69.

La volontà di potenza e la morte di Dio

Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! [...] Questo evento mostruoso è tuttora in corso e non è ancor giunto alle orecchie degli uomini.

F. NIETZSCHE, La gaia scienza (1882), § 125.

La volontà di potenza è l’anima dell’Occidente, la cui intenzione, divenuta sempre più chiara a partire da Platone, è quella di raggiungere il dominio incondizionato della totalità dell’ente. Questa lettura della civiltà occidentale fa di Nietzsche non un pensatore fra tanti, ma colui grazie al quale l’essenza di questa civiltà viene per la prima volta adeguatamente alla luce, al di là di tutti i mascheramenti e i falsi nomi. Tra questi c’è anche il nome di Dio. Dio è la causa del mondo, o è l’effetto della volontà di potenza che vuole il mondo? O,come scrive Nietzsche: “È l’uomo soltanto un concetto errato di Dio? O Dio è soltanto un concetto errato dell’uomo?”.1 All’interrogativo si può rispondere solo ripercorrendo la storia dell’idea di Dio per scoprirvi la genesi e il senso.

L’idea di Dio compare nella storia della filosofia con Platone in occasione della dimenticanza del senso dell’essere.2 Tale dimenticanza implica che l’ente non sia più lasciato essere come qualcosa di precario che appare e scompare nell’orizzonte dell’essere, ma sia in qualche modo garantito dalla legge suprema dell’ente che, immutabile, ne domina le vicende. Per effetto di questa volontà rassicurante nasce l’Ente supremo (tò Agathón) che non dipende da altro e tutto pone sotto il suo dominio.

Come vuole la versione di Heidegger, infatti: “Tò Agathón, pensato in senso greco, significa ciò che è atto a qualcosa e che rende atto a qualcosa”.3 Così ce lo descrive Platone nel mito della caverna, dove il sole, immagine di tò Agathón, è causa dell’essere e dell’apparire di tutte le cose che si offrono allo sguardo dello schiavo, dopo che questi s’è liberato dalle catene che lo trattenevano al fondo della caverna.4 In questo modo, Dio, l’Ente supremo, nasce in vista delle cose che hanno bisogno di essere garantite nella loro vicenda, onde assicurare all’uomo un dominio integrale del mondo. Nel Dio platonico già si annuncia la volontà di potenza, in virtù della quale, scrive Heidegger:

L’uomo, in aspetti di volta in volta differenti, e tuttavia ogni volta consapevolmente, si colloca nel bel mezzo dell’ente, senza essere già per questo l’ente privilegiato.5

Da questa impostazione platonica non si discosta il cristianesimo dove perdura l’esigenza di salvare l’ente, e in particolare quell’ente determinato e privilegiato che è l’anima dell’uomo. Per Aristotele e Tommaso d’Aquino, infatti, osserva Heidegger:

Dio è actus purus, pura attualità e con ciò la causa di ogni reale, cioè la fonte e la dimora stabile della salvezza, che egli garantisce come beatitudine di eterna durata. [...] C’è una fatalità misteriosa nella sua origine, che spinge l’uomo ad assicurarsi la propria salvezza, di tipo cristiano o di altro genere.6

Anche Cartesio, nell’inaugurare la filosofia moderna, prosegue la direzione onto-teo-logica con cui la filosofia dell’Occidente maschera la volontà di potenza che spinge l’uomo al dominio assoluto e incondizionato dell’ente. Il luogo della garanzia che ne assicura il dominio è il cogito, ma il valore del cogito ha nell’esistenza di Dio il suo fondamento. Essendo Dio “buono”, argomenta Cartesio, non può aver dato all’uomo facoltà conoscitive ingannatrici, per cui le idee matematiche, con cui l’uomo conosce e si assicura il mondo, sono senz’altro verità.7

Se con la garanzia ottenuta da Dio, il cogito è verità, si comprende come Leibniz cerchi di dare stabilità al mondo del finito riducendolo a rappresentazione, e quest’ultima a vis activa in tensione verso quel principio unificatore supremo che porta il nome di Dio.8 In questo modo Leibniz lascia intendere che alla radice del mondo metafisico c’è la volontà, l’appetire che muove lo stesso conoscere, e che in Nietzsche si chiamerà volontà di potenza.

