
3 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, Parte II, Lezione 1, p. 18.
4 Platone, Fedro, 244 a.
5 Ivi, 244 b. A proposito della “divina follia” si veda U. Galimberti, La terra senza il male. Jung: dall’inconscio al simbolo (1984), Feltrinelli, Milano 2001, capitolo 13: “La divina follia”.
6 M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929); tr. it. Che cos’è metafisica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 66-68.
7 Id., Zur Seinsfrage (Über “die Linie”) (1955-1956); tr. it. La questione dell’essere (Sopra “la linea”), in Segnavia, cit., p. 354.
8 Platone, Seconda Lettera, 314 c.
9 H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, cit., p. 34.
10 A proposito del “custodirsi” della verità, M. Heidegger, in Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 324, scrive: “La nostra antica parola vero (wahr) significa: ‘guardia’, ‘custodia’. La troviamo anche in percepire (wahr-nehmen), cioè ‘prender guardia a...’, in ravvisare (ge-wahren) e in preservare (ver-wahren)”.
11 Cfr. il capitolo 88: “Sui sentieri dell’arte alla ricerca del linguaggio”.
12 M. Heidegger, Der Ursprung des Kunstwerkes (1935-1936); tr. it. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., p. 34.
13 H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, cit., p. 40.
14 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., Parte II, Lezione 1, p. 18.
15 Ivi, pp. 16-17.
16 H. Corbin, Avicenne et le récit visionnaire, cit., p. 36.
17 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister (1878-1880); tr. it. Umano troppo umano, I, in Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. IV, 2, § 638, pp. 304-305.