53.

La provocazione della scienza e l’oggettivazione dell’essere (als Gegenstand)

La parola Gegenstand nasce nel XVIII secolo, come traduzione tedesca del latino objectum. Né il pensiero medioevale, né quello greco pensano la presenza dell’essere come oggetto che sta-di-contro (Gegen-stand, ob-jectum) a un soggetto.

M. HEIDEGGER, Scienza e meditazione (1953), p. 32.

Nella storia della ragione la natura è presente come negata, il non della negazione è il non apparire della natura come phýsis autodischiudentesi, a causa della sopraffazione dell’apparenza, in cui la natura si raccoglie, in quanto pro-vocata dalla ragione. La ragione è così negazione della naturalità della natura e sua ri-creazione a opera della potenza tecnico-scientifica dell’uomo, in quanto animal rationale.

Chiamata davanti (pro-vocata) alla ragione per render ragione di sé, la natura appare nei termini predisposti dalle anticipazioni della ragione e, in questo rivelarsi razionale, nasconde il suo volto naturale; offre di sé il richiesto, trattenendo in sé il non-richiesto; risponde all’appello della ragione nei limiti previsti dalla pro-vocazione. Il suo manifestarsi è sì a-létheia, ma questa a-létheia non è totale. Il nascosto non pro-vocato custodisce l’essenza naturale della natura, il suo mistero celato, che solo la falsa coscienza o la superstizione scientifica possono ritenere di avere totalmente dissolto.

Hegel, nel porre la sua filosofia come compimento del pensiero occidentale e come enucleazione del suo senso, decretò il risolvimento della natura nella razionalità, la riduzione della sua impotenza alla potenza della ragione.1 Questa idea, nel concludere il pensiero come theoría, lo dischiuse come poíesis e come téchne, come produzione del mondo naturale e del mondo umano secondo i programmi della ragione.

Positivismo e marxismo sono fedeli esecutori di questo programma che ha sostituito alla contemplazione del mondo la sua trasformazione. Nella trasformazione della natura delle cose e dell’uomo, l’Occidente è venuto finalmente in chiaro con se stesso e con la sua identità, coerentizzandosi con le premesse del suo pensiero, sorto quando, alla manifestazione dell’essere (alétheia), fu anteposta la visione dell’uomo (idéa).2

Oggi l’uomo non prova stupore di fronte alla natura, ma di fronte alla tecnica che gli risolve antichi problemi di fatica e di sofferenza “naturali”, quindi all’apparenza inevitabili. La negazione delle naturalità della natura è anche la negazione dell’inevitabilità, è la possibilità dell’affermazione, della potenza della rivoluzione (scientifica e sociale).

L’uomo non si riconosce più là dove era, spettatore impotente della potenza della natura, servo riconoscente della magnanimità del signore. L’uomo dell’Occidente si ritrova, come aveva detto Hegel, dominatore della natura e signore del signore,3 si trova identificato in una coscienza nuova, che si dischiude a una meraviglia che non ha più gli stessi contenuti. I cieli non narrano più la gloria di Dio, ma quella dell’uomo, la terra non ospita più la lotta tra servo e signore, ma la razionalità del sistema che rende tutti signori delle cose e servi dell’efficienza del sistema che le produce.

La meraviglia, quell’aurora della coscienza che segna il destarsi dell’individuo dalla chiusa soggezione dell’istinto, si apre alla domanda sulle cose in modo differente, perché le cose non sono più viste come accadimenti incondizionati della natura, ma come eventi determinati dalla ragione dell’uomo che domina la natura. Se la meraviglia, come dicevano Platone e Aristotele, è “il principio della filosofia”,4 la filosofia, nella versione tecnico-scientifica, non chiede più il senso dell’accadimento, ma le modalità del suo accadere, a partire dalle previsioni e dai calcoli effettuati nel complesso sistema degli organismi e degli strumenti disponibili nel mondo naturale e umano.

