62.

L’etica della ragione: efficientismo e conformismo

Il peso della realtà sociale odierna sulla vita dell’uomo medio è tale che ormai predomina il tipo “conformista”. Dal momento in cui nasce, l’individuo si sente continuamente ripetere una lezione: c’è un solo modo di farsi strada nel mondo, e cioè rinunciare alla speranza di realizzare pienamente se stesso. Il successo si consegue solo attraverso l’imitazione. [...] Riecheggiando, imitando, copiando coloro che lo circondano, adattandosi a tutto [...] l’individuo riesce a sopravvivere. Deve dunque la salvezza al più antico espediente biologico di sopravvivenza, il mimetismo.

M. HORKHEIMER, Eclisse della ragione (1947), pp. 123-124.

Se la logica della ragione, includendo la propria negazione, elimina le contraddizioni e le ansie che di solito sono a essa connesse, l’etica della ragione tende a estinguere i complessi di colpa, traducendo i concetti di bene e di male in quelli di efficienza e inefficienza. Alla “coscienza infelice” della Fenomenologia dello Spirito1 hegeliana subentra la “coscienza felice” che, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche,2 assiste all’ordinato dispiegarsi del principio che tutto coerentizza secondo necessità. Infatti, dove “ciò che è reale è razionale”,3 non c’è posto per la colpa. La generale “necessità delle cose” è l’alibi che il sistema offre ai suoi membri perché assolvano la loro coscienza, e così la razionalità dell’apparato assume il ruolo di agente morale.

Un uomo è capace di premere il tasto che annienta centinaia di migliaia di persone e poi dichiarare di non sentirsi oppresso da alcun senso di colpa, perché il suo compito non era di natura “morale”, ma semplicemente “tecnico”, si trattava di impiegare dei mezzi per dei fini che erano stati pre-decisi alle sue spalle.4 Chi sta alle spalle, a sua volta, si ritiene esente da ogni colpa morale perché il suo comando era dettato dalla “necessità delle cose” e, non eseguito, avrebbe determinato mali ben più gravi. Nella “necessità delle cose” si placano vincitori e vinti e quanti li stanno a guardare. Il senso di questa necessità non ha bisogno di essere illustrato perché “è nella logica delle cose”, il non-senso di questa logica diventa il senso comune da tutti accolto. E come potrebbe essere altrimenti se il pensiero è stato ridotto a strumento operativo in vista dell’efficienza del sistema?

Questa trasformazione dell’essenza del pensiero risale alle origini della scienza moderna interessata non alla verità delle cose, ma alla loro verificabilità, per cui il pensiero si vede trattenuto nel breve tragitto che va dalle ipotesi ai fatti osservati a convalida delle ipotesi. Il suo compito non è più critico ma esecutivo, non è più ricerca di senso, ma di risultati in grado di convalidare le ipotesi che li hanno anticipati. E come il paranoico fa prima accadere i fatti e poi, con aria di trionfo, mostra che le sue idee di persecuzione corrispondono ai fatti, così il pensiero, strumentalizzato alla costruzione di un sistema coerente che possa corrispondere alla realtà, produce la realtà e poi ne scopre la coerenza con il sistema che l’ha anticipato.

Nella produzione del reale si possono commettere errori che pregiudicano la funzionalità del sistema, ma non si può mai aver torto o essere colpevoli, perché la razionalità scientifica che presiede il sistema non dice ciò che si deve o non si deve fare, ma ciò che con i mezzi a disposizione si può o non si può raggiungere. Nella migliore conoscenza dei mezzi si risolve ogni possibile espressione del pensiero, chiamato dal sistema a collaborare a tutti i livelli alla propria efficienza e funzionalità.

