87.
Il linguaggio manca
Dove il linguaggio, come linguaggio, si fa parola? Pare strano, ma là dove noi non troviamo la parola giusta per qualche cosa che ci tocca, ci trascina, ci tormenta e ci entusiasma. Quello che intendiamo lo lasciamo allora nell’inespresso e, senza che ce ne rendiamo pienamente conto, viviamo attimi in cui il linguaggio, proprio il linguaggio, ci sfiora da lontano e fuggevolmente con la sua essenza. Ma, quando si tratta di portare alla parola qualcosa di cui mai ancora si è parlato, tutto sta nel vedere se il linguaggio farà dono della parola adatta o se, invece, la negherà.
M. HEIDEGGER, L’essenza del linguaggio (1957-1958), p. 129.
Per Heidegger il nostro è “il tempo della notte del mondo, il tempo della povertà che diviene sempre più povero”.1 In questa condizione di povertà estrema (dürftige Zeit), dove anche il senso della povertà è andato perduto, il compito che attende il pensatore è un compito poetico. Qui il termine poíesis non ha quel senso genericamente estetico che di solito accompagna la parola nell’accezione corrente, ma ha il senso originario del pro-durre (hervor-bringen) che, dispiegando, porta in luce (bringt vor) qualcosa dal nascondimento. Qui Heidegger ricorda che:
In un passo del Simposio (205, b) Platone ci dice in che cosa consiste questo atto che è il “condur fuori (hervor-bringen)”: “he gár toi ek toû mè óntos eis tò òn iónti hotoioûn aitía pâsá esti poíesis”. Tutto ciò che fa passare una qualsiasi cosa dalla non presenza alla presenza è poíesis, è pro-duzione.2
Fare poesia è dunque far opera di verità (a-létheia), è svelare, è portare qualcosa alla luce. Anche nel tempo della povertà il compito del pensatore non muta, solo si fa più difficoltoso, perché l’epoca non conosce altra poíesis, altra pro-duzione che non sia la “produzione” della tecnica che, senza sosta, depone i suoi “prodotti” sulla terra, fino a ricoprirla completamente. La terra si trattiene nella sua solitudine e l’uomo, lontano da essa, nell’alienazione dei suoi prodotti. Il tempo della povertà non ode il richiamo della terra e non dispone di un linguaggio per cor-rispondervi. Il silenzio che così domina è il tacere di chi non trova più la parola, e neppure la cerca, perché più non avverte il senso di quel richiamo. Ciò è dovuto al fatto, scrive Heidegger, che:
Lungo è il tempo di povertà della notte del mondo. Questa deve lentamente procedere verso il suo mezzo. Nel mezzo di questa notte, la povertà del tempo giunge al suo apice. Allora il tempo misero non si rende neppure più conto della propria indigenza. Questa incapacità, per cui la stessa indigenza della povertà è dimenticata, è la vera e propria povertà del tempo.3
Per uscire dalla povertà è necessario un nuovo annuncio, in grado di ricomporre quel rapporto originario tra l’uomo e l’essere che la metafisica bimillenaria ha spezzato. Ma per l’annuncio è necessario un linguaggio che non sia il linguaggio metafisico dell’ente, perché il rapporto da recuperare è con l’essere che è stato obliato dalla metafisica. Alla dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit) è intimamente connessa la deficienza del linguaggio, a cui mancano le parole per esprimere ciò che ancora non è stato pensato. Per questo Essere e tempo4 non ebbe seguito, perché il linguaggio della metafisica non si prestava a esprimere il nuovo punto di vista che proprio dalla metafisica voleva uscire.
L’impossibilità di ricorrere al linguaggio tradizionale della filosofia occidentale fa venire in primo piano la questione del linguaggio. “La mancanza della parola adatta”5 rende presente che il linguaggio non si riduce a semplice strumento, indifferentemente impiegabile per l’espressione, ma è ciò che, se non dice, non consente al pensiero di pensare la cosa che, proprio per carenza linguistica, non ha nome.
La deficienza di vocabolario non è semplice povertà linguistica, ma è essa stessa evento dell’essere, l’evento della sua dimenticanza. Il rapporto con il linguaggio diventa così un rapporto privilegiato, dove l’essere viene in luce come fatto linguistico, in quanto eventua dei vocabolari, esprime delle culture, istituisce dei linguaggi. Il tempo della povertà, determinato dalla dimenticanza dell’essere, è dunque anche il tempo della mancanza del linguaggio.
