25.

La metafisica dualistica come tentativo di assicurare l’ente

In quanto si rappresenta sempre soltanto l’ente in quanto ente, la metafisica non pensa all’essere stesso. La filosofia non si raccoglie mai sul suo fondamento, anzi se ne allontana sempre, e precisamente attraverso la metafisica.

M. HEIDEGGER, Introduzione a: “Che cos’è metafisica?” (1949), p. 319.

Sotto il giogo dell’idea la differenza non è più tra essere ed ente, ma, all’interno dell’ente, tra mondo e Dio. Lo smarrimento della differenza ontologica determina la nascita del nichilismo che non annulla l’essere, ma considera l’essere come nulla, perché considera l’ente come tutto. Come dice Heidegger: “Occuparsi solo dell’ente nella dimenticanza dell’essere, questo è nichilismo”.1

A partire da Platone, tutta la civiltà occidentale è catturata dal nichilismo a cui conduce la volontà di assicurare l’ente, sottraendolo a quell’insicurezza che lo caratterizza come accadimento gratuito dell’essere, da cui dipende quanto al suo essere e al suo apparire. Sottrarlo all’azione gratificante per affidarlo a una causa determinante significa poter disporre dell’ente e della sua utilizzabilità senza incertezze. In questa direzione si muove dapprima la determinazione teologica dell’ente, che prende avvio da Platone, quindi la determinazione scientifica che si sostituirà a quella teologica nella qualificazione della causa, ma non nella sua problematizzazione.

Ciò che è causa dispone dell’essere a titolo proprio. Ciò che dipende dalla causa “è”, finché la causa decide di farlo essere. Questo principio, che sta alla base della distinzione platonica tra iperuranio e mondo sensibile, non pensa più l’essere come ciò che accoglie l’accadimento dell’ente, come avveniva nel periodo assiale, ma come una proprietà che compete per sé all’ente-causa, mentre all’ente-causato compete per aliud, per la causa appunto.

Assorbito dalla causa e con essa identificato, l’essere si distingue dall’ente solo nel mondo sensibile, dove, non essendo gli enti causa di se stessi (causa sui), ancora è possibile distinguere ciò che gli enti sono (essenza) da ciò che li fa essere (esistenza). La distinzione tra essenza ed esistenza, che così si inaugura, conserva nel suo significato il senso espresso dalla differenza ontologica precedentemente intuita tra essere ed ente. Questo fatto consente di mantenere l’ente mondano nella precarietà e nella contingenza che compete a ciò che è, ma potrebbe anche non essere.

Accade però che in questa problematicità originaria, in cui è possibile avvertire la differenza ontologica tra essere ed ente, Platone non trattiene la totalità dell’ente, ma solo un mondo, il mondo dell’ente causato, dell’ente incapace di darsi da sé. Al di sopra di questo (nell’hyperouránion), e da questo distinto (chorísimos), si dà, per Platone, l’enteidea, l’ente cioè, che, disponendo dell’essere in proprio in quanto causa sui, annulla la differenza ontologica, risolvendo l’essere nell’ente-causa, per cui dell’essere in quanto essere, che pure la metafisica non cessa di proclamare oggetto della sua indagine specifica, ne è niente.

Identificato il senso dell’essere nell’ente-causa, la problematicità non è più dell’ente nei confronti dell’essere, ma dell’ente-causato nei confronti dell’ente-causa, del mondo nei confronti di Dio. Il seguito della metafisica occidentale non sarà nella direzione del recupero della problematicità dell’ente, sì da includere anche quel mondo, l’iperuranio, che la deviazione platonica ha sottratto, ma sarà nella progressiva eliminazione della problematicità, fino a giungere al progetto della sua completa estinzione.

La ragione calcolante e causante, che nel nostro tempo tutto determina e prevede, sottraendo ogni possibile spazio al problematico e al contingente, dimostra che la distinzione platonica tra essenza ed esistenza, in cui ancora si conserva, sia pure limitatamente, la differenza ontologica che, sola, salvaguarda il senso dell’essere, non è in vista del suo mantenimento, ma nella prospettiva storica della sua completa eliminazione.

