10.

L’essere come phýsis

Phýsis è ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa), cioè il dispiegarsi aprendosi e in tale dispiegamento fare apparizione, il tenersi in questa apparizione e dimorarvi; in breve: il dominare che sbocciando perdura.

M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica (1935-1953), p. 25.

Il pensiero aurorale è dominato dal senso custodito nella parola phýsis. Perì phýseos si intitolano gli scritti dei primi filosofi che, proprio per questo, saranno chiamati “fisici”. L’accezione diminuita, assunta successivamente dal termine phýsis, dipende dalla cattiva traduzione operata dalla latinità romano-cristiana che, a parere di Heidegger, è già vittima dello smarrimento del senso dell’essere:

I Romani tradussero phýsis con “natura”; “natura” viene da nasci,nascere, trarre origine in greco ghen-; natura è ciò che genera e fa scaturire da sé.1

Il senso della phýsis, ancora mantenuto nell’etimologia di natura, è già smarrito dal pensiero che impiega il termine inserendolo in un uso linguistico che ne rivela la sostanziale incomprensione. Per rendersene conto basta il riferimento ad alcune rozze antitesi che prevedono la contrapposizione fra natura e sopra-natura, natura e arte, natura e storia, natura e spirito, salvo poi parlare della natura dell’arte, della storia e dello spirito.

Con l’avvento del cristianesimo la parola “natura” fa riferimento o alla zona intermedia tra l’illecito (contro-natura) e il salvifico (sopra-natura), oppure all’ambito affidato alla libertà dell’uomo. In questa accezione, “natura” significa tutto ciò che, lasciato a se stesso, produce con le sue passioni la rovina dell’uomo, e come tale va controllato e represso, oppure la sfrenata manifestazione degli appetiti e delle passioni intesi come il “naturale” nell’uomo, secondo quanto previsto dall’homo naturæ di Nietzsche.

Per quanto diverse, le due interpretazioni concordano nell’accezione sotto cui assumere e considerare la natura. Qualunque sia il significato di volta in volta affidato al termine nella storia del pensiero dell’Occidente, si fa sempre riferimento all’essenza dell’ente, per cui si parla di “natura dell’animale”, di “natura dell’uomo”, e addirittura di “natura di Dio”. Così facendo, il senso dell’essere, originariamente custodito dalla parola phýsis, resta ancora una volta impensato.

Allo scopo di superare il travisamento della parola nella lettura latino-cristiana e ritornare al senso autentico dell’essere, presente nel termine phýsis, Heidegger si serve di alcuni passi aristotelici in cui è chiara la sinonimia tra “phýsis” e “ón”, e in particolare al IV libro della Metafisica dove Aristotele riporta l’indagine sull’ente in quanto ente all’indagine che i fisici fecero sulla phýsis. Ciò consente a Heidegger di affermare che in Aristotele non c’è alcuna differenza tra la fisica e la metafisica, perché la fisica, come attenzione alla phýsis, è l’essenza stessa della metafisica.

Pensare diversamente significa pensare non in modo greco, ma in modo latino-cristiano dove, dopo aver distinto la natura empiricamente verificabile dalla sopra-natura logicamente affermabile ma trascendente, ha luogo la separazione tra la fisica e la metafisica, con conseguente assegnazione della prima alla scienza, e della seconda alla filosofia.

Quest’ultima, nella sua accezione moderna, accentuando anche gnoseologicamente la trascendenza di quanto era espresso nella phýsis del pensiero aurorale, ha finito col ridurre l’essere a noumeno inaccessibile. In questo contesto, l’impossibilità della metafisica, sancita da Kant, denuncia l’impossibilità intrinseca allo smarrimento del senso di ciò che, perduto, è impossibile recuperare altrove.

Dopo aver riscattato la phýsis dalla natura latina, definita come “malaessenza (Unwesen) della phýsis”,2 Heidegger procede alla definizione del termine in questo modo:

Phýsis è ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa), cioè il dispiegarsi aprendosi e in tale dispiegamento fare apparizione, il tenersi in questa apparizione e dimorarvi; in breve: il dominare che sbocciando perdura.3

Questa definizione, che si conquista gradatamente in quel pensare poetico che affida all’immagine successiva il senso espresso dalla precedente, con un arricchimento che è poi penetrazione di significato, vuol rendere quell’inespresso senso dell’essere che mosse il pensiero aurorale e che, obliato, determinò l’alienazione dell’Occidente.

