51.

Kant e la critica della ragione secondo Heidegger

Con la “critica” della ragion pura la máthesis, nel suo significato fondamentale, raggiunge il suo pieno sviluppo e insieme il suo termine, tocca cioè il suo proprio limite. [...] Infatti, la critica della ragion pura di Kant definisce i limiti della ragione matematica in senso stretto rispetto alla ragione metafisica, che è quella ragione entro cui si determina l’essere dell’ente, l’esser-cosa delle cose.

M. HEIDEGGER, La questione della cosa (1962), p. 147.

L’interpretazione che Heidegger dà di Kant mette in luce il significato fondamentalmente ontologico e non gnoseologico della filosofia kantiana. Siccome questo punto di vista sembra lontano da ciò che Kant dice alla lettera, Heidegger supera l’ostacolo enunciando il seguente canone interpretativo:

In ogni conoscenza filosofica il fattore determinante non è il senso letterale delle proposizioni, ma ciò che viene posto innanzi agli occhi di ancora non-detto (Ungesagtes) attraverso ciò che viene detto.1

Considerata per quello che dice, la filosofia di Kant si inserisce nella storia dell’anticipazione della ragione che da Cartesio conduce a Hegel, tramite il passaggio che da Leibniz porta a Kant. Per cogliere questo passaggio è necessario riflettere sul significato del cosidetto “criticismo” kantiano. A giudizio di Heidegger, Kant, “che era a conoscenza dell’antico senso del termine greco krínein, che significa ‘discriminare’, ‘distinguere’, nel senso di uno staccare, per mezzo del quale ciò che conta viene messo in risalto”,2 con la sua “critica” non intendeva fissare i limiti della conoscenza, ma porre in risalto le condizioni della sua possibilità che, in virtù del risalto, poteva emergere nei suoi contorni o limiti.

Se questa è l’intenzione espressa di Kant, il suo legame con Leibniz risulta evidente perché, osserva Heidegger:

Dietro la formula “condizioni della possibilità a priori” si nasconde l’assegnazione della ragion sufficiente, della ratio sufficiens, che, in quanto ratio, è la ragione pura.3

E come in Leibniz “la ragion sufficiente è il fondamento che anticipa tutto (vorgreifende Grund)”,4 così in Kant la struttura della ragion pura, che detta a priori le condizioni di ogni possibile oggetto d’esperienza, mostra di avere la sua essenza nella funzione dell’anticipare. L’anticipazione è una dimensione che sempre accompagna la sorte dell’essere in quanto anticipa il darsi dell’ente. In questo senso, osserva Heidegger:

La locuzione kantiana “a priori” – che significa “già da prima” – è l’eco tarda di ciò che Aristotele chiama próteron têi phýsei, ciò che, rispetto allo svelarsi, è precedente, in quanto, essendo ciò che è da sé più manifesto, viene prima di tutto.5

Qui si pone la differenza tra il pensiero antico e il pensiero moderno. Con Leibniz e con Kant, infatti, la dimensione anticipante è individuata non più nell’essere, ma nella ragione che, nell’accezione moderna, è pensiero matematico. Non solo, ma mentre Leibniz cerca nella ragione un principio che sia capace di giustificare, in ogni ente, la prevalenza dell’essere sul non-essere, quindi cerca semplicemente l’assicurazione dell’ente, Kant accerta definitivamente che solo la ragione può costituire l’ambito entro cui si anticipa e si rende possibile l’accadimento dell’ente in quanto tale, per cui con Kant si giunge veramente al trionfo della ragione come anticipazione della totalità ontica.

Ma proprio qui, dove sembra concludersi in modo così coerente il senso alienato del pensiero moderno, in quanto dimentico del mistero dell’essere, proprio qui il senso dell’essere si ripropone. Proseguendo la lettura sulla base del non-detto, attraverso ciò che viene detto, si può constatare, infatti, come Kant non esaurisca il compito della ragione nell’assicurazione dell’ente ridotto a oggetto, ma prosegua nella ricerca delle condizioni della sua oggettività, quindi della sua entità.

Ora l’entità dell’ente è l’essere, e il pensiero trascendentale kantiano, nel trascendere, ovvero nel superare l’ente-oggetto, per rinvenire le condizioni della sua “entità” (che Kant chiama “oggettività”), compie quel salto che, a parere di Heidegger:

È il salto dal principio di ragione, inteso come principio concernente l’ente, al principio inteso come dire dell’essere in quanto essere. Il salto attraversa d’un balzo l’ambito tra ente ed essere.6

In questo contesto la rivoluzione copernicana di Kant acquista un nuovo significato: quello di far precedere al rapporto della ragione all’ente (conoscenza ontica) l’esame delle condizioni che lo rendono possibile (conoscenza ontologica). La portata rivoluzionaria consiste nel fatto che, per tutta la storia dell’Occidente, il pensiero si è rapportato direttamente all’ente, senza curare “la comprensione preliminare della costituzione dell’essere”,7 di cui l’ente è accadimento. Nella cura di questa “comprensione preliminare” è, per Heidegger, l’essenza della critica kantiana della ragione.