Una conferma di tale indirizzo è data dal ruolo speculativo svolto da Aristotele, per il quale la metafisica non è più cura dell’essere (eînai), ma dell’ente in quanto ente (òn hêi ón). Aristotele tenta di ridurre la problematicità dell’ente mondano portando il dominio della forma ideale, che in Platone era separata dall’individualità concreta, nell’esistenza individuale, sottraendole così quella problematicità che Platone, separandola dall’ente-causa (idéa), ancora le concedeva. Ma in questo modo, osserva Heidegger: “L’idéa diventa ora espressamente l’eîdos nel senso della morphé di una hýle, in modo tale che l’enticità si trasferisce nel sýnolon”.2

L’eliminazione totale della problematicità viene raggiunta dall’Occidente nel progetto scientifico della calcolabilità del mondo, mediante la sua riduzione alla ragione che ne programma e ne determina gli eventi. Questi non sono più pensati come accadimenti incondizionati, ma come effetti causati da quella volontà di potenza che vuole il mondo e il suo possesso.

Altra direzione non era consentita all’Occidente, perché la problematicità dell’ente, che ancora si conserva in Platone, non è stata pensata nella positività che all’essere attribuisce la differenza ontologica quando afferma la precarietà dell’ente, ma nella negatività che compete all’ente quando è affermato nel suo isolamento. La negatività dell’ente genera insicurezza nell’uomo che, dimentico dell’essere, ha posto fra gli enti la propria dimora. L’instabilità del mondo, la sua precarietà, l’incertezza che ne accompagna gli eventi è ciò che l’Occidente ha deciso di superare.

È Platone stesso a inaugurare questa via là dove si propone di salvare i fenomeni “Sózein tà phainómena”,3 di sottrarli all’insicurezza che li accompagna fin dal loro primo apparire. Mímesis, méthexis, koinonía esprimono il tentativo, non chiaro nel procedimento, ma chiarissimo nell’intenzione, di sottrarre l’ente mondano alla precarietà sua propria, tramite un legame sempre più stretto con l’ente iperuranico che, in quanto causa, dispone dell’essere per sé. Commentando questo itinerario platonico, Heidegger scrive:

Il “Bene” consente l’apparire dell’e-videnza in cui ciò che è presente possiede la consistenza del suo essere. Grazie a questa concessione l’ente viene trattenuto e “salvato” nell’essere.4

L’immediata connessione tra causalità e salvezza, oltre a lasciar intendere la motivazione che sta alla base della causalità (salvare i fenomeni dalla precarietà che li accompagna), determina la soppressione della contingenza, la cui possibilità è affidata all’assenza di ogni causalità. Se un ente infatti esiste in base a una causa, non è più possibile che esso possa veramente essere e non essere, perché la causa ne condiziona ineluttabilmente tanto l’essere che il non-essere.

La causa quindi non interviene per determinare qualcosa, ma per salvare qualcosa dalla possibile rapina del nulla, contro cui il puro accadimento non causale non è affatto garantito. La causa è quindi la soppressione di ogni autentico accadere. Platone, lungi dall’aver separato il mondo contingente dall’eterno, ha iniziato quella serie di tentativi, poi proseguiti dall’Occidente, promossi dalla volontà di realizzare un legame sempre più stretto tra il mondo e l’eterno, onde garantire dal nulla il mondo stesso e col mondo chi vi dimora.

Quest’impostazione metafisica, inaugurata da Platone, è rimasta immutata in Aristotele, la cui enérgheia non tarda a perdere il significato originario di presenza per assumere quello deviante di actualitas. Come Atto puro, Dio è l’Ente supremo, a cui si perviene in vista delle cose del mondo, bisognose di essere garantite nella loro vicenda, al fine di un dominio integrale da parte dell’uomo.

La garanzia delle cose del mondo e la ricerca delle condizioni che le assicurano è il motivo costante che ha promosso le varie forme di pensiero metafisico apparse in Occidente. Il loro senso sfugge a chi, nel considerarle, insiste sulle loro differenze, mentre il loro vero significato è affidato a quell’identica intenzione che le ha promosse, e precisamente la ricerca affannosa di stabilità, di sicurezza, di salvezza, di rifiuto dell’incondizionata precarietà dell’accadere che non consente calcolo alcuno e fa naufragare ogni progetto.

L’uomo teme l’instabilità, non sopporta l’angoscia del precario, rifiuta l’insecuritas del proprio destino; per questo va alla ricerca di terreni solidi sui quali poter ancorare il senso del proprio presente e delineare i termini che rendono meno vaga la speranza che deve ospitare il futuro. A questa esigenza rispondono tanto il Dio del cristianesimo, quanto il cogito di Cartesio e la volontà di potenza di Nietzsche.