Hegel porterà a compimento questo itinerario metafisico proteso al possesso dell’ente. Il suo principio, che afferma l’identità del reale e del razionale,9 stabilisce il completo risolvimento del primo nel secondo, e l’unità così raggiunta porta indifferentemente il nome di “uomo” o quello di “Dio”.

Nietzsche scopre questa intenzione nascosta in tutta la storia della metafisica, e, nel denunciarla, mette in luce che Dio non è per nulla causa, ma semplicemente effetto della volontà di potenza che, protesa al dominio dell’ente, ha ideato Dio e i valori che, lungi dall’essere degli incondizionati, sono condizioni perché la volontà possa volere se stessa. La proclamazione della morte di Dio significa che Dio è morto perché si è scoperto che non viveva da sé, ma viveva in quanto voluto dalla volontà di potenza per garantirsi il possesso del mondo. A commento di questo itinerario che da Platone conduce a Nietzsche, Heidegger osserva che:

Nella filosofia il nome adeguato per Dio è Causa sui. Davanti a questo Dio l’uomo non può pregare, né tanto meno offrire sacrifici. Davanti alla Causa sui l’uomo non può cadere in ginocchio riverente e nemmeno può cantare e danzare. Il pensiero senza Dio (gott-lose), che deve sacrificare il Dio della filosofia, è forse più vicino al Dio divino (göttlichen Gott).10

Per questo chi proclama la morte di Dio non è inteso dagli atei, ma ne è addirittura deriso. L’ateismo di questi ultimi uomini, completamente assorbiti nel commercio con le cose, non nasce dal pensiero. Essi non sanno se a garantire loro il possesso dell’ente è Dio o la volontà di potenza. Non sanno, perché non pensano se non alle cose possedute e al vantaggio che può loro derivarne. Così almeno appare nel passo de La gaia scienza dove Nietzsche narra la morte di Dio:

Non avete mai sentito parlare di quell’uomo folle che, in pieno mattino, accesa una lanterna, si recò al mercato e cominciò a gridare senza posa: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. Trovandosi sulla piazza molti uomini che non credevano in Dio, egli suscitò in loro grande ilarità. Uno disse: “L’hai forse perduto?”, e altri: “S’è smarrito come un fanciullo? Si è nascosto in qualche luogo? Ha forse paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?”. Così gridavano, ridendo fra di loro in una gran confusione.
L’uomo folle corse in mezzo a loro e fulminandoli con lo sguardo gridò: “Che ne è di Dio? Io ve lo dirò. Noi l’abbiamo ucciso, io e voi! Noi siamo i suoi assassini! Ma come potemmo farlo? Come potemmo bere il mare? Chi ci diede la spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non continuiamo a precipitare e indietro e dai lati e in avanti? C’è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un nulla infinito? Non ci culla forse lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte? Non occorrono lanterne in pieno giorno? Non sentiamo nulla del rumore dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo l’odore della putrefazione di Dio? Eppure gli dèi stanno decomponendosi! Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come troveremo pace noi più assassini di ogni assassino? Ciò che vi era di più sacro e di più potente, il padrone del mondo, ha perso tutto il suo sangue sotto i nostri coltelli. Chi ci monderà di questo sangue? Con quale acqua potremo rendercene puri? Quale festa sacrificale, quale rito purificatore dovremo istituire? La grandezza di questa cosa non è forse troppo grande per noi? Non dovremmo divenire dèi noi stessi per esserne all’altezza? Mai ci fu fatto più grande, e chiunque nascerà dopo di noi apparterrà per ciò stesso a una storia più alta di ogni altra trascorsa”.
A questo punto l’uomo folle tacque e fissò nuovamente i suoi ascoltatori; anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Quindi gettò a terra la sua lanterna che andò in pezzi spegnendosi. “Vengo troppo presto,” disse, “non è ancora il mio tempo. Questo evento mostruoso è tuttora in corso e non è ancor giunto alle orecchie degli uomini. Per essere visti e riconosciuti lampo e tuono hanno bisogno di tempo, i fatti hanno bisogno di tempo anche dopo esser stati compiuti. Questo fatto è per loro ancora più lontano dalla più lontana delle stelle e tuttavia sono loro stessi ad averlo compiuto!” Si racconta anche che l’uomo folle, in quel medesimo giorno, entrò in molte chiese per recitarvi il suo Requiem æternam Deo. Condotto fuori e interrogato non fece che rispondere: “Che sono ormai più le chiese se non le tombe e i sepolcri di Dio?”.11