Kant, infatti, pone come problema fondamentale della sua “critica” l’esame delle possibilità dei giudizi sintetici a priori. Ora i giudizi sintetici a priori, o giudizi trascendentali, non tematizzano la conoscenza della sintesi empirica degli enti, a cui i termini del giudizio si riferiscono, ma la sintesi trascendentale, quella cioè che, “trascendendo” il rapporto diretto all’ente, esamina le condizioni a priori della sua possibilità: l’essere quindi. In quanto trascendentale, la filosofia di Kant trascende l’ente per volgersi all’essere, condizione della possibilità della conoscenza dell’ente.

La conoscenza si attua mediante l’intuizione e l’intelletto. L’intuizione dell’uomo non è per Kant creatrice ma recettiva, e come tale presuppone la presenza dell’ente da intuire. La recettività dell’intuizione non è passività, ma è quel tenersi disposto all’accoglimento di ciò che si offre in tutta la sua novità. Con l’intuizione recettiva e non creatrice dell’uomo, Kant giunge a un tempo al segreto della verità dell’ente, custodita nell’incondizionatezza del suo accadimento, e all’essenza dell’uomo che, per la sua finitezza, non è nella possibilità di condizionare l’ente, ma nella disposizione che lo rende idoneo ad accoglierlo in quell’incondizionatezza in cui è custodita la sua verità.

Il motivo della finitezza è ripreso da Kant nell’analisi dell’intelletto. L’intelletto è finito in quanto si applica all’intuizione tramite concetti universali, che consentono di rappresentare concettualmente il singolare molteplice, che dunque non è conosciuto direttamente, ma indirettamente. Questo procedimento indiretto o discorsività è il contrassegno della sua finitezza.

La finitezza della conoscenza umana, che si articola in intuizioni sensibili e concetti intellettuali, è ciò che dispone l’uomo all’accoglimento integrale, e quindi non condizionato, dell’ente. Ma perché l’uomo possa conoscere, è necessario che l’ente si mostri da sé. In questo mostrarsi è custodita l’essenza fenomenica dell’ente, e il suo apparire come fenomeno (Erscheinung).

La distinzione tra fenomeno e cosa in sé viene così ricondotta da Heidegger alla distinzione tra intuizione umana finita e intuizione divina infinita. Quest’ultima, in quanto creatrice e non recettiva, non può costituirsi come struttura in cui l’ente viene accolto, in cui appare come oggetto che sta di contro (Gegen-stand, ob-jectum) a un soggetto. Cosa in sé e oggettività fenomenica non possono coesistere per la stessa coscienza, perché, scrive Heidegger:

La conoscenza assoluta manifesta l’ente nell’atto di farlo sorgere (entstehenlassen), e lo tiene manifesto come qualcosa che nasce (Ent-stand). L’ente, in quanto manifesto all’intuizione assoluta, è proprio nel suo venire all’essere (in seinem Zum-Sein-Kommen). Esso è ente come ente in sé, non come oggetto.8

L’intuizione divina non può avere a che fare con oggetti, perché non consiste in un accogliere, come l’intuizione umana, ma in un produrre. Pertanto l’affermazione di Kant: “Dietro il fenomeno c’è la cosa in sé” significa che l’apparire, mentre lascia apparire l’ente come oggetto (Gegenstand), lo nasconde come realtà nativa (Ent-stand). Mentre l’espressione: “La cosa in sé è fuori di noi” significa che noi siamo esclusi dalla conoscenza infinita.

Resi così significanti, intuizione sensibile e intelletto vengono ricondotti da Kant “a una radice comune a noi sconosciuta”. In questa radice Heidegger scorge “la fondazione filosofica della filosofia”9 che consiste nel muoversi consapevolmente verso l’ignoto.

L’ignoto è l’oggetto trascendentale che Kant chiama “x”, ovvero: “qualcosa di cui non sappiamo nulla”. Heidegger si chiede: “In qual misura questa ‘x’ è un nulla, e in qual misura è, tuttavia, un qualcosa?”.10 È nulla perché non è ente (e quindi rispetto all’ente è niente), ed è qualcosa perché è l’orizzonte in cui accade all’ente di essere. La “x” è l’esatto limite tra l’essere e il non-essere dell’ente. La sua nullità non dipende dal fatto che, a guisa di ente, sta dietro un ente, ma dal fatto che, non essendo un ente, non può essere oggetto di un sapere che riguarda sempre e solo gli enti. Dal canto suo, il sapere può realizzarsi come sapere dell’ente, solo grazie alla nullità ontica di questa “x”, che consente all’ente di stagliarsi come ente contro lo sfondo del non-essere. La presenza dell’ente è il richiamo dello sfondo, lo sfondo, come nulla di ente, è l’essere.