Da pura theoría, la filosofia si traduce in pratica scientifica e prassi sociologica in vista della trasformazione del mondo naturale e del mondo umano. In una parola diventa antropologia, non nel senso dello studio dell’uomo, ma nel senso dell’assunzione dell’uomo a lógos supremo (ánthropos-lógos) che, come l’antico lógos, in sé raccoglie (légein) il senso e il significato di tutte le cose. E così, passando dalla phýsis all’ánthropos, il lógos coinvolge il destino della filosofia che fin dalle origini ne insegue il senso. Nata come philía perì phýseos nel pensiero aurorale, la filosofia si ritrova come antropologia nel pensiero crepuscolare. In questo tragitto è custodito il senso dell’epoca occidentale, e quindi del tramonto che, nel suo nome, l’epoca annuncia.

Nel definire la scienza moderna come “il primo avvenimento interamente nuovo nella sfera spirituale e materiale dopo il periodo assiale”,5 Jaspers si domanda:

Perché ciò è avvenuto in Occidente e non nelle altre due grandi zone culturali? Aveva forse l’Occidente, già nel periodo assiale, qualcosa di peculiare che ha poi prodotto tali effetti nel corso degli ultimi secoli? Esisteva già in embrione nel periodo assiale ciò che alla fine si è manifestato nella scienza? Ha l’Occidente qualche carattere specifico? Un simile sviluppo, radicalmente nuovo e carico di trasformazioni, unico nel suo genere, deve avere le sue radici in un principio più comprensivo. Tale principio non è individuabile. Ma forse ci sono alcune indicazioni che possono far luce sulla peculiarità dell’Occidente.6

Le indicazioni Jaspers le trova nel “vortice della sofistica”, dove si abbandona l’amore per il possesso, la filo-sofia per la sofia, la povertà per l’acquisto. Di fronte all’indeterminatezza dell’ápeiron, all’incondizionata geneticità della phýsis, all’invisibile armonia del lógos, l’uomo sente la precarietà del suo essere, avverte la propria impotenza di fronte alla potenza dell’accadimento incondizionato, soffre “le vertigini della verità”,7 che colloca in quell’assenza di terreno (Bodenlösigkeit), dove nessun fondamento e nessuna ragione si offre a sostegno o a punto di riferimento, dove la manifestazione si dischiude senza che alcuna anticipazione o attesa siano predisposte all’accoglimento. L’uomo è provocato dall’essere senza preavviso. Lo spettacolo che si offre è nuovo, desta meraviglia. Dalla meraviglia nasce la filosofia che però Platone subito organizza in direzione scientifica. Scrive a questo proposito Jaspers:

Nel vortice della sofistica, Socrate e con lui Platone vollero assicurare un suolo stabile (festen Boden) mediante il pensiero stesso. Questo non si poteva ottenere se non con una nuova dimensione del pensiero: il pensiero come sapere (Denken als Wissen). Il concetto comune di sapere, allora come oggi, indica un sapere di qualche cosa. Esso riguarda oggetti singoli. O io so una cosa o non la so. Quando acquisto un sapere ottengo un possesso. Posso estenderlo mediante nuove informazioni. Questo sapere (Wissen) sottintende un potere (Können) che trova la sua applicazione in una sorta di potenza (Macht). Io posso disporre di ciò che so e, con l’aiuto del sapere, esercito un determinato potere su altro. Questo “altro” può essere in me o fuori di me. Esso non è me stesso. Platone procede in vista di questo sapere e provvede a realizzarlo.8

Colto alle sue origini, il pensiero scientifico e tecnico già rivela tutti i caratteri con cui si dispiegherà in Occidente e soprattutto la motivazione di fondo che sta alla base del suo sviluppo: il possesso delle cose e la potenza sul loro accadimento. Il pensiero come ringraziamento (Denken als Danken) e il pensiero come sapere (Denken als Wissen) oppongono volontà di verità (Wahrheitswille) e volontà di potenza (Machtswille) in maniera così radicale da non lasciar intravedere alcuna possibile conciliazione.9

La volontà di verità prova la vertigine dell’assenza di terreno (Bodenlosigkeit), perché, nel dischiudersi alla totalità, avverte l’impotenza di chi, cosciente di non condizionarne la manifestazione, vi si dispone come all’accoglimento di un dono. Il dono provoca il pensiero come ringraziamento.

La volontà di potenza vuole invece un terreno stabile su cui è possibile prender base e anticipare l’evento in modo tale che il suo sopraggiungere non sia imprevisto, ma in qualche modo atteso perché pro-vocato. Pro-vocazioni sono le anticipazioni del pensiero e i metodi, che non si limitano a rappresentare ciò che deve sopraggiungere, ma anche il modo in cui deve sopraggiungere.

