50.
Kant e la critica della ragione secondo Jaspers
Kant costituisce un passo unico nella storia universale della filosofia. Dal tempo di Platone non si è compiuto in Occidente un passo che abbia avuto così radicali conseguenze nella stimolante atmosfera del pensiero.
K. JASPERS, I grandi filosofi (1957), p. 703.
L’accostamento a Platone non è casuale. Come per Heidegger, anche per Jaspers Platone è colui che fonda l’Occidente, ponendo fine a quel “pensiero che attingeva all’originario”1 e che aveva trovato i suoi pensatori in Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Buddha, Lao-Tzu,2 e i suoi echi lontani in Plotino, Anselmo, Cusano, Spinoza.3 Con Platone l’originario è assorbito dall’idéa. Questa, mediandosi con il volontarismo cristiano, che ha trovato nella speculazione agostiniana la sua migliore formulazione,4 è giunta, nell’epoca moderna, a esprimersi nell’anticipazione della ragione che vuole la riduzione dell’essere a oggetto per un soggetto.
Kant, che nella ripartizione dell’opera I grandi filosofi compare nel raggruppamento che comprende Platone e Agostino, pensa all’interno della “scissione soggetto-oggetto (Subjekt-Objekt Spaltung)” per denunciare il significato scientifico e non esaustivo del pensiero che così opera, quindi per criticare la ragione nel senso letterale della parola, per avvertire che l’anticipazione matematica, con cui la ragione scientifica procede, non coglie il senso dell’essere, ma lo preclude. “Comprendere”5 Kant significa intendere il suo avvertimento secondo il quale, scrive Jaspers:
L’essenza del pensiero non è nel pensiero matematico che può essere eseguito mediante determinate operazioni, ma nell’inversione spirituale che si deve compiere con il pensiero stesso. Non si tratta di comprendere qualcosa come un oggetto, ma di compiere qualcosa di non-oggettivo nell’oggettivo. Tutto ciò ha senso solo se un giorno si verifica una scossa, quella dell’intellezione, che non è mistica né morale e non ha il carattere della rivelazione, ma trascende con il pensiero, nel pensiero razionale, il pensiero stesso.6
Pensare nell’oggettivo in vista del non-oggettivo, trascendere nel pensiero razionale il pensiero stesso, significa aver presente un’ulteriorità che sta alle spalle di quanto si offre sul piano dell’oggettività, a cui si arresta l’anticipazione matematica della ragione. In questa prospettiva la distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno acquista un significato diverso da quello che solitamente possiede quando è colta come momento conclusivo di quell’itinerario dualistico che, arrestando dogmaticamente l’intenzionalità del pensiero all’apparenza fenomenica, si proibisce la comprensione dell’essere.7
Nell’interpretazione di Jaspers, il noumeno kantiano trascende il fenomeno perché l’essere non si esaurisce nella manifestazione degli enti che si offrono come oggetti a un soggetto. O, detto altrimenti: se si riduce il pensiero alla struttura matematica dell’intersoggettività, che anticipa le condizioni dell’apparire dell’essere, al pensiero resta precluso il senso dell’essere. “Critica della ragione” significa allora, secondo Jaspers, consapevolezza dei limiti impliciti in quel pensiero che risolve l’essere nelle anticipazioni matematiche, e quindi avvertimento che quanto così si comprende dell’essere non è il senso dell’essere.