1. Phýsis è ciò che sboccia da se stesso (come ad esempio lo sbocciare di una rosa). Lo sbocciare da se stesso esprime la spontaneità dell’aprirsi, per cui l’essere è innanzitutto un venire alla luce uscendo dal nascondimento, un tenersi nell’apparire, un dominare, un permanere nella manifestazione. L’essere non è ciò che appare, perché ciò che appare è l’ente, l’essere è l’apparire di ciò che appare.

Questo carattere costitutivo dell’essere è stato forse il più ignorato e il più trascurato dal pensiero occidentale che, nella sua dimenticanza, ha affidato all’uomo, raccolto nella soggettività del cogito o Io penso, la potenza di far apparire l’ente in generale. Nel pensiero aurorale l’uomo non compare perché l’apparire è affidato all’essere: l’ousía (l’essere) è parousía (presenza). All’uomo è concessa la possibilità di tenersi nelle prossimità di questo apparire nella forma della ri-flessione (nach-denken), che ha come suo contenuto non il semplice essere, ma l’essere nel suo apparire. Quest’ultimo, lungi dall’essere determinato dall’uomo, include nella totalità delle determinazioni presenti anche quella particolare determinazione che, da diversi punti di vista, è stata qualificata dal pensiero occidentale come coscienza. Che l’apparire appartenga all’essere e non alla coscienza lo testimonia anche l’uso linguistico che, come ci ricorda Heidegger, introduce la parola essere (sein) nella formazione della parola coscienza (Bewusst-sein):

Questo uso linguistico non è assolutamente da far risalire a una terminologia impropria e casuale, ma si fonda nella maniera nascosta secondo la quale l’essere stesso si manifesta e si nasconde.4

Questa originaria coappartenenza di essere e apparire, rintracciabile nel greco ousía-parousía, nel latino esse-adesse, nel tedesco wesen-anwesen ha il suo riscontro etimologico nelle radici “phu” = “pha”, da cui derivano phýsis (essere) e phaínesthai (manifestarsi). Il modo di manifestarsi dell’essere è simile al modo di manifestarsi della luce (pháos), che non manifesta se stessa, ma le cose che sottrae all’oscurità per portarle, appunto, alla luce. L’essere (phýsis), come la luce (pháos), è ciò che porta alla presenza l’ente, ciò che, dimorando presso l’ente (pres-ente), lo fa essere e apparire.

2. Phýsis è il dispiegarsi aprendosi. Siamo al secondo carattere che esprime la differenziazione nell’aprirsi. Se l’essere è presenza, manifestazione, apertura, ciò che si dispiega in questa apertura, e dispiegandosi si differenzia, è la molteplicità degli enti. L’essere è il lasciar accadere gli enti. Questo accadere e dispiegarsi degli enti è l’opposizione che Eraclito chiama pólemos e Anassimandro adikía. Le due parole, riscattate dai contesti banalizzanti in cui solitamente si trovano inserite, si riferiscono a quel differenziarsi e opporsi che la rivelazione dell’essere custodisce. Se infatti all’essere appartiene l’apparire, il modo di apparire dell’essere avviene necessariamente nei limiti (péras) espressi dalla de-terminazione degli enti, in cui l’essere appunto, nel suo dispiegarsi, “termina”. L’essere come indeterminato fondamento (ápeiron) di determinazioni (péras) resta altro rispetto all’apparire determinato dall’ente, resta assente rispetto alla sua presenzialità determinata.

In questo contrasto di presenza-assenza, di identità e alterità, è custodita quella differenza ontologica tra essere ed ente, che si manifesta proprio in quel dispiegarsi aprendosi in cui si esprime la phýsis. È in questa luce che si deve leggere, secondo Heidegger, il detto di Anassimandro che coglie gli enti in quel rapporto di díke e adikía che, lungi dal riferirsi a strutture umane, giuridiche o sociali5 esprimono quel senso che, dice Heidegger: “riecheggia di vetta in vetta” come dimostra la sua apparizione in Eraclito e Parmenide.6

Díke è la giustizia che concede a ogni ente presente di soggiornare (Weile) nella presenza dell’essere quel tempo relativo (das je-weilige) che rende possibile l’avvicendamento degli enti, i quali, mantenendosi nei limiti della presenza loro assegnata, si portano reciproco rispetto (tísin allélois). Oltrepassare questi limiti e ostinarsi nel trattenersi illimitatamente nella presenza è soggiornare nell’ingiustizia (adikía).