In questa prospettiva il linguaggio non è qualcosa che è in potere dell’uomo, al contrario è l’uomo che è in potere del linguaggio, in quanto può pensare solo ciò che nell’ambito di un certo linguaggio rientra. Aperto all’essere, l’uomo, a differenza degli animali, parla. Il suo dire è un corrispondere a ciò che dell’essere nel linguaggio si annuncia. Al sottrarsi dell’essere corrisponde quindi il tacere del linguaggio, il suo costituirsi come semplice denominazione degli enti, che più non rinviano all’essere che li eventua. Tale è il linguaggio metafisico che, articolando la proposizione in soggetto e predicato, testimonia l’oblio dell’essere, la sua dimenticanza.
L’essere non è mai “questo” o “quello” nel senso in cui la metafisica connette un predicato a un soggetto. L’espressione “è”, attribuita all’essere, ha sempre e solo un significato transitivo. Si può dire che l’essere è questo o quello nel senso che fa essere questa o quella cosa, nel senso che la eventua. L’impossibilità di definire l’essere con la logica della metafisica testimonia un’impossibilità linguistica intimamente connessa all’incapacità della metafisica di parlare senza ridurre ciò di cui parla a ente.
Il nuovo linguaggio che si rende necessario per uscire dalla metafisica non si lascia costruire in base a un nuovo pensiero che dovrebbe condurre all’oltrepassamento. La massima retorica: rem tene verba sequentur non vale, perché non si tiene la cosa se non nella parola. La mancanza della parola adatta non è una deficienza del vocabolario, di un singolo o di una cultura, ma è il limite dell’apertura storica dell’essere, dove ognuno di noi si trova, e che nessuno può superare con una semplice escogitazione linguistica. A questa situazione, scrive Heidegger, allude quel verso della poesia di Stefan George: “Nessuna cosa è dove la parola manca”.6
Ciò significa che l’ambito entro cui le cose vengono all’essere non dipende da un particolare modo di vedere le cose, da una visione del mondo (Weltanschauung) entro cui ha luogo l’esperienza del mondo, peraltro già costituito indipendentemente da essa, perché questo modo di pensare implicherebbe di nuovo la distinzione metafisica tra un “soggetto” e un “oggetto”. L’ambito entro cui le cose vengono all’essere è un certo linguaggio che precede e condiziona ogni possibile visione del mondo. Il linguaggio infatti presenta la cosa inserendola in un mondo, in un ordine, in una struttura linguistica da cui ogni senso e ogni significato dipende.
Come l’essere, anche il linguaggio non è. Non è un ente, ma ciò grazie a cui ciascun ente è tale. Per il principio di ragion sufficiente una simile affermazione suona paradossale, perché è impossibile che la parola, non essendo, possa dare l’essere alla cosa. La paradossalità si risolve osservando che il principio di ragion sufficiente, come principio della metafisica, tratta la parola come una cosa, e così perde ciò per cui essa parla. La parola parla non quando è “oggettivata”, ma quando, liberata da ogni spessore ontico, porta, inoggettivabile, la cosa alla presenza. Per questo non si può parlare del linguaggio. Infatti, osserva Heidegger:
Un parlare sul linguaggio comporta inevitabilmente l’abbassamento del linguaggio stesso a oggetto. [...] Il parlare è allora possibile solo nell’ascolto del linguaggio.7
Ma nella lingua della metafisica occidentale, il linguaggio s’è trattenuto in se stesso, s’è rifiutato. Anzi, scrive Heidegger:
Più di un fatto porta a pensare che è proprio l’essenza del linguaggio che ricusa di farsi parola, di dirsi cioè in quella lingua nella quale noi facciamo asserzioni sul linguaggio. Se sempre il linguaggio ricusa in questo senso la sua essenza, allora questo rifiuto fa parte dell’essenza del linguaggio. Il linguaggio non solo si trattiene così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma, trattenendosi esso in sé con la sua origine, nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale comunemente ci muoviamo.8
Ciò induce a cercare nel detto il non detto, nell’esplicitazione totale compiuta dalla metafisica, che ora non ha più niente da dire,9 quanto è rimasto implicito e così trattenuto. Il compito ermeneutico che Heidegger propone al pensiero, che ormai non ha più futuro nell’ambito metafisico, è quello di pensare il non-pensato, che racchiude il senso di ciò che è pensato. Il compito non può essere eseguito nella forma dell’enunciazione-esplicitazione propria della metafisica, perché in questa forma si lascia pensare solo l’ente, non l’essere che si rifiuta a ogni esplicitazione e a ogni enunciazione, perché non è mai ciò che si pensa, ma sempre ciò in cui si pensa.
Al linguaggio metafisico, che dice come le cose sono, occorre sostituire un linguaggio che non dice, ma rinvia dal detto a ciò che non è detto e che dal detto è richiamato. Il rinvio non risale alla causa, ma colloca nel luogo (Ort) da cui ogni dire (Er-ört-erung) si invia. Erörterung, alla lettera, significa “discussione”, ma nell’uso heideggeriano significa, coerentemente con l’etimo, “collocazione” (erörten, mettere in un luogo, in un Ort, collocare). Comprendere un’espressione linguistica non significa allora capire ciò che dice, ma collocare ciò che dice in ciò che non dice, eppure richiama.
