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La storia come epoché
Storia dell’essere significa destino dell’essere (Seinsgeschichte heisst Geschick von Sein), nelle cui destinazioni (Schickungen) sia il destinare sia l’impersonale (das Es) che destina trattengono la loro manifestazione. Trattenersi si dice in greco epoché. Donde il parlare di epoche del destino dell’essere.
M. HEIDEGGER, Tempo ed essere (1969), pp. 106-107.
La verità come alétheia e la non-verità come segreto hanno messo in chiaro che il non-essere-nascosto dell’ente, quindi la sua verità, oscura la luce dell’essere, sicché l’essere si trattiene in se stesso mentre si scopre nell’ente, questo nascondersi-rivelandosi è chiamato da Heidegger Geschick dell’essere.
Il termine Geschick può essere reso con “sorte”, “destino”, “ventura”. Esso traduce il senso espresso dal tò chreón di Anassimandro, che, “secondo necessità”, assegna il soggiorno limitato agli enti, poi prevaricanti, oppure il senso custodito dalla moîra di Parmenide che, imparziale, impartisce a ogni ente la parte che gli tocca in sorte. Così chiarito, il termine Geschick rivela un duplice significato: quello abituale di sorte e destino (da Schickung = decreto) e quello più originario che, nel richiamo a schicken (mandare, inviare), esprime “invio”, “avvento”, “ventura”.
Parlare di Geschick dell’essere significa allora dire che l’essere ha come suo destino (moîra) o struttura necessaria (tò chreón) la sorte di venire nell’ente sottraendosi, sicché la sua ventura, il suo presentarsi coincide col suo assentarsi. In questa definizione noi troviamo richiamati i concetti fondamentali del pensiero aurorale e precisamente: la phýsis come sbocciare e dispiegarsi e l’alétheia come implicanza di presenza e assenza, secondo quella sorte e quel destino che sono custoditi nel segreto dell’essere.
L’assentarsi dell’essere, che avviene in occasione dell’accadere dell’ente, non smentisce l’affermazione, più volte ripetuta, secondo la quale l’essere è la stessa presenza dell’ente, perché l’ente può essere veramente presente come quell’ente che è, solo se l’essere nel presentarlo si sottrae, sì da concedere all’ente di soggiornare veramente nell’essere, come quell’ente che è. Il sottrarsi dell’essere, allora, non indica il precipitare dell’ente nel nulla ma indica quell’assentarsi dell’essere in quanto essere, affinché possa presentarsi l’essere di quell’ente che avviene nella radura (Lichtung) dell’essere, a proposito della quale Heidegger scrive:
Il sostantivo Lichtung (radura) deriva dal verbo lichten (diradare). L’aggettivo licht (rado) è lo stesso di leicht (lieve, leggero). Etwas lichten (diradare qualcosa) significa: rendere qualcosa rado, libero, aperto, per esempio liberare in un posto il bosco dagli alberi. Lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung, la radura. Il rado nel senso di ciò che è libero e aperto non ha nulla in comune, né linguisticamente né quanto alla cosa stessa, con l’aggettivo licht nel significato di “chiaro”. Ciò va tenuto presente per la diversità tra Lichtung (radura) e Licht (luce). Nondimeno sussiste la possibilità di una connessione oggettiva tra i due termini. La luce può cadere infatti nella radura, nel suo spazio aperto, e lasciarvi avvenire il gioco di chiaro e scuro. Ma giammai è la luce a creare per prima la radura, bensì quella, la luce, presuppone questa, la radura. Ma la radura, l’aperto, è libera non solo per il chiaro e lo scuro, per l’eco e il suo perdersi, per il risonare e il suo smorzarsi. La radura è l’aperto per tutto ciò che viene alla presenza e che ne esce.1
Lichtung, reso con radura, esprime in termini poetici il destino (Geschick) dell’essere che è quello di presentarsi assentandosi, per consentire il libero accadere dell’ente. Con la parola “destino” non si deve intendere alcunché che alluda alla necessità del prodursi di qualcosa, come nel caso del principio di causalità che, anticipando necessariamente l’ente, esclude la possibilità del suo non-essere in quel rapporto cogente di causa-effetto che, come s’è visto, non appartiene solo alla scienza, ma anche alla metafisica ontica. Se così fosse il destino dell’essere non concederebbe il libero accadimento dell’ente, ma creerebbe una situazione analoga a quella presieduta dalla logica del principio di ragion sufficiente, che intende appunto anticipare l’accadimento dell’ente con la preesistenza di determinate ragioni, in riferimento alle quali un determinato accadimento deve effettuarsi.