In quanto non-ente, l’essere è trascendenza rispetto alla totalità ontica; in quanto consente lo stagliarsi dell’ente è condizione della sua possibilità. Siccome poi il presentarsi dell’ente è ciò che si offre a quell’accoglimento in cui è custodita l’essenza dell’uomo, e siccome questo presentarsi è reso possibile dallo sfondo non-ontico dell’ente, Kant, nell’esame delle condizioni della possibilità della conoscenza a priori, guadagna il rapporto essenziale dell’uomo con l’essere.

La designazione kantiana dell’essere come “x”, che è nulla eppur qualcosa, vuol dunque significare che l’essere, come orizzonte che consente l’offrirsi dell’ente a quell’accoglimento a cui è disposto l’uomo, “non può essere afferrato tematicamente come un oggetto, ma come orizzonte deve essere non-tematico, e nondimeno sempre sott’occhio. Solo così si può spingere innanzi e portare in tema, come tale, ciò che in esso si incontra”.11

Così Heidegger, insistendo sul motivo kantiano della finitezza dell’uomo, traduce la potenza aprioristica della ragione di quest’ultimo nell’impotenza di chi si limita a tenere aperto quell’orizzonte, o stato di non-occultamento, che si pone come condizione perché qualcosa possa offrirsi come ente. Scoprire le condizioni trascendentali della conoscenza, a cui tende l’intento critico kantiano, significa allora scoprire la trascendenza, ovvero quell’orizzonte che, trascendendo l’ente, si pone come condizione della sua presenza, che poi si offre a quell’accoglimento in cui si esprime la conoscenza dell’uomo.

Se seguiamo la lettura suggerita da Heidegger, l’apriorismo, pensato come condizione della presenza dell’ente, cessa di avere il senso pre-potente proprio dell’anticipazione della ragione, per assumere il senso originario dell’offerta dell’essere alla disposizione accogliente dell’uomo. L’ente infatti può presentarsi come ente solo se si proietta aprioristicamente il nulla (inteso come nulla ontico), in cui l’ente può stagliarsi come ente. Precisa Heidegger:

Questo sfondo proiettato aprioristicamente è la trascendenza, come trascendente l’ente. La finitezza dell’uomo, per cui conoscere è ricevere, sta alla radice della trascendenza che consente la recezione dell’ente come ente.12

L’obiezione “idealista”, secondo la quale il pensiero, per il fatto di proiettare lo sfondo aprioristico, acquista un primato, e da servo diventa padrone dell’intuizione in quanto la condiziona, non regge, perché, osserva Heidegger:

Questa padronanza è ancora un servizio che denuncia ancora più profondamente la sua finitezza. Infatti l’intelletto puro, solo in quanto è servo dell’intuizione pura, può rimanere padrone dell’intuizione empirica.13

Viene così allo scoperto il nucleo essenziale dell’interpretazione heideggeriana di Kant. L’apriorismo della ragione, saldandosi strettamente con la finitezza dell’uomo, non condiziona l’accadimento dell’ente in modo da garantirselo nel suo essere, ma lo condiziona nel senso di dischiudere aprioristicamente quell’orizzonte che, non dischiuso, non consentirebbe l’accadimento dell’ente nella sua entità. In ciò è l’anticipazione della ragione, la cui pre-potenza non è nel possesso anticipato dell’ente, come pretendeva il pensiero nell’epoca moderna, ma nella pre-disposizione all’accoglimento del suo accadere incondizionato, come aveva pensato il pensiero aurorale. Per questo scrive Heidegger:

Kant, nonostante tutte le differenze e la notevole distanza storica, ha qualcosa in comune con il grande inizio greco. E ciò lo distingue immediatamente da tutti i pensatori tedeschi prima e dopo di lui, per l’incorruttibile chiarezza del suo pensare e del suo dire, che non esclude assolutamente il problematico e l’irrisolto e non dà l’illusione di chiarezza là dove vi è oscurità.14

Tale apprezzamento non è di natura meramente stilistica, né intende alludere solamente all’onestà speculativa di Kant. Qui Heidegger vuol segnalare che Kant, lasciando il sapere in certi limiti, raggiunge il livello della fondazione veritativa del rapporto essereente, che il pensiero moderno aveva tentato invano di aggiudicarsi. Nella stessa pagina, infatti, leggiamo che “la filosofia di Kant dà per la prima volta al pensiero moderno, anzi all’età moderna nella totalità del suo esserci, una chiara e trasparente fondazione”.15

1 M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929); tr. it. Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1981, p. 172.

2 Id., Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, Lezione IX, p. 127.

3 Ivi, p. 128.

4 Ivi, p. 125.

5 Ivi, p. 127.

6 Ivi, Lezione X, p. 136.

7 M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 11.

8 Ivi, p. 37.

9 Ivi, p. 35.

10 Ivi, p. 107.

11 Ivi, p. 108.

12 Ivi, p. 68.

13 Ivi, p. 71.

14 M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen (1962); tr. it. La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, Guida, Napoli 1989, p. 87.

15 Ibidem.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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