La chiave dell’interpretazione risiede nell’ápeiron pensato come illimitata presenza: l’ápeiron è l’essere che man-tiene gli enti nel proprio soggiorno. Il verbo man-tenere (chreón) esprime quel fondarsi dell’ente nell’essere che consente all’ente di trattenersi nel soggiorno della presenza finché l’essere lo lascia essere. Giustizia è il mantenersi degli enti nei limiti accordati dalla presenza illimitata (ápeiron). Ingiustizia è quando gli enti pretendono per sé quella presenza illimitata che è invece dell’ápeiron. L’ingiustizia è quindi oblio della differenza tra essere ed ente, oblio concesso dall’essere stesso che, nel presentare l’ente, nel dispiegarsi nelle sue de-terminazioni, si assenta come indeterminato, affinché il determinato, dispiegandosi, possa accamparsi nella presenza.

Il dispiegarsi della phýsis negli enti, così come è espresso dall’ápeiron di Anassimandro, che, senza limiti, limita il soggiorno evitandone la prevaricazione, trova i suoi corrispondenti nella moîra di Parmenide che impartisce le parti agli enti soggiornanti, nel lógos di Eraclito che raccoglie (léghein) gli enti presenti, nell’idéa di Platone che, correttamente pensata, esprime l’essenziale esser-presente di ciò che si mostra, nell’enérgheia di Aristotele che pro-duce o fa sorgere l’érgon, l’opera, l’ente. Questi termini differenti indicano tutti il Medesimo: la phýsis o essere che, nel suo aprirsi, accoglie in unità il dispiegamento degli enti. Scrive infatti Heidegger:

Nella ricchezza nascosta del Medesimo ognuno di questi pensatori, a suo modo, pensa l’unità dell’uno unente (die Einheit des einenden Einen), l’Én.7

Va da sé che, tradotti nel linguaggio dell’Occidente, che è linguaggio dell’oblio della differenza ontologica, l’ápeiron diventa l’infinito, la moîra il fato, il lógos il pensiero, l’idéa l’essenza, l’enérgheia l’actualitas dell’Ente supremo, e la presenza, in cui la phýsis si esprime, diventa l’oggettività rappresentata da quel soggetto o ego cogito che, prevaricando a sua volta, prende il posto dell’essere. Di qui il disappunto di Heidegger: “Ma in che lingua traduce la terra della sera, l’Occidente? (Im welche Sprache setzt das Abend-Land über?)”.8

Col travisamento del senso originario dell’essere, l’uomo, lungi dal pensarsi ospitato dalla sua manifestazione, s’è considerato pa-drone dell’ente, e con la sua potenza rappresentativa e progettante s’è lanciato su tutta la terra. La totalità dell’ente è divenuta oggetto della sua conquista.

3. Phýsis è l’apparire in tale dispiegamento. Questo terzo carattere che viene alla luce sottrae la geneticità della phýsis a quell’impostazione causale che concepisce il dispiegamento come l’effetto di una causa. L’essere non è la causa del dispiegamento dell’ente, ma la manifestazione di quanto, nel dispiegamento, si dispiega. L’essere, cioè, appare in quanto entifica, in quanto si dà all’ente. A questo proposito Heidegger avverte che solo dell’ente possiamo dire che è (ist), perché dell’essere dobbiamo dire che si dà (es gibt). In questo senso l’essere non è, perché il suo essere consiste nel darsi all’ente. In questo darsi l’essere appare.

Alla luce di questa considerazione acquistano nuovo significato le parole arché e kínesis così ricorrenti nel pensiero aurorale. Il termine arché fu impiegato dai Greci in due sensi fondamentali: quello di principio da cui qualcosa prende le mosse per uscirne, e quello di dominio su quanto, sortito, è ancora in qualche modo ritenuto. La principialità dell’arché non è dunque di tipo causale, ma si esprime come geneticità pura che, dis-velandosi, si colloca nel suo termine. Come arché, la phýsis non genera l’ente, ma si genera nell’ente conducendolo alla presenza (ousía-parousía). L’ente, così presentato, è dominato dalla phýsis.