L’assentarsi dell’essere, a favore del libero accadimento dell’ente, è l’epoché dell’essere, la sua “sospensione”, a proposito della quale Heidegger scrive:
Questo luminoso mantenersi in sé con la verità della propria essenza, possiamo chiamarlo epoché dell’essere. Questo termine, di origine stoica, non significa qui, come in Husserl, il metodo della sospensione dell’atto tetico della coscienza nell’oggettivazione. L’“epoca” dell’essere appartiene all’essere stesso. Essa è pensata a partire dall’oblio dell’essere.2
Questa sospensione o epoché della rivelazione dell’essere è ciò per cui l’essere è epocale, ossia si rivela per epoche.3 La metafisica occidentale, che nella sua attenzione all’ente ha obliato l’essere, determinando quell’esito nichilista che vede la riduzione dell’essere a niente, è un’epoca dell’essere, l’epoca della sua epoché, della sua assenza. Nella storia della metafisica l’essere si è annunciato, di volta in volta sottraendosi: nel lógos di Eraclito, nella moîra di Parmenide, nell’idéa di Platone, nell’enérgheia di Aristotele, nell’ens creatum dei filosofi medioevali, nell’essere oggettivo di Kant, nel concetto assoluto di Hegel, nella volontà di potenza di Nietzsche. In queste figure l’essere si è dato (es gab = c’era) sottraendosi, sicché la storia della metafisica occidentale è essenziale alla storia dell’essere, come epoca dell’annuncio della sua assenza.
La sorte (Geschick) epocale dell’essere, che si annuncia sottraendosi, è il fondamento e l’origine della storicità (Geschichtlichkeit) dell’essere. La storia (Geschichte) è la ventura (Geschick) dell’essere, che nelle varie epoche si annuncia assentandosi.
La continuità della storia non è da pensarsi come successione di epoche, “quasi un nastro, un filo che annoda le epoche”,4 sì da poterle dedurre l’una dall’altra. La storia non è di epoca in epoca, ma da quell’epoché, che è l’assentarsi dell’essere, alle epoche che, di volta in volta e in forme sempre diverse, testimoniano quel custodirsi dell’essere che è il suo rifiutarsi. Infatti, scrive Heidegger:
Ciò che propriamente accade è l’abbandono dell’ente da parte dell’essere (Seinsverlassenheit des Seienden); accade cioè che l’essere abbandona l’ente a se stesso e in ciò si rifiuta.5
Il rifiutarsi dell’essere è il consentire all’ente di emergere e di apparire. Il rifiutarsi è l’ad-venire (Ge-schick) dell’essere all’ente, è la storia (Geschichte) come rapporto contingente di essere ed ente, come apparire e sparire di quest’ultimo nell’ambito permanente dell’essere.
La tradizione è il tradursi delle varie epoche nell’epoché dell’essere che tutte le custodisce e le rende significanti. Ciò che è da pensare nelle varie epoche è ciò che solitamente non si pensa, perché custodito nell’epoché dell’essere, nel suo rifiutarsi. Pensare la storia (Geschichte) è pensare questo rifiuto, è sottrarsi quindi alla storiografia (Historie) che, come scienza storica modellata sulle scienze fisiche e regolata dal principio di causalità, è incapace di comprendere il destino dell’essere, che si sottrae a ogni causalità e a ogni ragion sufficiente.