Nel cristianesimo domina l’esigenza di salvare l’ente, quell’ente determinato e privilegiato che è l’anima dell’uomo. Non vi è quindi alcuna sostanziale differenza tra la visione che del divino ha Platone e quella sostenuta dal cristianesimo. Anzi il processo inferenziale che sta alla base della dimostrazione dell’esistenza di Dio rivela di quanta preoccupazione mondana sia nutrita quell’anima che si vuol salvare. Dio esiste, dice la dimostrazione, perché altrimenti il mondo, che non possiede l’essere per sé, sarebbe niente. Scrive infatti Tommaso d’Aquino:

La creatura non possiede l’essere per sé, ma per altro. Lasciata a se stessa e considerata in se stessa essa è nulla. Ne consegue che per natura a essa compete prima il nulla dell’essere.5

Si perviene così a un Dio mondano la cui funzione è quella di salvare il mondo. L’ascesa teologica, per quanti gradi cerchi di elevarsi, non riesce a nascondere la pesante telluricità dell’ansia che l’ha promossa.

Anche Cartesio, fondatore della filosofia moderna, e in antitesi solo apparente con la metafisica ontica medioevale, non si allontana dal solco da questa tracciato. Il cogito esprime la ricerca di un contenuto indubitabile da cui partire per la costruzione del dominio dell’uomo su tutto l’ente.6 La metafisica continua a dominare, muta solo l’unità di misura a cui la totalità dell’ente deve riferirsi per essere garantita, ma non muta l’esigenza di sicurezza, anzi si accentua, diventa più rigorosa, e se si vuole, più vicina, dal momento che Cartesio fonda nell’uomo ciò che Platone e il cristianesimo avevano fondato in Dio.

A portare a compimento l’esigenza cartesiana di assolutezza nell’ambito del conoscere provvederà Hegel. La razionalità di tutto il reale7 e l’intrascendibilità del pensiero sembrano così concludere quell’itinerario metafisico che, a partire da Platone, s’era proposto l’eliminazione della precarietà dell’ente, onde garantirne all’uomo il dominio.

La natura di questo itinerario giunge alla sua massima chiarezza con Nietzsche. La proclamazione nietzscheana della morte di Dio,8 lungi dal significare la distruzione di ogni metafisica, ne rivela l’essenza intima, custodita dalla volontà di salvaguardare l’ente dalla possibilità del nulla. Questa salvaguardia, per Nietzsche, non è garantita né da Dio né dai valori, ma dalla volontà di potenza che, per raggiungere il suo dominio sull’ente, ha ideato sia Dio sia i valori che di volta in volta si sono affermati nella storia. Questi, pensati come immutabili ed eterni, sono stati sottratti alla precarietà del divenire e quindi al pericolo del nulla.

Misconoscere Dio e i valori significa a questo punto misconoscere il carattere di incondizionatezza che sempre ha accompagnato queste realtà, in quanto s’è riconosciuto in esse delle semplici condizioni poste dalla volontà di potenza per l’esercizio del suo volere. Analogamente, proclamare la morte di Dio significa svelare che Dio non esiste da sé, ma solo in quanto è voluto dalla volontà di potenza, desiderosa di garantirsi l’ente e il suo dominio.9

Nata dall’oblio dell’essere, per quanto trattenuta dal giogo dell’idea, la metafisica, in tutte le sue forme storiche, non può evitare l’esito nichilista, perché, nella dimenticanza dell’essere, anche l’idea suprema, tò Agathón, non è in grado di giustificare quella superiorità che lo “rende buono a...” far essere tutte le cose. Infatti, anche se, come scrive Platone: “Tò Agathón supera l’essere in dignità e potenza”,10 esso non può sottrarsi alla domanda che chiede il fondamento della sua superiorità. Né, d’altro lato, il fondamento può essere trovato nell’essere, dalla cui subordinazione trae origine la superiorità di tò Agathón. La superiorità è dunque ospitata dall’alterità dell’essere, dal nulla quindi.

L’esito nichilista della metafisica è già pre-contenuto in quel nulla che la metafisica stessa ha posto al proprio vertice col nome di Dio. Il naufragio che attende il suo itinerario risulta evidente non appena si pone l’universo metafisico, che subordina l’essere al dominio di un ente, nella massima oscillazione prevista dalla domanda heideggeriana: “Perché in generale c’è l’ente e non piuttosto il nulla?”.11

Se nell’oscillazione il ruolo del positivo è svolto dall’ente come totalità dell’eidetico che include quell’idea suprema che Platone è giunto ad affermare, allora non c’è nulla in grado di garantire questa totalità della sua definitiva vittoria sul nulla. Se invece il ruolo del positivo è giocato non dall’ente come totalità dell’eidetico, ma dall’essere che accoglie l’ente come suo evento, allora la vittoria sul nulla è garantita, perché supporre che l’essere si annulli o possa annullarsi significa affermare la negatività del positivo, cioè il massimo della contraddizione, il non-senso.