In questa luce si comprende perché il pensiero di Kant sia, per Jaspers, “unico e decisivo” nella storia dell’Occidente. Infatti, dopo duemila anni di misconoscimento della trascendenza dell’essere e di sua riduzione nell’immanenza del pensiero, nelle forme dell’idéa platonica, dell’intellectus medioevale e del cogito dell’età moderna, una speculazione che mette in guardia dalla riduzione del senso dell’essere all’oggettività anticipata dalle categorie del pensiero, e dal risolvimento della sua trascendenza nell’immanenza della soggettività, una speculazione che avverte la necessità di trascendere l’oggettività raggiunta, in vista della trascendenza inoggettivabile, onde evitare di ridurre l’inesauribilità dell’essere che tutto comprende (Umgreifende) all’orizzonte circoscritto della comprensione umana, dischiude per Jaspers “un sentiero che attende di diventare per la filosofia una strada maestra”,8 a meno che la filosofia non voglia smarrire se stessa e la propria identità nell’identificazione con la scienza. Infatti, scrive Jaspers:
È ben difficile raggiungere il sentiero. È stato sempre così: non si è capito e ci si è adirati, oppure non si è capito e si è pur notato che qui stava il punto decisivo per tutto il nostro possibile filosofare presente, o si è creduto di aver capito e ci si è costruito con la propria interpretazione l’accesso al sentiero. È come se attraverso un’intricata viabilità, false indicazioni stradali facessero deviare dalla strada che conduce al pensiero kantiano. Oppure è come se nella forza vitale di Kant sia caduta una roccia che deve essere tolta affinché la forza, crescendo, spanda i suoi semi. Sarei contento se fossi riuscito a far sentire ai miei contemporanei che quella roccia non è stata ancora rimossa.9
La roccia che comprime la forza vitale della filosofia kantiana è, fuor di metafora, quell’interpretazione che fa di Kant il momento culminante della filosofia moderna in quanto filosofia della soggettività, del risolvimento del senso dell’essere nell’ordine categoriale anticipato dall’uomo. La forza vitale che resta repressa è quella della filosofia che, incapace di sporgere dalla soggettività, si risolve in scienza, determinando da un lato la clausura del pensiero e dall’altro la solitudine dell’essere. Per questo ancora oggi si parla di dualismo kantiano, di impossibilità, dopo Kant, della metafisica che, nonostante la deviazione subita con Platone,10 resta pur sempre quell’originario rapporto del pensiero all’essere in cui è custodita l’essenza dell’uomo.
Da ciò nasce il disinteresse, sempre più diffuso nella filosofia contemporanea, per il pensiero trascendente che legge l’immanenza come cifra, come simbolo della trascendenza, dove “simbolo” significa letteralmente ciò che significava per i Greci antichi, ossia la tessera, il coccio di creta spezzato, che gli ospiti, in occasione del nuovo incontro, ricomponevano (sym-bállein) per significare la riunione dalla lontananza, e poi riportavano con sé per memorare, nella lontananza, la continuazione dell’intimità, del patto amicale.
Il fenomeno kantiano è per Jaspers questo simbolo, questa cifra che esprime, nell’immanenza, l’intimità dell’uomo con la trascendenza, e consente di: “operare un’inversione del pensiero per pensare nell’oggettivo l’inoggettivo”,11 e di “trascendere, nelle categorie del pensiero, le categorie stesse per pensare l’impensabile”.12 Questo motivo, che così frequentemente ritroviamo nella filosofia di Jaspers e soprattutto nella lettura jaspersiana di Kant, vuol significare la necessità di trattare l’oggettivo, il categoriale non per ciò che è, ma per ciò a cui rinvia, così come la tessera o il coccio di creta non erano significanti in quanto tessera o coccio di creta, ma in quanto symbolon, in quanto rinviavano a quell’intimità e a quell’unione che erano chiamati a significare.
Una volta che l’essere oggettivo vale come cifra dell’essere transoggettivo, e la categoria del pensiero intellettuale come cifra di un’ulteriorità irraggiungibile dallo stesso pensiero intellettuale, allora l’orizzonte coscienziale dell’uomo (das Umgreifende das wir selbst sind) o, nella terminologia kantiana, l’Io penso (Ich denke) è già in un rapporto di trascendenza rispetto all’immediatezza del rapporto mondano. Ciò comporta che il sapere matematico e scientifico che l’Io penso realizza non viene inteso come un rispecchiamento dell’essere; e che la funzione del conoscere, se domina e costituisce gli oggetti, non li domina e non li costituisce nella loro assolutezza, ma nel loro essere per la coscienza.
Questo dominio e insieme questa distanza possono manifestarsi e farsi valere solo se il pensiero pone tra sé e le cose la mediazione simbolica della cifra, solo se tratta la conoscenza delle cose che raggiunge e le categorie che impiega non come un assoluto, ma come cifre che rinviano a un’ulteriorità, allo stesso modo della tessera o sýmbolon richiamando in un sol punto un’intimità lontana.
Se infatti la coscienza non è mai vuota in se stessa, ma è sempre coscienza dell’essere, e se l’essere non si dà mai nella sua assolutezza, ma solo in ordine alle condizioni con cui la coscienza può recepirlo, allora il potere simbolico dell’oggetto e della categoria che l’ha costruito non appartiene all’al di qua o all’al di là, al campo dell’immanenza o a quello della trascendenza, ma il suo valore consiste proprio nel fatto che queste opposizioni, derivate da una ontologia di carattere dualistico, vengano superate. L’oggetto o la categoria, come cifra, non sono né l’uno né l’altro, ma rappresentano l’uno nell’altro o l’altro nell’uno.