Per questo è necessario seguire una via, ma siccome il luogo in cui si deve arrivare non è detto, non si può intendere la via come un semplice mezzo per giungere a una meta che lascia la via alle spalle. Questo è il met-odo (metá-odós) della metafisica, a cui non interessa la via (odós), ma il risultato. Ciò che non è detto può capitare di trovarlo per via, trattenendosi nella via. Non a caso, ricorda Heidegger:
L’esatto significato di esperienza, di erfahren è: eundo assequi, camminando raggiungere qualcosa per via, raggiungere qualcosa camminando lungo la via.10
Chi misura ciò che incontra con criteri rigorosamente stabiliti in precedenza non incontra mai qualcosa di nuovo, perché si limita a sistemare e risistemare continuamente il campo secondo i criteri della ragione calcolante, che non sa ascoltare perché è impegnata a ordinare, a pre-stabilire tutti i sensi e tutti i significati possibili.11
Se l’essere è appello, rispondere all’appello non significa chiarire la parola secondo certi criteri accettati in un certo ambito storico, ma significa rinunciare a priori a una tavola di criteri anticipatamente stabilita, per mettersi a disposizione della parola, ascoltarla per ciò che ancora essa ha da dire, per il non detto che la regge e che la rende udibile. In questo senso, scrive Heidegger:
Il linguaggio parla. Ma come parla? Dove ci è dato cogliere tale suo parlare? Innanzitutto in una parola già detta. In questa infatti il parlare si è già realizzato. Ma il parlare non finisce in ciò che è stato detto. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito. In ciò che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare e ciò che grazie a esso perdura – il suo perdurare, la sua “essenza”. Ma perlopiù e troppo spesso ciò che è stato detto noi lo incontriamo solo come il passato di un parlare.12
Di qui l’etimologismo heideggeriano, spesso considerato impropriamente come un aspetto periferico ed eccentrico della sua opera. Esso rappresenta il recupero della parola parlante, recupero quanto mai necessario in un tempo la cui povertà ha svuotato ogni parola del suo senso, sì da ridurla a semplice oggetto di discorso. Come nella storia il passato vive nel presente, così la parola fa vivere, nella sua enunciazione, la propria storia. La storia è così storia di parole, e le parole sono altrettante aperture all’essere che rinviano al modo con cui, di volta in volta, l’essere si è dischiuso e inviato come dono-destino, come Geschick, da cui prende avvio ogni storia (Geschichte).
A questo punto il problema del linguaggio diventa l’unico vero problema della filosofia, non perché, come strumento degli strumenti, meriti di essere particolarmente perfezionato, come presumono le moderne filosofie del linguaggio, ma perché è il luogo (Ort) dell’accadere della storia dell’essere. Questo, ovviamente, alla sola condizione che ogni discorso sul linguaggio sia innanzitutto un discorso dal linguaggio, un discorso cioè che non dica, ma ascolti ciò che dice il linguaggio. Un discorso che non concluda, come pretendono di fare oggi tutti i discorsi, da quelli scientifici a quelli comuni, ma dischiuda la via che conduce all’ascolto del linguaggio. Anche nel tempo della povertà estrema la parola non manca, manca solo il luogo dove è possibile l’ascolto. Per questo bisogna mettersi in cammino, e soprattutto mantenersi in cammino, “in cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache)”.13
1 M. Heidegger, Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 247.
2 Id., Die Frage nach der Technik (1953); tr. it. La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 9.
3 Id., Perché i poeti?, cit., pp. 248-249.
4 Id., Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978.
5 Id., Das Wesen der Sprache (1957-1958); tr. it. L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 129.
6 Ivi, pp. 129 sgg. La poesia di S. George, a cui Heidegger fa riferimento, ha per titolo Das Wort (1919), in Das neue Reich, München 1929.
7 M. Heidegger, Aus einem Gespräch von der Sprache zwischen einem Japaner und einem Fragenden (1953-1954); tr. it. Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., p. 121.
8 Id., L’essenza del linguaggio, cit., p. 147.
9 Cfr. il capitolo 78: “Il senso del tramonto”.
10 M. Heidegger, L’essenza del linguaggio, cit., p. 135.
11 Cfr. Parte VIII: “La matematicità del pensiero moderno e la fondazione dell’umanisimo”, e Parte IX: “L’anticipazione della ragione e l’assicurazione dell’ente”.
12 M. Heidegger, Die Sprache (1950); tr. it. Il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 30-31.
13 Id., Der Weg zur Sprache (1959); tr. it. Il cammino verso il linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 189-212.