Con l’anticipazione e il metodo il pensiero come sapere conosce già nella rap-presentazione (Vor-stellung) il nome della cosa, prima (vor) che questa si presenti. La presenza della cosa non è più un es-porsi dal nascondimento, ma un dis-porsi nel campo della rap-presentazione anticipata. Il suo stare è uno star-di-contro al soggetto che ha disposto l’ordine di presentazione. Sottratta al suo semplice è (Stand), la cosa è-di-contro (Gegen-stand, ob-jectum). L’oggettività è la modalità del suo apparire. Un apparire che non è più dono dell’essere, ma richiamo di una soggettività che vuole la cosa davanti a sé nelle modalità anticipate e predisposte. In ciò è la pro-vocazione.

A questo punto il pensiero non ringrazia (als Danken) perché sa (als Wissen), perché possiede in anticipo nella rappresentazione l’oggetto che, con il metodo, chiama alla presenza. Il possesso è potenza sull’oggetto che si è chiamato davanti a sé, e che si è disposto nell’orizzonte dell’oggettività in modo che sia possibile, seguendo lo stesso metodo, ritrovarlo allo stesso posto, onde consentire alla volontà di potenza di poterne sempre disporre.

Affinché la disponibilità sia universale e il più possibile garantita contro ogni eventuale smarrimento, la soggettività che dispone la posizione dell’ente dovrà essere a sua volta universale e il più possibile purificata dagli inconvenienti della soggettività; dovrà essere, come dice Jaspers, coscienza in generale (Bewusstsein überhaupt), intersoggettività (das Gleiche für jeden Verstand), intelletto puro che lascia fuori di sé ogni sorta di condizionamento psicologico (Bewusstsein als Dasein) e ogni dimensione che trascenda l’orizzonte oggettivo dischiuso dall’anticipazione ipotetica, e percorso dal metodo che ha provocato la presenza dell’oggetto.10

Ma oltre la coscienza intersoggettiva esiste, sottolinea Jaspers, anche una possibilità coscienziale oltrepassante, perché pensa oltre (über-hinaus-denkt) l’orizzonte dell’oggettività circoscritto dal sapere anticipante. È la possibilità della coscienza assoluta che, sciolta dai limiti propri di ogni anticipazione, non dispone l’ente, ma si dispone alla manifestazione dell’essere: “absolute Bewusstsein ist Bewusstsein des Seins”.11 Di questa coscienza la scienza non si occupa. E come potrebbe se il suo intento è di com-prendere ciò che tutto comprende, di tradurre l’Umgreifende in concetto (Begriff)?

Con la nascita del concetto, con Socrate quindi, e con Platone che al concetto fornisce il suo oggetto (l’idéa) si chiude il periodo assiale e si dischiude l’Occidente, quell’epoca in cui il pensiero, a giudizio di Jaspers, muta forma, abbandona la philousía (amore per l’essere) per la philosophía (amore per il sapere), finché, con l’età moderna, abbandona anche la filosofia per la sophía, ovvero per quel sapere che è possesso e, mediante l’applicazione, potenza. A questo punto la volontà di verità cede via via il terreno alla volontà di potenza che, scrive Jaspers, nella sua tensione illimitata, pretende di assicurarsi l’incondizionato:

La meta finale sarebbe raggiungibile se, al di là di tutte le cose definite, si arrivasse all’incondizionato; al di là di tutti gli scopi nominabili, per i quali si possa sempre richiedere un perché, si cogliesse lo scopo finale; se al di là di ogni bene determinato si cogliesse il Bene stesso. Quando Platone cerca i concetti universali nelle determinazioni definite, egli non vuole ottenere determinazioni concettuali qualsiasi di tipo relativamente esatto, ma, con il linguaggio di questi concetti, cerca sotto l’idea dell’incondizionato, non più questionabile né oltrepassabile, un linguaggio parlato da questo stesso incondizionato. Questa è la ragione per cui tutte le determinazioni concettuali finite naufragano in vie senza uscita (aporie). In queste aporie il senso della meta è tanto più decisamente avvertito quanto meno chiaramente saputo.12