Questa è la forza della “logica simbolica” della cifra che, al di là dei dualismi esasperati che creano la solitudine dell’essere nella trascendenza assoluta e la clausura dell’uomo nell’immanenza immediata, ripropone quella “trascendenza immanente (immanente Transzendenz)”13 che esprime, oltre al corretto rapporto che esiste tra essere ed ente, anche l’originaria intimità dell’uomo con l’essere, dell’Umgreifende che noi siamo (das Umgreifende das wir selbst sind) con l’Umgreifende che è l’essere stesso (das Umgreifende das das Sein selbst ist).14
Nella lettura jaspersiana di Kant, tra la noumenicità dell’Io penso e la noumenicità dell’essere, il fenomeno e le condizioni della sua costituzione oggettiva (categorie) sono cifre, ovvero espressioni simboliche di quell’intimità originaria che esiste tra pensiero ed essere, e che l’esigenza metafisica, riconosciuta da Kant come insopprimibile nell’uomo, ricorda.
Affinché la forza vitale di Kant “possa, crescendo, spandere i suoi semi” è necessario evitare di accostare questa filosofia con la logica scientifica (“la roccia che opprime la forza vitale”) e disporsi invece con la logica simbolica, per la quale il senso non è in ciò che è detto ma in ciò che, nel detto, è richiamato.
Se “criticismo” è fondazione delle possibilità umane nella consapevolezza dei limiti, ebbene il limite è proprio quella tessera simbolica che rende presente l’ulteriorità, come ciò che nella sua totalità non può essere compreso dalle possibilità umane. Nel limite, la trascendenza dell’essere si rende presente nell’immanenza come ciò che trascende, come ciò che non si esaurisce in quella traccia che nel fenomeno essa lascia di sé. Prenderne coscienza significa trattare l’anticipazione della ragione, la matematicità, in cui il pensiero ha risolto se stesso a partire da Cartesio, come una delle possibilità d’impiego del pensiero umano, e non come l’assoluto in cui si risolve l’essenza dell’uomo e si decide il senso dell’essere. Questo perché, scrive Jaspers:
La necessità logica del dover pensare in un certo modo non è la necessità reale dell’essere. Le relazioni logiche non si devono confondere con le relazioni reali. L’essere non si può dedurre né costruire da una necessità logica. La stessa esigenza di non confondere i rapporti logici con quelli reali era ben presente a Kant fin dal saggio: Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto di quantità negative del 1763.15
Successivamente Kant si rese conto che il mondo costruito dall’intelletto matematico naufragava in antinomie quando si fosse tentato di raggiungere con le sue categorie il Tutto o l’Incondizionato. Il principio di ragion sufficiente, valido nell’orizzonte dello spazio e del tempo matematicamente definiti, era del tutto insufficiente a esprimere il senso dell’essere che trascendeva questo anticipato orizzonte. Il suo naufragio era così il simbolo con cui l’essere annunciava, nell’orizzonte spazio-temporale, la sua trascendenza, e quindi l’impossibilità del suo risolvimento nell’orizzonte presieduto dall’intelletto matematico.16
In questo modo la filosofia, che a partire da Platone s’era rinchiusa nel rapporto soggetto-oggetto, viene liberata da Kant che, tematizzando questa relazione fissa, costante e inevitabile, che non era mai stata messa in questione dalla filosofia precedente, consente a Jaspers di dire che:
Il rapporto soggetto-oggetto non è l’essere assoluto che precede tutto, non è un primum, ma un secundum. In questo modo Kant dischiude un sentiero lungo il quale si incontrano possibilità mai prima previste. Kant era pienamente consapevole di fare qualcosa di assolutamente nuovo, come risulta dalla Dissertazione dove scrive: “Osservavo che mi mancava ancora l’essenziale, che in realtà è la chiave dell’intero segreto della metafisica”.17
Condizione essenziale per porsi sul corretto sentiero che conduce nelle prossimità del senso dell’essere è, innanzitutto, rinunciare alla pretesa che questo senso sia pre-contenuto nell’anticipazione matematica del pensiero soggettivo che risolve l’essere nell’oggettività. La funzione simbolica dell’oggettività è nel naufragare (scheitern) del suo tentativo volto a esprimere il senso totale dell’essere. Il suo naufragio è il presentarsi dell’essere come eccedente l’orizzonte che aveva preteso di includerlo. Pertanto la trascendenza dell’essere non va pensata astrattamente, ma concretamente, nell’oggettività presente che, naufragando, rinvia.
