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Il simbolo tra gioco, richiamo e ritorno
È forse un gioco di parole tentare di seguire il gioco del linguaggio e, così facendo, ascoltare ciò che propriamente il linguaggio dice quando parla?
M. HEIDEGGER, Che cosa significa pensare? (1951-1952, 1954), p. 16.
Nella prima lezione che inaugura il secondo corso di Was heisst Denken? Heidegger si scopre mentre sta “giocando con il verbo heissen”.1 La nozione di “gioco” fa la sua comparsa anche nelle pagine conclusive de Il principio di ragione dove il discorso sul fondamento (Grund) si conclude con il richiamo all’abisso (Ab-grund) e con l’immagine eraclitea dell’aión (che Heidegger traduce con Weltzeit, “tempo del cosmo”) come fanciullo divino che “gioca”.2
La relazione all’abisso (che chiede un salto per accedere alla “regione totalmente diversa”) e la relazione al richiamo (“stiamo giocando con il verbo heissen”) fanno del “gioco” un termine che non possiamo confondere con gli altri del linguaggio heideggeriano. È infatti un termine percorso da una radicale ambivalenza, perché da un lato esprime l’opposto della sottomissione a regole, non nel senso che le invalidi, ma nel senso che, svelandole nel loro carattere “eventuale”, in un certo senso le sospende, così come sospende la “continuità” ermeneutica a cui è sì concesso di dis-correre dall’una all’altra interpretazione senza legarsi definitivamente a nessuna, ma, come opportunamente osserva Vattimo, “senza salti”.3 L’“ermeneutica” infatti conosce l’abisso solo come assenza di fondamento (Ab-grund), ma non come “regione totalmente diversa” a cui, come vedremo, tende l’“esegesi”.
Se da un lato il gioco esprime l’opposto alla sottomissione a regole, dall’altro ci vincola in una maniera forse più radicale mettendoci in gioco. Riferendosi al linguaggio abituale che, per il solo fatto che è comune a tutti, è assunto “come l’unico che dia una norma”, Heidegger osserva che:
Il gioco etimologico, che esce dall’abituale per abitare in quello che già una volta fu il parlare appropriato del linguaggio, viene immediatamente preso per un’infrazione alla norma. Esso viene stigmatizzato come un arbitrio, come un facile gioco. E tutto questo fa parte dell’ordine delle cose, dal momento che si considera l’abituale come l’unica norma oggettiva e non si è assolutamente capaci di contenere l’abituale nel suo carattere di abitudine. Questa vertigine di fronte all’abituale, posta sotto l’egida del preteso sano intelletto umano, non è né casuale, né tale da poter essere sottovalutata. Questa vertigine di fronte all’abituale fa parte dell’alto e pericoloso gioco in cui l’essenza del linguaggio ci ha messi in gioco.4
Il pericolo è nella sospensione della perentoria serietà del testo che regge ogni contestualità fondante e fondata, è nella discontinuità dell’abisso che dischiude tutt’altra possibilità espressiva. “Giocando con il verbo heissen”, Heidegger osserva che:
La parola viene utilizzata per chiedere ad esempio: “Come si chiama (heisst) il villaggio che si trova su quel colle?”. In questo caso heissen significa: quale nome dovrà portare? [...] Altrove la parola viene impiegata in un significato che possiamo approssimativamente rendere con i verbi: invitare, esigere, avvertire di un’esigenza che si ha, rimandare. Avvertiamo (heissen) qualcuno che sta sul nostro cammino che vorremmo che si spostasse, che ci facesse posto. In heissen non c’è però necessariamente l’imporre, né tanto meno il comandare; c’è piuttosto un richiamarsi anticipante verso qualcosa, in cui lasciamo pervenire ciò cui ci siamo richiamati (das Geheissene) nel momento stesso in cui ci richiamiamo (heissen) a esso.5
Quest’ultimo è il senso desueto, quello che, secondo Heidegger:
Noi non abitiamo o abitiamo appena, [...] non perché il parlare della nostra lingua non si sia mai sentito a casa in esso, ma perché noi non ci sentiamo più a casa in questo dire della parola, perché non lo abitiamo più in modo autentico (eigentlich).6
Ci avviamo a compiere il salto nella “regione totalmente diversa”, tanto quanto può essere diverso dire le parole e abitare i simboli. Il simbolo infatti “non si dice”, “non si riferisce a” un presunto simboleggiato che, alle spalle del simbolo, ne custodirebbe la verità segreta (Freud). Il simbolo si abita come si abita una patria. Ma, scrive Heidegger:
Proprio l’abitare è esposto al rischio dell’abituale. [...] Questa esposizione è ciò che rende poco abituale e all’apparenza inconsueto il significato autentico: quello che è innato nella parola, tale che resta l’unico, mentre tutti gli altri trovano in esso la loro patria.7
Comprendiamo ora il senso del famoso “passo indietro (zurück zu Schritt)” heideggeriano,8 che non è tanto un ritorno all’origine dell’Occidente, quanto un ritorno all’origine della parola, che non è la sua etimologia, ma il suo spessore simbolico. Si tratta infatti di tornare a quella patria da cui si dispiegano le diverse regioni, o, in altra metafora, a quella terra da cui si dispiegano i mondi.