Nel commentare questo passo di Nietzsche, Heidegger osserva che:

La morte di Dio esprime il tramonto della dimensione metafisica che, a partire da Platone, pensa Dio, l’Iperuranio, il Sovrasensibile come “causa suprema”, come “spiegazione” e “fondamento” delle cose sensibili, verso cui è protesa la volontà di potenza dell’uomo.12

Il Dio che muore non è quindi solo il Dio del cristianesimo, ma è il Dio figurato dal Sole platonico, evocato nel mito della caverna, che assicura, come fondamento, la totalità degli enti (“Che cosa abbiamo fatto sciogliendo la terra dal suo sole? Dove va essa ora? Dove andiamo noi lontani da ogni sole?”), è il Dio a cui fa ricorso la filosofia moderna per garantire quella soggettività che risolve in sé la totalità degli oggetti (“Come potemmo bere il mare?”).

La morte di Dio, e il pensiero senza Dio che ne consegue, svelando la sostanza irreligiosa della metafisica, che non è, come vuol apparire, protesa al Dio divino, ma semplicemente alla ricerca del fondamento capace di garantire la stabilità e la disponibilità sicura dell’ente, mette a nudo quella volontà di potenza che si celava sotto il nome di Dio. Questa, come già il Dio causa sui, non rinvia ad altro, perché nient’altro vuole che se stessa e il proprio potenziamento senza limite.

L’idéa, che la filosofia platonica riconduceva a Dio e la filosofia moderna, dopo essersi assicurata dell’esistenza di Dio, affidava alla soggettività come sua perceptio e quindi come appetitus della perceptio, ora si vede espressa dalla volontà che anima il volere di quel subjectum, la cui entità (ousía), esprimendosi come soggettività dell’autocoscienza, rivela la sua essenza nella volontà di potenza. Questa, risolvendo in sé ogni senso possibile dell’ente, occupa il posto lasciato vuoto da Dio e, così facendo, pone fine, come vuole l’espressione di Nietzsche, all’“inganno bimillenario”.13 Risolto l’inganno, scrive Heidegger:

La verità che ora si dischiude non è più l’alétheia come non ascosità dell’ente, nè l’orthótes come concordanza o adæquatio del conoscere con l’oggetto, né la certezza come sicurezza di ciò che è posto dal cogito come sua rappresentazione. Con Nietzsche, la verità è intesa – in un senso che deriva storicamente dalle modalità suddette della sua essenza – come assicurazione della presenza disponibile dell’ambito a partire dal quale la volontà di potenza vuole se stessa.14

È infatti la volontà di potenza che crea le condizioni dell’apparire dell’ente e le modalità e i tempi del suo essere. Con la proclamazione della morte di Dio, Nietzsche mostra di aver perfettamente compreso l’essenza dell’Occidente, nato da quel travisamento platonico che ha portato a intendere la differenza ontologica tra essere ed ente come differenza ontica tra ente mondano ed ente divino, con la conseguente attribuzione a quest’ultimo di quei caratteri, come l’eternità e la potenza, che il pensiero aurorale aveva originariamente espresso come propri dell’essere.

Smarrita la differenza ontologica, nell’ambito ontico non poteva costituirsi altra differenza che non fosse di rango, quindi morale. Dio è l’ente di massimo rango (Summum ens), il mondo è ente di rango inferiore. Nel pensiero dell’ente-Dio è già compresa la valutazione degli enti del mondo, la loro parousía è una methéxis, la loro ousía ha la consistenza dell’ombra.

Proclamando la morte di Dio, Nietzsche proclama l’inautenticità della differenza ontica instaurata da Platone, combatte la riduzione dell’esistenza a mera apparenza, proclama l’“innocenza” di quest’ultima, che non è copia o imitazione, perché nessun “al di là” è in grado di costituirsi come misura svalutante. Per questo il folle che proclama la morte di Dio non è compreso dagli atei, e il suo annuncio suscita in loro “grande ilarità”.