La trascendenza dell’essere, osserva Jaspers, non è pensata da Kant “in quell’assoluta trascendenza in cui la pensa Plotino quando la definisce ‘più che pensiero, al di là del pensiero’”,18 perché, se così avesse fatto, Kant l’avrebbe resa inaccessibile, e, nell’ignorare la sua presenza cifrata, leggibile nella valenza simbolica del reale che ci sta innanzi, avrebbe interrotto quel patto d’amicizia, quell’intimità essenziale che fa dell’uomo il proteso al senso dell’essere, il custode di un’insopprimibile esigenza metafisica. Per conservare alla trascendenza dell’essere il suo aspetto immanente, per custodirne la sua presenza simbolica, osserva Jaspers:
Kant si è mantenuto nella nostra condizione naturale di coscienza della scissione soggetto-oggetto, [...] e, pur tenendosi entro questa scissione, doveva parlare oggettivamente di ciò che è condizione dell’oggettività in generale. Dovendo parlare in forme oggettive della condizione di ogni oggettività, inserì sotto queste forme ciò che doveva trovarsi al di là della scissione.19
Per questo la filosofia di Kant si espone all’equivoco. Letta con la logica scientifica, che esaurisce il suo sguardo nell’orizzonte dell’oggettività, la sua filosofia risulta incomprensibile; letta invece con la logica simbolica, che nell’oggettività coglie la cifra, la presenza simbolica della trascendenza dell’essere, allora diventa pienamente comprensibile, in quanto annuncia quella trascendenza immanente che il nostro pensiero, il quale dispone delle sole categorie dell’immanenza, può cogliere solo quando, mediante le categorie, pensa oltre le categorie (über-hinaus-denkt). Ciò è possibile, scrive Jaspers, se:
Sulla scorta della filosofia kantiana veniamo in chiaro del fatto che noi viviamo nella prigione della scissione soggetto-oggetto, nello spazio, nel tempo e nelle nostre forme di pensiero. Prenderne coscienza è già un liberarsi dalla prigione.20
Kant ha così liberato l’uomo dalla prigione delle sue categorie mostrandone la relatività. Se la sua filosofia fosse stata letta in questa sua giusta luce, osserva Jaspers, non si sarebbe giunti alla ragione hegeliana che pensa, con le proprie categorie, di pareggiare la totalità dell’essere e di pre-contenerne il senso.
A partire da questa interpretazione, la conclusione della filosofia kantiana che esclude la possibilità della metafisica non è l’inevitabile conclusione di quel dualismo gnoseologico che, a partire da Cartesio, presuppone l’alterità dell’essere al pensiero. L’affermazione kantiana: “Nessun essere conosciuto è l’essere (Kein bewusstes Sein ist das Sein)” che Jaspers riprende,21 non conferma questa alterità, ma riconosce l’impossibilità di ridurre l’essere all’essere costruito dalle categorie anticipate dal pensiero matematico.
Non bisogna dimenticare che la ragione che Kant sottopone a critica è la ragione matematica alla luce dell’essenza della ragione. O in altri termini: il pensiero, come apertura all’essere, giudica la pretesa del pensiero matematico di risolvere l’essere nell’oggettività costruita dalle sue categorie. Concedere che l’essere coincide con l’essere conosciuto dall’anticipazione della ragione equivale a fare della ragione il senso ultimo dell’essere, come appunto fa Hegel, per il quale il pensiero, in quanto apertura all’essere, non si distingue dal pensiero in quanto categorizzazione dell’essere. A motivo di questa mancata distinzione, Hegel considera la Critica della ragion pura una tautologia dove la ragione giudica la ragione, per cui il pensiero è a un tempo giudice e imputato.
