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La parola della ragione: il linguaggio funzionale
Il linguaggio persegue lo scopo di rendere presente l’assente. Naturalmente il linguaggio ha ereditato questo rapporto con l’assente dall’atto del mostrare: dico – dal greco deíknumi (indicare, mostrare, far vedere) –. [...] Oggi la funzione del linguaggio consiste nell’amputare la libertà del destinatario, nell’indirizzarlo, nello stabilire, per mezzo del predicato, il punto di vista da cui deve prendere in considerazione l’assente, e nel fornire al tempo stesso questo punto di vista come prodotto finito.
G. ANDERS, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale (1956), pp. 155, 161.
Nel paesaggio presieduto dall’impersonalità del Si (Man) la parola non è più pensata, ma semplicemente impiegata; il suo impiego è funzionale: serve per indicare i mezzi in funzione dei fini. Costretta nell’ambito circoscritto del pensiero strumentale chiamato a convalidare le ipotesi, anche la parola ne segue il destino e diventa ripetizione tautologica, definizione ricorrente, dettato ipnotico, che trova la propria giustificazione e il proprio significato nel “come si suol dire”. Ricorrendo come enunciati autovalidantisi, le parole riempiono il vuoto creato dall’assenza di pensiero.
Il linguaggio poetico e quello filosofico, che parlano di ciò che abitualmente non è visto, toccato e udito, sono screditati, perché impiegano parole che non si lasciano controllare dall’analisi logica e si riferiscono a problemi che non si lasciano verificare dall’analisi empirica. Come infatti scrive Reichenbach:
Sembra che una delle tentazioni più irresistibili per i filosofi sia quella di risolvere problemi superiori alle loro capacità intellettuali, suggerendo metafore in luogo di enunciati esplicativi. Da ciò risulta che le dottrine filosofiche più oscure sono dovute all’interferenza di motivi extralogici nei processi di pensiero, e che il legittimo desiderio di spiegazioni generali viene a volte appagato con metafore pseudoesplicative. Tale intrusione della poesia nel sapere è determinata da un vagheggiamento di mondi fantastici più intenso della stessa ansia di verità, ossia, da un fattore non logico, connesso con esigenze mentali estranee alla pura analisi.1
In questo modo la scienza, e la pura analisi che ne controlla il linguaggio, rendono un ottimo servizio alla prepotenza della ragione, vanificando sul nascere ogni parola che si riferisce a sensi e a significati assenti dal sistema e quindi potenzialmente sovversivi. Dare un nome alle cose assenti significa infatti spezzare la magia diffusa da quelle presenti, significa far entrare un ordine differente entro l’ordine stabilito. Contro “il lavoro che fa vivere in noi ciò che non esiste”, come scrive Paul Valéry,2 si mobilita tutto il sistema con i suoi strumenti di censura, che vanno dal divieto più grossolano alla più elegante mobilitazione dei media che, coordinando tra loro i mezzi di espressione e quindi le possibilità di comprensione, rendono la comunicazione di contenuti trascendenti tecnicamente impossibile.3
Di qui l’“incomunicabilità” delle opere d’arte e l’“incomprensibilità” del pensiero filosofico. La loro eliminazione dall’alto o il disinteresse che li circonda dal basso concorrono nell’intento repressivo della prepotenza della ragione, per la quale non esistono problemi che non possano essere discussi in modo piano e ragionato o sottoposti a sondaggi d’opinione; non esistono parole cariche di un senso loro proprio e specifico che non siano traducibili nel linguaggio corrente della comunicazione strumentale, non esiste la solitudine dell’individuo che, con il suo linguaggio pregno di sensi e di significati privati, possa porsi contro e oltre la sua società. A questo proposito Rilke ricorda che:
Per i nostri avi, una “casa”, una “fontana”, una torre loro familiare, un abito posseduto, il loro mantello erano ancora qualcosa di infinitamente di più che per noi, di infinitamente più intimo; quasi ogni cosa era un recipiente in cui rintracciavano e conservavano l’umano. Ora ci incalzano dall’America cose nuove e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi per vivere. Una casa nel senso americano, una mela americana, o una vite americana non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo in cui erano riposte le speranze e la ponderazione dei nostri padri.4
Nel rapporto con la vita quotidiana il linguaggio del passato era molte cose, era opposizione e accettazione, era grido e rassegnazione che l’universo razionale ha messo a tacere, privandolo del peso e della capacità di esprimere l’umano.
Oggi il linguaggio è affidato agli agenti pubblicitari che identificano le cose con la loro funzione. A “parlare di sé” sono i prodotti, che inducono il pubblico ad accettare, comprare, fare, consumare, in una parola a eseguire con ordine quanto predisposto dalla razionalità del sistema. La parola diventa cliché, slogan, e in questa veste governa la comunicazione, precludendo uno sviluppo genuino del significato. La sua comparsa produce immediatamente una risposta operativa, adeguata al contesto pragmatico in cui l’uomo si trova ogni giorno più inserito.