In questo quadro di natura rigidamente ideologica la libertà è nella scelta dei mezzi più idonei per il conseguimento dei fini preposti. Quanto più liberamente l’uomo considera e calcola ciò che è necessario (i mezzi) per raggiungere qualcosa (un fine), tanto più razionale sarà il suo agire, e di conseguenza tanto più comprensibile il suo comportamento. Nella libertà di vincolarsi ai mezzi di volta in volta dati per il conseguimento di determinati fini, o nella libertà di rinunciare ai fini in mancanza dei mezzi, si raccoglie e si esprime la responsabilità dell’agire umano.5

E come il pensiero è costretto nel breve intervallo che va dalle ipotesi ai fatti, chiamati a verificare le ipotesi, così la libertà è costretta nel breve intervallo che si costituisce tra i mezzi e i fini, senza riuscire a porsi come libertà dagli uni e dagli altri. Mezzi e fini sono nelle mani del sistema che li sottopone alla libera elezione dell’individuo, il quale, operando la sua scelta, non li abolisce, ma si inserisce nella catena efficientistica e produttiva che consente all’individuo di conseguire i fini scelti e al sistema di controllare l’individuo.

Il controllo avviene predisponendo una serie di bisogni da soddisfare mediante una catena di mezzi adeguatamente predisposta. Inserendosi, l’individuo ha la sensazione della libertà come libertà dal bisogno, e di conseguenza accetta il sistema che gli fornisce i mezzi per questa liberazione. In presenza di un livello di vita via via più elevato, il non conformarsi al sistema sembra essere del tutto irrazionale, tanto più quando la cosa comporta tangibili svantaggi in ordine alla soddisfazione dei bisogni. Il sistema, dal canto suo, manipolando i bisogni in vista dei suoi interessi costituiti, concilia l’esigenza di libertà dell’individuo con i suoi obiettivi efficientisti.6

Ancora una volta si ripropone quella conciliazione degli opposti in cui il sistema esprime la propria razionalità. Per sradicarla, gli individui dovrebbero esprimere dei bisogni non previsti dalla struttura del sistema, come per esempio una libertà economica come liberazione dall’economia gestita da potentati che agiscono alle spalle dell’individuo, una libertà politica come liberazione da una politica su cui l’individuo non ha alcun controllo effettivo, una libertà intellettuale come liberazione dall’opinione pubblica mediante la restaurazione del pensiero individuale.

Ma finché i bisogni che prevalgono sono quelli di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e di odiare come tutti amano e odiano, allora la libertà non ha alcuna possibilità di liberare dal sistema, al contrario diventa essa stessa strumento efficace della sua efficienza e stabilità. Analogamente la ragione individuale non svolge più un adeguato controllo critico, perché impegnata a conformarsi alla ragione sociale e al conseguimento di quei beni che la società considera distintivi nella stratificazione sociale.

Identificandosi con gli oggetti conseguiti, il soggetto, che alla ragione sociale ha già sacrificato pensiero e libertà, porta a compimento la propria alienazione giudicando “irrazionale” qualsiasi atteggiamento difforme dalle leggi della sua società. In questo processo, che non è di adattamento, ma di mimesi, nasce e si sviluppa l’etica del conformismo, che consente alla razionalità del sistema di completare quel processo di controllo degli individui iniziato con la creazione e la manipolazione dei bisogni da soddisfare.

Per conformismo si deve intendere l’adeguamento della propria vita alla vita del sistema, e questo per l’impossibilità “tecnica” di essere autonomi, di decidere personalmente della propria vita, prescindendo da quella trama di relazioni in cui la razionalità del sistema ha inserito l’individuo. La socializzazione di massa comincia tra le quattro mura di casa, dove l’intervento dei media cattura la disponibilità degli individui, in modo che questi uniformino il loro modo di pensare e di comportarsi alle finalità che il sistema si propone. Nella mancanza della difesa della vita privata è rintracciabile la prima impossibilità tecnica a esprimere un pensiero e una volontà che non sia il pensiero e la volontà di tutti. E come può una società, incapace di proteggere la sfera privata dell’individuo, asserire legittimamente di rispettare l’individuo e di essere una società libera?