In realtà le cose stanno diversamente. Kant è consapevole che i due ceppi della nostra conoscenza (sensibilità e intelletto) possono operare solo all’interno della scissione soggetto-oggetto, e quindi solo all’interno di quell’anticipazione soggettiva che oggettiva l’essere, ma, come osserva Jaspers, è anche consapevole che “i due ceppi derivano da un’origine comune a noi sconosciuta”.22
L’origine, in quanto origine, è ignota all’originato, ma nell’originato lascia tracce di sé, che consentono all’originato di non pensarsi come origine, cioè come assoluto. Con ciò è immediatamente tolta la possibilità che l’essere (l’origine) possa risolversi in ciò che è noto al pensiero anticipante (l’originato), o in altri termini, che il mistero dell’essere sia svelato dal semplice dispiegamento delle anticipazioni della ragione umana, come invece pretende la filosofia hegeliana. Questo motivo, ricorda Jaspers, ritorna in quella che a giudizio stesso di Kant è la parte centrale della sua Critica: “La deduzione trascendentale”, in cui, ricorda Jaspers, è detto:
Del carattere proprio del nostro intelletto, per cui esso produce l’unità dell’appercezione solo per mezzo delle categorie, che abbiano così determinate nel loro genere e nel loro numero, non possiamo addurre alcuna ragione più di quanto non possiamo dare ragione del perché abbiamo proprio queste e non altre funzioni per giudicare, o del perché spazio e tempo siano le uniche forme della nostra intuizione possibile [...]. Il mistero dell’origine ritorna sotto altra forma quando si parla dell’immaginazione che, come termine medio tra intelletto e sensibilità, dàall’uno la possibilità di applicarsi all’altra. È questa “un’arte nascosta nel profondo dell’anima umana, i cui veri artifici non riusciremo mai a carpire alla natura, né potremo presentarcela scoperta ai nostri occhi”.23
Qui l’espressione kantiana ci riporta a sensi e a significati che solo il linguaggio aurorale era riuscito a esprimere, quando Eraclito parlava della phýsis che “ama nascondersi (Phýsis krýptesthai phileî)”,24 e quando, in contrasto col senso che avrebbe poi espresso il pensiero moderno, pensava la natura come misura (métron), e l’uomo come misurato dai limiti che essa poneva alla sua manifestazione.25
Che il senso della filosofia di Kant sia nella direzione di questo richiamo, per Jaspers è indiscutibilmente deciso dalle tautologie, dai circoli e dalle contraddizioni in cui il pensiero oggettivo s’arresta ogniqualvolta tenta di pensare l’inoggettivabile. Per pensare ciò che non si lascia oggettivare è infatti necessario spezzare la clausura del pensiero che si trova irretito nella scissione soggetto-oggetto. Ma siccome la filosofia di Kant “è troppo seria per tentare evasioni mistiche che, con eccessiva facilità, spezzano la scissione di soggetto-oggetto che è la condizione naturale del nostro pensiero”,26 allora, osserva Jaspers:
Kant cerca di comprendere la relazione soggetto-oggetto in cui ci troviamo, pensando come se potessimo starne al di fuori, mentre siamo costretti a starvi sempre dentro (als ob wir ausserhalb stehen könnten, während wir immer darin bleiben). Si spinge ai limiti dell’esserci di ogni essere per noi, per vedere al limite l’origine della totalità, pur essendo costretto a rimanere entro questi limiti. Con il metodo trascendentale si propone di trascendere mediante le forme dello starvi dentro (in Formen des Darinbleibens). Pensa al di là del pensare (Er denkt über das Denken), ma non potendolo fare da un punto di vista esterno al pensiero (von einem Ausserhalb des Denkens) lo fa in quanto già pensa.27
A questo punto, prosegue Jaspers:
Nasce una sconcordanza logica (logische Unstimmigkeit) che ha però il suo senso positivo e necessario che si evidenzia [...] nella rottura che si determina per il fatto che ciò che si è così pensato non può essere mantenuto oggettivamente nella sua forma logica. Infatti il non-oggettivo, che deve essere chiarificato nell’origine di ogni essere oggettivo (nell’orizzonte della scissione soggetto-oggetto), anche se non si lascia cogliere oggettivamente, non può essere pensato che oggettivamente. Ciò che si è così pensato, per non consolidarsi come un falso oggetto, deve formalmente naufragare (scheitern) in tautologie, circoli e contraddizioni.28
Queste figure sono dunque i simboli con cui, nel naufragio del pensiero oggettivo (quindi “standovi dentro”), il non-oggettivo, che trascende, si annuncia. Ancora una volta la cifra, il simbolo sono quella tessera, quel coccio di creta che avvicina la lontananza, testimonia l’intimità, il patto amicale tra l’uomo e l’essere. Per questo, scrive Jaspers:
Circoli, tautologie, contraddizioni non si possono quasi evitare nel filosofare. Essi sono il contrassegno che distingue il conoscere filosofico da quello scientifico. Quello filosofico è diretto alla totalità che non ha nulla fuori di sé, quello scientifico a oggetti determinati che si contrappongono ad altri. Il primo vuole superare tutti i presupposti per arrivare a librarsi nella totalità, il secondo ha il suo valore necessitante nei presupposti che valgono nella determinatezza di ciò che si può ricercare. Ma quando il sapere filosofico si dà come oggetto la totalità comprensiva (Umgreifende) che non è un oggetto, e presuppone l’estensione della mancanza di presupposti, allora esso deve imbattersi in circoli, tautologie e contraddizioni, perché vuol riguardare la totalità in base alla totalità stessa e non in base a qualcos’altro, vuol riguardare il suo pensiero in base a se stesso e non in base a qualcosa che lo preceda. Quegli errori logico-formali si devono presentare quando si deve pensare ciò che non si adatta a essere catturato adeguatamente da queste forme. Questo pensare necessita un circolare in se stesso, un contraddire se stesso. [...] Da ciò dipende l’impossibilità di fissare il pensiero filosofico kantiano come un risultato (Ergebnis), in modo analogo ai risultati delle scienze particolari. Il pensiero non si pone mai come risultato (risultati sono quei circoli, tautologie, contraddizioni), ma solo nell’atto della coscienza dell’essere. [...] Ciò che, filosofando, qui avverto è il pensiero che fa sorgere circoli, tautologie e contraddizioni, affinché, mentre esso vede consumarsi queste figure nelle fiamme della negazione logica (in der Flammen der logischen Vernichtung), possa venire in chiaro di se stesso nella situazione del suo essere. Il fondamento originario della verità, infatti, è il volo della filosofica coscienza dell’essere nella distesa della presenzialità di tutto ciò che ci si mostra come essere (in die Weite der Gegenwärtigkeit alle dessen, was sich als Sein uns zeigt), o che è lo stesso: la presenza della profondità (Anwesenheit der Tiefe) da cui proviene tutto ciò che è per noi e che noi siamo.29
Nella sua monografia su Kant, al capitolo che titola: “La rivoluzione del modo di pensare”,30 Jaspers osserva che l’essenza della rivoluzione copernicana operata da Kant consiste nell’aver restituito alla filosofia, alienata nel pensiero scientifico, il proprio modo di pensare, che consiste “nel trascendere, nell’oggettività, l’oggettività stessa (in die Gegenständlichkeit das Gegenständliche zu transzendieren)”. Per la logica scientifica ciò significa: “pretendere di compiere dei pensieri che non possono essere compiuti (unvollziehbare Gedanken zu vollziehen)”; per la logica filosofica significa invece: “ricondurre la filosofia, dall’alienazione nell’oggettività, a un nuovo modo di divenir consapevoli di un antichissimo e originario sapere fondamentale (eine neue Weise der Bewusstwerdung uralten Grundwissen)”.31 Per questo Kant è decisivo per le sorti della filosofia in Occidente. Il suo modo di filosofare consente all’essenza dell’uomo di rivolgersi alla totalità, raccogliendosi in quella forma di pensiero che, alla risposta anticipata dalla ragione, preferisce l’inesauribilità della domanda. Infatti, scrive Jaspers:
Le quattro domande kantiane: “Che cosa posso sapere? Che debbo fare? Che cosa posso sperare? Che è l’uomo?” mostrano come Kant, nell’impostare la filosofia, non parte da Dio, dal mondo, dall’oggetto, dal soggetto, ma dall’uomo pensato come il luogo in cui tutte quelle cose si fanno presenti.32
L’uomo, infatti, è apertura all’essere, è il luogo della sua manifestazione. Questa è la ragione per cui anche Eraclito giustifica la sua riflessione a partire da quell’assunto che dice: “Ho indagato profondamente me stesso”.33
L’uomo, infatti, osserva Jaspers, pur essendo un nulla nel mondo, ha la possibilità di oltrepassarlo in vista dell’essere, ma non per signoreggiarlo con il sistema delle sue risposte, ma per interrogarlo con l’inesauribilità della domanda, la cui inconcludenza è cifra e simbolo dell’impossibilità di includere l’essere, che tutto include, nel sistema anticipato dal nostro pensiero. Per questo, scrive Jaspers:
La domanda filosofica è un pensare-oltre-e-al-di-là (über-hinaus-denken). Con questo oltrepassamento non si conosce alcun oggetto, ma si cambia la coscienza dell’essere (Mit dem Überschreiten wird kein Gegenstand erkannt, aber das Seinsbewusstsein verwandelt).34
Ciò significa che l’essere non è più pensato come il compreso (Begriffen), ma come ciò che tutto comprende (Umgreifende). Se l’Idealismo avesse meditato sul senso kantiano dell’essere come Umgreifende, “avrebbe inteso la ragione come il luogo in cui si mostra l’essere e non come l’organo che realizza la conoscenza esaustiva dell’essere”.35 Se l’equivoco fosse stato evitato, conclude Jaspers: “Oggi la filosofia non sarebbe l’ancella delle scienze”.36