La phýsis è arché in quanto kínesis. La motilità che la caratterizza non è da riferire allo spazio o al tempo, ma a quel venire dall’occultamento (léthe) al disoccultamento (a-létheia) in cui è custodita la sua verità. Presentando, disvelando, la phýsis genera, domina e, nella dinamicità del dispiegamento, appare. Quando Aristotele parla della phýsis come dell’arché kinéseos9 esprime inconsapevolmente quel darsi dell’essere all’ente in cui è custodito il senso del pensiero aurorale.

Il darsi dell’essere all’ente lascia intendere anche la possibilità di un rifiuto da parte dell’essere nei confronti dell’ente; in questo caso il sottrarsi dell’essere è la presenza dell’essere come non-essere dell’ente. Questo rilievo vuol esprimere la contingenza, o come preferisce Heidegger, la problematicità che accompagna l’accadimento dell’ente. Va da sé che questo tipo di contingenza non ha nulla a che fare con quella platonico-cristiana, perché la prima è il darsi o il rifiutarsi dell’essere all’ente, la seconda è il dare o il rifiutare l’essere a un ente da parte dell’Ente supremo. Qui il senso del pensiero aurorale è tradito.

4. Phýsis è tenersi in questo apparire e dimorarvi. Ciò che nell’apparire si tiene e vi dimora è l’ente. L’ente non è l’essere, ma ciò che l’essere, lasciando accadere, fa apparire. L’ente ha quindi il suo fondamento (Grund) nell’essere, mentre l’essere non ha fondamento, o se si preferisce: fondamento dell’essere è il fondo abissale (Abgrund) che si dischiude. L’abissalità è immagine sufficiente a escludere ancora una volta la possibilità di equiparare il fondamento dell’essere a quella geneticità causale tipica della metafisica occidentale nel suo rinvio ad altro.

L’essere (eînai) fonda l’ente (ón) nel senso che prende parte al suo accadere. Questo tipo di fondazione è espresso dal linguaggio del pensiero aurorale là dove, in Omero, per esempio, si trovano impiegati eón e ónta. La “e” smarrita, appartiene alla radice “es” di estín; eón significa allora l’ente che è, la forma partecipiale è tale nel senso grammaticale e metafisico; l’ente cioè è participio perché l’essere gli si partecipa, ossia prende parte al suo accadimento. A questo proposito Heidegger scrive:

Con un po’ di esagerazione, ma non senza fondamento, si può dire che il destino della terra della sera, dell’Occidente, dipende dalla traduzione della parola eón, posto che la traduzione sia un tradursi nella verità di ciò che nell’eón è giunto a farsi parola.10

Prendendo parte all’ente, partecipando all’ente, l’essere è sempre “presente”, nel senso che è sempre “presso l’ente”. Il “pre-” di “presente” non ha il senso dello star di fronte a un soggetto, come intende il pensiero moderno da quando ha ridotto la presenza all’oggettività, ma indica la regione aperta e disvelata dell’essere in cui prende soggiorno l’ente.

Dire che l’essere prende parte all’ente non autorizza a pensare l’essere come qualcosa di ontico. Al contrario, proprio perché l’essere è nulla di ente, l’ente può apparire come esso è, e dimorare nell’essere finché l’essere “gli si dà”. Il “finché” lascia intendere quella dimensione temporale che accompagna l’essere per quanto concerne l’accadimento dell’ente.