Eppure la metafisica onto-teo-logica12 che si è affermata in Occidente non è da rifiutare o da rimuovere, perché il suo esito nichilista conduce in prossimità del senso dell’essere. Infatti, scrive Heidegger:

Se, con una spiegazione semplicistica, spacciamo il niente per ciò che è mera nientità e lo equipariamo a ciò che è privo di essenza, rinunciamo troppo precipitosamente a pensare. Invece di cedere alla precipitazione di una così vuota perspicacia e di abbandonare l’enigmatica plurivocità del niente, dobbiamo unicamente prepararci a essere pronti a esperire nel niente la vastità di ciò che dà a ogni ente la garanzia di essere. Ciò è l’essere stesso.13

L’espressione “il niente” non si limita a nominare negativamente l’essere, ma, con la sua negatività, designa anche la fondamentale dimenticanza in cui si incorre quando l’ente viene assolutizzato e l’inammissibilità di tale dimenticanza. Più rigorosamente, il nichilismo della metafisica inaugurato da Platone esprime l’oblio della differenza tra essere ed ente e l’inammissibilità di questo oblio.

Rendersene conto significa compiere il primo passo nella direzione del superamento della metafisica, significa abbandonare il perché-risposta (weil) ancorato a pseudo-fondamenti (Un-grund), e prendersi cura del perché-domanda (warum) che, sporgendosi sull’abisso (Ab-grund) apertosi con il crollo del terreno apprestato dagli pseudo-fondamenti, resta in attesa del fondamento originario (Ur-grund), o comunque del senso che solo la domanda, non soppressa dalla prevaricazione della risposta, è in grado di custodire.

1 M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik (1935-1953); tr. it. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 207.

2 Id., Nietzsche (1936-1946, 1961); tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 550.

3 L’espressione “Pròs tò tà phainómena sózein” si trova in Proclo, Hypotyposis astronomicarum positionum, a cura di C. Manitius, Leipzig 1909, capitolo 10, § 5. Sfruttata teoreticamente, l’espressione raccoglie il senso della filosofia di Platone, il cui intento è di salvare la positività delle differenze dei fenomeni a cui Parmenide aveva negato verità e realtà. Si veda a questo proposito E. Severino, Poscritto (1965) a Ritornare a Parmenide (1964), in Essenza del nichilismo (1972), Adelphi, Milano 1982, p. 73; nonché G. Bontadini, Conversazioni di metafisica (1971), Vita e Pensiero, Milano 1995, vol. II, capitolo 23: “Sózein tà phainómena”, pp. 136-166.

4 M. Heidegger, Platons Lehre von der Wahrheit (1931-1932, 1942); tr. it. La dottrina platonica della verità, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 184.

5 Tommaso d’Aquino, De æternitate mundi contra murmurantes (1270), in Opuscola philosophica, Marietti, Torino 1954, capitolo 7, p. 106. Recita il testo latino: “Esse non habet creatura nisi ab alio. Sibi relicta, in se considerata nihil est. Unde prius naturaliter inest sibi nihil quam esse”.

6 R. Descartes, Discours de la méthode (1637); tr. it. Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. I, Parte IV.

7 G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821); tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1954, p. 15. Recita il testo di Hegel: “Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig (Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale)”.

8 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (1882); tr. it. La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Milano 1965, vol. V, 2, § 125.

9 Per un approfondimento di questi temi si vedano il capitolo 69: “La volontà di potenza e la morte di Dio” e il capitolo 70: “La volontà di potenza e la svalutazione di tutti i valori”.

10 Platone, Repubblica, Libro VI, 509 b. Recita il testo greco: “Ouk ousías óntos toû agathoû, all’éti epékeina tês ousías presbeíai kaì dynámei hyperéchontos”.

11 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., p. 13. Recita il testo tedesco: “Warum ist überhaupt Seiende und nicht vielmehr Nichts? Das ist die Frage”. Si veda a questo proposito il capitolo 4: “La domanda filosofica in Heidegger e Jaspers”.

12 Id., Identität und Differenz (1957); tr. it. Identità e differenza, Parte II: “La concezione onto-teo-logica della metafisica”, in “Teoresi”, 1967, pp. 215-235.

13 Id., Nachwort zu “Was ist Metaphysik” (1943); tr. it. Poscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, cit., p. 260.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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