L’ateo, infatti, è colui che all’idea sostituisce la cosa, all’essere il divenire, all’astratto il concreto, all’iperuranio la materia, allo spirito il corpo e, così facendo, si limita a capovolgere i valori, restando però sempre incluso in quell’orizzonte ontico-morale che non conosce altra differenza che non sia quella della valutazione e della svalutazione. Proclamare la morte di Dio significa invece rinunciare all’orizzonte ontico-morale e al tipo di differenza che in esso si costituisce. Significa parlare di “Mezzogiorno, istante dell’ombra più corta, fine del lunghissimo errore, apogeo dell’umanità”.15

Il riferimento all’ombra rinvia alla concezione platonica dell’ente sensibile che sorge e svanisce come ombra dell’Idea eterna e immutabile. “Mezzogiorno” è l’estinzione dell’ombra, è la fine del dualismo platonico da cui è nato l’Occidente. Per questo è l’“apogeo dell’umanità”. A mezzogiorno l’umanità passa dal “tu devi” all’“io voglio”,16 dallo spirito obbediente, che non vuole la propria libertà ma quella di Dio, allo spirito libero che non pone valori, ma solo conquista la libertà del “no” rivolto a Dio e al dovere che da Dio discende.

La morte di Dio segna anche il principio dell’uomo come volontà che vuole se stessa, e del mondo che, riscattato dalla subordinazione bimillenaria all’idea teologica, torna a riproporsi come terra originaria che non ha alle sue spalle alcun retro-terra meta-fisico. Di qui l’invocazione di Nietzsche:

Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze.17

La terra che riappare con la morte di Dio è la phýsis che era in manifestazione (alétheia) prima che Dio comparisse. Tra i due estremi è compresa la storia dell’Occidente come tempo dell’epoché della phýsis, del suo sottrarsi alla manifestazione, del suo nascondimento. È il tempo in cui “la natura ha gettato via la chiave”18 che avrebbe consentito di accedere a essa.

Per Nietzsche questo tempo è trascorso perché “tra un’aurora e un’aurora una nuova verità mi fu rivelata”.19 La verità è l’annuncio della morte di Dio che conclude l’intervallo tra le due aurore e quindi il tempo del tramonto tra esse compreso o della “menzogna bimillenaria”. Con la nuova aurora la phýsis, che come avverte il frammento di Eraclito: “ama nascondersi”,20 forse potrà tornare a rivelarsi. Con l’annuncio della morte di Dio Nietzsche ne ha ritrovato la chiave.

1 F. Nietzsche, Götzendämmerung, oder: Wie man mit dem Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, 3, p. 93.

2 Cfr. Parte IV: “L’oblio dell’essere e la dominazione dell’ente”.

3 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 182.

4 Platone, Repubblica, Libro VII, 514 a-520 a.

5 M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, cit., p. 190.

6 Ivi, pp. 184-187.

7 R. Descartes, Meditationes de prima philosophia (1647); tr. it. Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. II, Terza meditazione: “Di Dio e della sua esistenza”, pp. 33-49.

8 G.W. Leibniz, Principes de philosophie ou Monadologie (1714); tr. it. Principi di filosofia o Monadologia, in Scritti filosofici, Utet, Torino 2000, vol. III, pp. 453-468.

9 G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821); tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, p. 15.

10 M. Heidegger, Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, p. 234.

11 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, cit., 1965, vol. V, 2, § 125, pp. 129-130.

12 M. Heidegger, Nietzsches Wort “Gott ist tot” (1943); tr. it. La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 198.

13 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, cit., pp. 75-76: “Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola. Storia di un errore”.

14 M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, cit., p. 220.

15 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ovvero: come si filosofa col martello, cit., p. 76.

16 Id., Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, cit., 1968, vol. VI, 1, “Delle tre metamorfosi”, pp. 23-25.

17 Ivi, Prefazione, p. 6.

18 F. Nietzsche, Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne (1873); tr. it. Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, cit., 1973, vol. III, 2, p. 357.

19 Ivi, p. 18.

20 Eraclito, fr. B 123.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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