Questo accadere (geschehen) temporale è la storia (Geschichte), scandita dal presentarsi e dall’assentarsi dell’ente da quel soggiorno dominato dal non esser nascosto dell’essere. Se presente è il soggiorno, abs-ente è ciò che nel soggiorno sta per giungere o per congedarsi. Definendosi rispetto al presente, anche l’assente è essente presente, non certo nella forma del soggiorno, ma in quella dell’annuncio e del congedo. In questo modo presenza e assenza costituiscono quel libero campo di gioco in cui l’essere abbandona al rischio l’ente. È nel rischio qualunque cosa sia senza protezione in quel soggiorno che prevede anche il congedo. In questo senso, scrive Heidegger:

Ogni ente è arrischiato. L’essere è il puro semplice rischio. Esso arrischia noi: gli uomini. Arrischia i viventi. L’ente è, in quanto è di volta in volta affidato al rischio. Ma l’ente rimane rischiato nell’essere, cioè in un rischio. Di conseguenza l’ente è esso stesso arrischiante, cioè rimesso al rischio. L’ente è in quanto va nel rischio in cui è lasciato andare. L’essere dell’ente è il rischio.11

Il rischio è quell’insopprimibile contingenza che accompagna ogni ente nel suo accadimento. Il suo senso si trova già espresso in Eraclito là dove l’essere è concepito come il tempo del mondo, e questo tempo come un gioco da fanciullo: “Tempo del mondo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un gioco infantile”.12

Gettati nella sorte dell’essere, tutti gli enti sono arrischiati senza protezione. Nella ricerca della protezione, capace di sottrarre l’uomo, e gli enti a cui l’uomo è interessato, al rischio in cui l’essere li ha sospinti, è custodita l’essenza di quella volontà di potenza che, col suo avvento, ha deciso la sorte dell’Occidente. La scienza e la tecnica, che caratterizzano la civiltà occidentale, sono ricerca esasperata di protezione, tentativo di sottrarre la totalità dell’ente a quel gioco da fanciullo in cui l’essere l’ha arrischiata.

Ma la securitas è davvero garantita da quella serie di protezioni che la scienza e la tecnica non cessano di offrire? Oppure la securitas è da cercare in quella sine cura che si manifesta là dove non si fa più il calcolo delle protezioni, perché si rimane nel gioco arrischiante dell’essere? L’essere senza protezione può custodire e proteggere solo se l’uomo resta aperto all’essere e questo resta dischiuso nella sua apertura. Ma alla phýsis appartiene anche il nascondimento, anzi, come ci avverte Eraclito: “La phýsis ama nascondersi (Phýsis krýptesthai phileî)”.13

5. Phýsis è il dominare che sbocciando perdura. Ciò che nel dispiegamento differenziato degli enti domina (waltet) e perdura (verweilen) è l’essere che qui è colto in due nuove accezioni: la positività del dominare e l’unità del perdurare nella differenza. L’essere è il positivo, perché è ciò che originariamente toglie la negazione di se medesimo e, in quanto munito di questa capacità, domina e si impone. L’essere è uno come perdurare dell’identico nel differente. Anzi, scrive Heidegger:

La coappartenenza di essere e unità, dell’eón e dell’én si manifesta al pensiero già nel grande inizio della filosofia occidentale.14

A questo punto sorge spontanea la domanda: se l’essere è il dominare e il perdurare in questo dominio, come ha potuto accadere il suo assentarsi per tutto il corso della filosofia dell’Occidente? Come può essersi costituita accanto alla figura del walten (il dominare nell’apparire), la figura del verborgen (il nascosto), di cui la verità come a-létheia, Un-verborgenheit, non-nascondimento, è la negazione?

Per rispondere alla domanda è necessario approfondire la relazione tra il walten e il verborgen, tra il celato e ciò che domina nel disvelamento, che non è nuova nella storia della filosofia. Anche in G. Gentile, per esempio, c’è qualcosa di simile nelle battute iniziali della “Logica dell’astratto”.15 Heidegger parla di un venire alla luce (sich herausbringen, letteralmente “portarsi fuori”) del nascosto, Gentile parla di un’attualizzazione dell’essere che viene tolto dalla sua esistenza immediata. Per il filosofo dell’attualismo “pensare” significa negare l’immediatezza dell’essere, negare la sua estraneità al pensiero, con l’avvertenza che quanto viene negato non è qualcosa che riesca a costituirsi prima del suo essere negato, ma è qualcosa che si costituisce, che vive solo in quella negazione.