Come le antiche formule magico-rituali che operavano indipendentemente dal loro significato e dalla dimostrazione della loro efficacia, così parole come “libertà”, “uguaglianza”, “democrazia”, “pace” sono universalmente accolte secondo quella struttura analitica che isola il sostantivo dominante da quei contenuti che potrebbero invalidare, o quanto meno disturbare, l’accettazione indiscussa del sostantivo.
Così ritualizzato e acriticamente accolto, il sostantivo è reso immune dalla contraddizione, per cui non ci si stupisce di un partito socialista al governo di un paese capitalista, di una dittatura democratica, di un’elezione truccata, ma libera. E come ci si potrebbe stupire di un linguaggio contraddittorio se la razionalità del sistema che lo ospita si fonda sulla logica dialettica che è sintesi di contrari e conciliazione degli opposti? Una razionalità che prevede la produzione per il consumo e il consumo per la produzione, una razionalità che può permettersi di scherzare con la distruzione, volete che si arresti intimorita di fronte alla contraddizione?
Unificando gli opposti e non esitando a esibire le proprie contraddizioni come contrassegno della sua sincerità, la razionalità si rende immune dalla protesta e dal rifiuto, escludendo ogni discorso che non si svolga nei propri termini. In questo modo, monopolizzando ogni significato possibile, la razionalità è in grado di accogliere i propri negatori, perché sa che questi non possono costituirsi se non come suo dono, e non possono impiegare altro linguaggio se non quello che essa ha messo a loro disposizione. E così, assimilando tutti i termini dei discorsi possibili, può combinare la tolleranza con la massima unità.
L’unità si consegue unificando le aree linguistiche dopo averle svuotate della differenza concettuale che le sostanziano. Ciò è possibile con la creazione di un linguaggio che, fissando delle immagini, impedisce lo sviluppo e l’espressione dei concetti, oppure con l’identificazione del soggetto della proposizione con la funzione svolta di volta in volta dal soggetto. In tal modo i concetti si dissolvono in operazioni ed escludono l’intento concettuale che si oppone a tale dissoluzione.
Il concetto infatti distingue ciò che la cosa è dalla funzione contingente svolta dalla cosa nella realtà stabilita. Identificando i due momenti, la razionalità del sistema raggiunge lo scopo di dissolvere qualsiasi realtà che non sia quella da essa stabilita, e così si immunizza da ogni opposizione che, in quanto trascendente il sistema, si pone come potenzialmente distruttiva.
L’abbreviazione del concetto in immagini fisse, l’arresto del pensiero in formule autovalidantisi, l’immunità nei confronti della contraddizione, l’identificazione della cosa e della persona con la sua funzione sono a un tempo le caratteristiche del linguaggio messo a disposizione dalla prepotenza della ragione, e i mezzi con cui essa difende anticipatamente (pre) la propria potenza.
Ogni conflitto che dovesse nascere è infatti già pre-risolto nel linguaggio che, pre-disponendo le modalità della sua formulazione, già pre-contiene la soluzione nei termini attesi dalla pre-potenza della ragione. Non esistono infatti soluzioni che oltrepassino l’ampiezza del problema, il cui senso è immediatamente costretto nei limiti della formulazione linguistica che lo esprime.
In assenza di un linguaggio che non sia pre-deciso, e quindi controllato dalla razionalità del sistema, l’unica possibilità rivoluzionaria è affidata al silenzio che, tacendo, non cor-risponde alla razionalità del reale, quindi non lascia la realtà qual è, ma le impedisce di essere. Nel silenzio la coscienza si raccoglie, nel senso che ri-accoglie la voce dell’essere, senza lasciarsi dis-trarre o trascinar fuori dalla cura dell’ente. Nel silenzio si può udire la voce che chiama, come dice Heidegger: “nel modo spaesato del tacere”.5
1 H. Reichenbach, The Rise of Scientific Philosophy (1951); tr. it. La nascita della filosofia scientifica, il Mulino, Bologna 1972, p. 36.
2 P. Valéry, Poésie et Pensée abstraite, in Œuvres, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1957, vol. I, p. 1333.
3 Si veda a questo proposito U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 52: “Mass media e monologo collettivo”.
4 R.M. Rilke, Briefe aus Muzot, 13 novembre 1925, in Gesammelte Werke, Frankfurt a.M. 1961, vol. VI, p. 335. Questo brano è riportato anche da M. Heidegger, in Wozu Dichter? (1946); tr. it. Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 268.
5 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927); tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, p. 412.