Lo storiografismo, che è il sottoprodotto in cui si immiserisce lo storicismo, è l’ambiente in cui l’uomo non si rifà alla storia, ma alla rappresentazione della storia. Questo fenomeno è particolarmente evidente nell’epoca moderna che, in coerenza col proprio soggettivismo, ha sostituito il mondo (Welt) con l’immagine del mondo (Weltbild).6 Ciò si spiega col fatto che ogni epoca, dopo un inizio contrassegnato da un massimo di rivelazione unito a un minimo di occultamento, si conclude con un massimo di occultamento congiunto a un minimo di rivelazione. L’epoca metafisica, iniziatasi con la massima rivelazione dell’essere nella phýsis, si è conclusa con il massimo occultamento della phýsis a opera del soggettivismo moderno, che ha raggiunto il proprio apice nel volontarismo soggettivistico di Nietzsche.
L’estrema povertà della nostra epoca (die dürftige Zeit), che è seguita al trionfo dell’uomo sulla phýsis, è forse il segno del capovolgimento dell’epoca stessa in una nuova rivelazione dell’essere. Nel frattempo, a parere di Heidegger, la situazione è contrassegnata da una duplice carenza: “Che più non son gli dèi fuggiti, né ancor sono i venienti”.7 In armonia con lo spirito di povertà del tempo, il compito del pensiero è di ripetere ciò che originariamente fu detto. La tradizione (Überlieferung) è da riprendersi come ripetizione (Wiederholung), il pensiero (Denken) come pensiero-memorativo (Andenken), come ricordo (Erinnerung) o interiorizzazione (Innerung) di quanto nel passato s’è rivelato, nel futuro forse si rivelerà, e nel presente “è”, come rifiutantesi.
La comprensione del passato è la comprensione del pensiero aurorale, in cui l’essere si concede nella luce, per sottrarsi subito nell’“epocalità” dell’Occidente, con cui inizia il declino, il crollo, la soppressione, la dimenticanza e soprattutto l’inconsapevolezza. Infatti, scrive Heidegger:
La storia dell’essere inizia con l’oblio dell’essere, perché l’essere trattiene in sé la propria essenza, la differenza tra essere ed ente. La differenza resta esclusa. È obliata. [...] L’oblio della differenza, con cui inizia il destino dell’essere per compiersi in esso, non è però una mancanza, ma l’evento più ricco e più ampio in cui ha luogo e si decide la storia occidentale del mondo. È l’evento della metafisica. Ciò che ora è, si trova nell’ombra del precedente destino dell’oblio dell’essere.8
L’inizio è quindi a un tempo tenebra, perché, scrive Heidegger: “nasconde prima di scoprire, ed è in questo nascondersi che l’essere si apre”.9 Siccome i tesori della tradizione occidentale sono collocati tutti all’inizio, e in seguito sono solo conservati come intatti e nascosti, l’inizio che illumina la tradizione illumina la comprensione della sua negatività. Il nostro tempo, solo ripercorrendo il tempo aurorale, è nella possibilità di avvertire in tutta la sua drammaticità lo smarrimento in cui si muove la storia della sua terra, che è appunto terra del tramonto.
1 M. Heidegger, Zur Sache des Denkens (1969); tr. it. Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, pp. 172-173.
2 Id., Der Spruch der Anaximander (1946); tr. it. Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 314.
3 La connessione tra il termine “epoca” e il greco epoché già compare in J.-B. Bossuet, Discours sur l’histoire universelle (1679), in Œuvres, Gallimard, Paris 1961, p. 667, dove si legge: “Il termine ‘epoca (époque)’ deriva da una parola greca che significa ‘fermarsi (s’arrêter)’. La ragione per cui ci si ferma in un punto è per considerare quel punto come un luogo di riposo per tutto ciò che è giunto prima e giungerà dopo, onde evitare in questo modo anacronismi, vale a dire quella specie di errore che fa confondere i tempi”.
4 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, p. 162.
5 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 740.
6 Id., Die Zeit des Weltbildes (1938); tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit.
7 Id., Erläuterungen zu Hölderlin Dichtung (1944); tr. it. La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1988, p. 57. Il riferimento è alla poesia di F. Hölderlin, Brot und Wein (1801); tr. it. Pane e vino, in Le liriche, Adelphi, Milano 1977, vol. II, p. 112.
8 M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, cit., p. 340.
9 Id., Moira (Parmenides, VIII, 34-41) (1952); tr. it. Moira (Parmenide, VIII, 34-41), in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 164.