È ovvio che una società viene definita “libera” dal rispetto di ben altre fondamentali condizioni, oltre che dall’autonomia della sfera privata, eppure l’assenza di quest’ultima vizia anche le maggiori istituzioni della libertà economica e politica, negando la libertà nella sua nascosta radice, che è quella del pensiero autonomo e non condizionato dalla dittatura del Si impersonale (Man), a proposito del quale Heidegger scrive:

Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblica, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’altro. Un siffatto esser-assieme dissolve completamente il singolo Esserci nel modo di essere degli altri, sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro diversità e determinatezza. In questa irrilevanza e impersonalità il Si (Man) esercita la sua autentica dittatura. Ce la spassiamo e ci divertiamo come ce la si spassa e ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani anche dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo rivoltante ciò che si trova rivoltante. Il Si, che non è alcun Esserci determinato, ma tutti (non però come somma), prescrive il modo di essere della quotidianità.7

L’impersonalità del Si opera un livellamento di tutte le possibilità di essere, di pensare, di volere, e quindi facilita alla razionalità del sistema il proprio compito di controllo. Ciò che si lascia prevedere, infatti, si lascia anche più facilmente controllare. Livellando le esperienze e le aspirazioni, il sistema è in grado di compiere la sua opera di repressione, senza l’impiego di strumenti brutali che potrebbero determinare la sua distruzione. Non solo, ma avendo già anticipato l’ambito di ogni possibile decisione, il Si sottrae ai singoli il peso della loro responsabilità, e gratificandoli dei mezzi necessari per portare a compimento le decisioni da loro prese, si rende gradito a essi e così approfondisce il suo radicato dominio.8

Dal dominio del Si, e quindi dal sistema che tramite il Si domina e reprime, ci si può liberare solo con “de-cisione (Ent-scheidung)” che, come vuole l’etimo, dice “taglio”, “separazione” dal Si, dove tutto è già deciso e dove nessuno è libero se non di fare ciò che tutti fanno. Ma perché la decisione accada è necessario che l’uomo sia raggiunto da una voce che non sia la “chiacchiera”, la “curiosità”, l’“equivoco”, di cui si sostanzia il discorso quotidiano, ma, come dice Heidegger, dalla “chiamata”, perché:

La chiamata non racconta storie e chiama senza strepito di voce. Essa chiama nel modo spaesato del tacere. E ciò appunto perché la voce della chiamata non giunge al richiamato mescolata alle chiacchiere pubbliche del Si, ma lo sottrae invece a esse richiamandolo al silenzio del poter essere esistente.9

Nel silenzio c’è la possibilità di avvertire la propria colpa che consiste nel “non padroneggiare la propria esistenza”.10 Nella coscienza di questa colpa, che non è morale ma esistenziale, in quanto rinuncia alla propria ec-sistentia, si dà la possibilità del riscatto, come possibilità di de-situarsi dalla situazione occupata nell’ambito della razionalità del sistema. Infatti, se “de-cidersi” vuol dire “separarsi” da quel paesaggio dominato dal Si, de-cidersi è de-situarsi, è disporsi, rispetto al sistema, come estranei, come “spaesati”. Nell’esser-spaesato l’uomo custodisce la sua essenza e le possibilità autentiche della sua libertà.

1 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I: “La coscienza infelice”, pp. 174-190.

2 Id., Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817); tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Utet, Torino 1981-2000, vol. I, Terza sezione della logica: “La dottrina del concetto”.

3 Id., Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821); tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, p. 115.

4 Sulla traduzione dei problemi “morali” in problemi “tecnici”, si veda G. Anders, Hiroshima ist überall (1958); tr. it. parziale Essere o non essere, Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961, e Wir Eichmannsöhne (1964); tr. it. Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995.

5 Per un approfondimento di questo tema si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 44: “La tecnica e l’impotenza dell’etica”.

6 Sul problema della libertà nell’età della tecnica rinvio a U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 50: “La libertà come dissimulata schiavitù”.

7 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, pp. 215-216.

8 Per questo passaggio che conduce l’uomo dalla sua alienazione nell’apparato alla sua identificazione con l’apparato si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., capitolo 41, § 3: “Dall’‘alienazione’ nei sistemi pre-tecnologici all‘’identificazione’ con il sistema tecnologico”.

9 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 412.

10 Ivi, p. 421.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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