Das Verborgene, il nascosto di Heidegger, è invece ciò che ancora non si è dischiuso; per cui, se il dischiudersi, il disvelarsi è il corrispondente dell’attualità gentiliana, il nascosto è ciò che si costituisce prima della presenza. Ne consegue che mentre per Gentile il nascosto è un’ombra che vive solo nell’atto della sua negazione compiuta dal pensiero, per Heidegger il nascosto è il sottosuolo che precede l’apparire di ciò che domina nel dischiudersi, e in cui l’essere si raccoglie quando si sottrae all’apparire.

In questo sottrarsi dell’essere è contenuta la possibilità dell’oblio che, a giudizio di Heidegger, si è storicamente verificato con Platone quando l’essere è stato identificato con l’idea, e questa, invece di significare la visione (ideîn) dell’ente, ha significato l’ente nella dimenticanza del suo apparire, per cui l’essere, da presenza (parousía, præsentia, Anwesung) di qualcosa, è diventato il qualcosa (ousía, quidditas, Wassein) che è presente. A causa di questo capovolgimento, l’essere è stato assorbito nell’ente, e il conseguente oblio della differenza ontologica ha determinato quell’assentarsi dell’essere per tutto il corso dell’Occidente, che, a quel punto, si è fatto attento alla sola vicenda ontica.

In questa assenza l’essere si è custodito nella sua “verità”, intesa questa volta come veritas, come Wahrheit,16 in attesa di una nuova rivelazione in grado di ricondurre dal Verborgen all’Unverborgenheit, dal nascondimento alla manifestazione. Il rilievo alimenta la speranza heideggeriana che proprio noi, in quanto ultimogeniti della terra che ha vissuto il tramonto del senso custodito dalla parola phýsis, siamo i più idonei a divenire precorritori di quell’alba in cui si assisterà di nuovo all’a-létheia dell’essere.

1 M. Heidegger, Vom Wesen und Begriff der physis. Aristoteles’ Phisik B, 1 (1940-1958); tr. it. Sull’essenza e sul concetto della physis. Aristotele, Fisica, B, 1, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 193.

2 Ivi, p. 254.

3 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 25. Recita il testo tedesco: “Was sagt nun das Wort physis? Es sagt das von sich aus Aufgehende (z.B. das Aufgehen einer Rose), das sich eröffnende Entfalten, das in solcher Entfaltung in die Erscheinung-Treten und in ihr sich Halten und Verbleiben, kurz, das aufgehend-verweilende Walten”.

4 Id., Hegels Begriff der Erfahrung (1942-1943); tr. it. Il concetto hegeliano di esperienza, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 141.

5 “Giuridica” è l’interpretazione di W. Jaeger, Paideia. Die Formung des griechischen Menschen (1933); tr. it. Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, Firenze 1978. “Sociale” è invece l’interpretazione di R. Mondolfo, Polis. Lavoro e tecnica, Feltrinelli, Milano 1982.

6 M. Heidegger, Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, cit., p. 299: “Il testo di Anassimandro è la più antica parola del pensiero occidentale. Nella sua versione abituale esso recita: ‘Là dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia’”. Seguendo la lettura di J. Burnet, Early Greek Philosophy, London 1914, Heidegger accetta come testo originario di Anassimandro solo la seconda parte che così traduce: “Lungo il man-tenimento; essi lasciano infatti appartenere l’accordo e quindi anche la cura riguardosa dell’uno per l’altro (nella risoluzione) del disaccordo” (ivi, p. 347).

7 Ivi, p. 347.

8 Ibidem.

9 Aristotele, Fisica, Laterza, Bari 1973, Libro II, 192 b, 21.

10 M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, cit., p. 321.

11 Id., Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, cit., p. 257.

12 Eraclito, fr. B 52.

13 Id., fr. B 123.

14 M. Heidegger, Kants These über das Sein (1962); tr. it. La tesi di Kant sull’essere, in Segnavia, cit., p. 407.

15 G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere (1917), in Opere, Sansoni, Firenze 1955, vol. V, pp. 169-170.

16 Veritas in latino e Warheit in tedesco derivano per Heidegger dall’etimo “war” che significa “custodia”, donde bewahren (custodire), verwahren (preservare), gewahren (salvaguardare). Scrive in proposito M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, cit., p. 324: “Un giorno impareremo a pensare il termine verità (Wahrheit) a partire dalla salvaguardia (Wahrniss) dell’essere; e che l’essere, in quanto essere-presente, rientra in essa”.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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