1 K. Jaspers, Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 705.
2 Cfr. Parte III: “Il linguaggio del periodo assiale”.
3 Cfr. Parte VI: “Tracce del custodirsi dell’essere nel tempo dell’oblio”.
4 Cfr. il capitolo 32: “Agostino di Tagaste e la determinazione volontaristica dell’essere”.
5 Per quanto concerne l’uso jaspersiano del termine “comprensione” è bene tener presente la precisazione di K. Jaspers in Allgemeine Psychopathologie (1913-1959); tr. it. Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma 2000, p. 244: “A evitare ambiguità e fraintendimenti impiegheremo sempre l’espressione ‘comprendere (verstehen)’ per la visione intuitiva di qualcosa dal di dentro, mentre non chiameremo mai comprendere ma ‘spiegare (erklären)’ la conoscenza dei nessi causali che sono sempre visti dal di fuori. Comprendere e spiegare hanno dunque un significato preciso”.
6 Id., I grandi filosofi, cit., p. 703.
7 Si veda a questo proposito G. Bontadini, Studi di filosofia moderna (1966), Vita e Pensiero, Milano 1996.
8 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 703.
9 Ivi, pp. 703-704.
10 Cfr. Parte IV: “L’oblio dell’essere e la dominazione dell’ente”.
11 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 601.
12 Id., Philosophie (1932-1955): III Metaphysik; tr. it. Filosofia, Libro III: Metafisica, Utet, Torino 1978, pp. 973-974.
13 Ivi, pp. 1076-1079.
14 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, pp. 53-113.
15 Id., I grandi filosofi, cit., p. 492. L’opera a cui Jaspers fa riferimento è I. Kant, Versuch den Begriff der negativen Grössen in die Weltweisheit einzufüren (1763); tr. it. Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto di quantità negative, in Scritti precritici, Laterza, Bari 1953.
16 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., pp. 497-498.
17 Ivi, p. 502. L’opera a cui Jaspers fa riferimento è I. Kant, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (Dissertatio, 1770); tr. it. La forma sensibile del mondo sensibile e del mondo intelligibile (Dissertazione del 1770), Rusconi, Milano 1995.
18 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 503.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 37.
22 Id., I grandi filosofi, cit., p. 517.
23 Ivi, pp. 516-517.
24 Eraclito, fr. B 123.
25 Cfr. il capitolo 10: “L’essere come phýsis”, e il capitolo 19: “Il lógos di Eraclito”.
26 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 522.
27 Ivi, p. 526.
28 Ivi, pp. 530-531.
29 Ivi, pp. 536-537 (corsivo mio).
30 Ivi, pp. 602-605.
31 Ivi, p. 604. “Sulla logica filosofica (Über philosophische Logik)” è il sottotitolo di quella che, a mio giudizio, è la più importante opera di K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit. Nel 1964, Jaspers, nell’illustrarmi il senso dell’opera e la sua differenza da Philosophie, cit., mi avvertiva che l’opera era rimasta sostanzialmente incompresa, perché incompresa restava la logica filosofica, che, nell’oggettivo, trascende l’oggettivo in vista dell’Umgreifende, a differenza della logica scientifica che si arresta all’orizzonte dell’oggettività.
32 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 607.
33 Eraclito, fr. B 101.
34 K. Jaspers, I grandi filosofi, cit., p. 609.
35 Ivi, p. 701. Cfr. il capitolo 4: “La domanda filosofica in Heidegger e Jaspers”.
36 Ibidem.