Per questo è necessario seguire una via, ma siccome il luogo a cui si deve arrivare già lo si abita, sia pure nella forma inautentica (uneigentlich) dell’abituale, non si può intendere la via come un semplice mezzo per giungere a una meta che lascia la via alle spalle. Questa è la ragione per cui non c’è metodo (metá-odós) per leggere i simboli. L’esegesi del linguaggio simbolico, lasciandosi alle spalle ironia, maieutica, epoché, dubbio, in una parola i metodi dell’Occidente, inaugura quel trovarsi per via (odós), quel trattenersi fra le vie (Unterwegs) senza possibilità che un risultato possa offrirsi come meta raggiunta. A questo punto, si chiede Heidegger:
È questo ritorno un arbitrio? È un facile gioco? Né l’una cosa, né l’altra. Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi – e non soltanto in questo caso particolare, non soltanto da oggi, ma ormai da lungo tempo e senza interruzioni. Il linguaggio gioca infatti con il nostro parlare in un modo che abbandona facilmente quest’ultimo ai significati più superficiali delle parole. È come se l’uomo facesse fatica ad abitare in maniera appropriata (eigentlich) nel linguaggio. È come se proprio l’abitare fosse il più esposto al pericolo dell’abituale.9
Venendoci a chiamare (heissen) dall’abituale, il richiamo (Geheiss) “ci invita a venire (im kommen-Heissen)” nell’abitazione, ci invita a quel ritorno, a quel passo indietro verso l’abitare in cui è “l’autentico significare (eigentlich Heissen)”.10 Nella direzione del ritorno Was heisst Denken? può essere sì tradotto: Cosa significa pensare?, ma a condizione, scrive Heidegger, che con quel “significa (heisst)” si intenda:
“Che cosa ci chiama al pensiero?” Che cosa fa appello a noi affinché noi pensiamo e, in questo modo, in quanto pensanti, siamo quel che siamo? [...] Ciò che ci chiama al pensiero reclama di per sé di essere servito, curato e custodito nella sua essenza per il tramite del pensiero. Ciò che ci chiama al pensiero ci dà da pensare.11
Comprendiamo a questo punto che le figure heideggeriane del “richiamo” e del “ritorno” non sono a significare che il senso dell’essere non si dà più o non si dà ancora, per cui il pensiero ha da rimpiangerlo o da prepararne l’avvento, tanto meno esse alludono alla presa d’atto che tale fondazione si è finalmente vanificata, per cui non resta che procedere alla costruzione di significazioni non ontologiche, rivolte esclusivamente agli enti e impegnate nelle tecniche di organizzazione o di pianificazione. “Richiamo” e “ritorno” aprono il gioco linguistico mettendoci in gioco in quella “regione totalmente diversa” dove non siamo più noi ad avere in mano le regole del gioco, ma quello spazio simbolico che con la sua offerta (Gabe) ci gioca. Infatti, scrive Heidegger:
Ciò che esso dà da pensare, il dono (Gabe) che esso ci porge, non è niente meno che il darsi di se stesso, di ciò che ci chiama nel pensiero.12
1 M. Heidegger, Was heisst Denken? (1951-1952, 1954) (corso universitario); tr. it. Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1971, Parte II, Lezione 1, p. 12. G. Vattimo, in una nota alla sua traduzione di questo testo heideggeriano, scrive che “Il verbo heissen può avere in tedesco due significati differenti, che non trovano in italiano nessuna corrispondenza sufficiente. Heissen significa, infatti, da una parte: ‘significare’, ‘chiamarsi’ (Was heisst Denken? dice allora che cosa significa, che cosa si chiama pensare?), dall’altra parte significa anche ‘dare un ordine’, ‘chiamare qualcuno a qualcosa’ (Was heisst Denken? dice: che cosa ci chiama al pensiero?)”.
2 M. Heidegger, Der Satz vom Grund (1957); tr. it. Il principio di ragione, Adelphi, Milano 1991, Lezione 23, p. 192.
3 G. Vattimo, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980, p. 139.
4 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., Parte II, Lezione 1, pp. 15-16.
5 Ivi, pp. 12-13.
6 Ivi, pp. 14-15.
7 Ibidem.
8 Cfr. il capitolo 6: “Heidegger: la differenza ontologica e il passo indietro”.
9 M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., Parte II, Lezione 1, p. 15.
10 Ivi, p. 17.
11 Ivi, pp. 17-18.
12 Ivi, p. 18.