Al sapere scientifico che tutto condiziona sfugge l’incondizionato. A esso l’Umgreifende resta non solo incompreso (unbegriffene), ma addirittura incomprensibile (unbegreifbare), perché, di fronte all’ente, il pensiero scientifico non coglie la manifestazione dell’essere, ma l’oggetto della sua provocazione. L’ente per la scienza non è più la cifra, il sýmbolon che esprime il patto amicale tra l’uomo e l’essere, ma ciò che sta di contro al soggetto come sua alterità. “Questo altro,” dice Jaspers, “può essere in me o fuori di me. Non è comunque me stesso”,13 e così anche l’essenza dell’uomo, il me stesso (Selbst), che si conosceva come apertura all’essere, coscienza dell’essere (Bewusst-sein), ora si conosce come dominatore dell’ente, se non addirittura dominato dall’ente. E se proprio in questo dominare, essendone dominati, fosse nascosto il senso ultimo dell’alienazione?

A questa domanda sarà possibile rispondere dopo aver seguito il destino tecnico della scienza e l’imporsi di questo destino come razionalità intrascendibile, la cui potenza è nella pre-potenza, ovvero nella posizione anticipata di sé come orizzonte in cui solamente trovano senso e giustificazione uomini, azioni e cose.

Come un tempo la phýsis era pensata prima della nascita degli uomini e degli dèi, così ora la razionalità è pensata prima di ogni evento che alla razionalità si appella per trovare senso e significato. La ragione, cioè, subentra all’essere nella funzione ontologica (Heidegger) o periecontologica (Jaspers) di rendere significante l’ente, che così consuma la sua separazione dall’essere, infrange il patto amicale (la “cifra”), per farsi accogliere nell’orizzonte anticipato dalla ragione. In questa anticipazione è l’essenza della pre-potenza della ragione.

Alla prepotenza della ragione Jaspers perviene seguendo la natura possessiva (im Besits zu nehmen) del pensiero scientifico, che ha la sua radice nella volontà di potenza (Machtswille), che fin dalle origini sollecita il pensiero come sapere (Denken als Wissen). Heidegger vi perviene seguendo la natura pro-vocatoria (heraus-fordern) del sapere scientifico e la sua inevitabile destinazione tecnica.

Di per sé la scienza non cessa di proclamare il suo disinteresse per l’elaborazione della cosa, la stessa definizione che essa propone di sé come “teoria del reale”14 sembrerebbe confermarlo. In realtà la scienza elabora l’ente perché lo oggettiva, lo quantifica, lo pro-voca, nel senso che lo chiama alla presenza in quell’orizzonte oggettivo che essa ha anticipatamente pre-disposto. L’apparire dell’ente non è più opera della phýsis, érgon della sua enérgheia, ma opera (Werk) della realizzazione (Wirken) scientifica che pro-duce l’ente, nel senso che, pro-vocandolo, lo conduce davanti a sé, e, ponendoselo di contro, lo nomina oggetto (Gegen-stand, ob-jectum).

L’oggettività è elaborazione scientifica, è manipolazione della cosa. Oggettivare significa sottrarre l’ente alla phýsis, che è quel fare che pone in essere (ktízo, da cui thésis) l’ente, per sottoporlo alle ipo-tesi che ne condizionano le modalità dell’apparire. Nella scienza l’ente non appare così come è, ma come le ipotesi lo attendono. In questa attesa anticipata è il pre della pre-potenza della ragione scientifica.

La natura prepotente della ragione si rivela già nella traduzione latina di enérgheia con actus, che fa dell’érgon non più ciò che si presenta, ma ciò che consegue a una actio intesa come operatio. L’érgon diventa così il prodotto di un’azione che opera intenzionalmente, diventa l’effetto di una causa. Quando poi, nell’età moderna, la causa è posta nel sistema ipotetico delle anticipazioni matematiche, la realtà viene a coincidere con la certezza soggettiva che determina le modalità dell’apparire in base alle ipotesi anticipate. I dati di fatto, a cui fa riferimento la scienza come all’intrascendibile (Unüberschreitbare), sono appunto il prodotto di quel fare anticipante che determina il modo di darsi, di offrirsi, di presentarsi del reale.

Dire che la scienza si attiene solo ai dati di fatto significa semplicemente che la scienza considera reale solo ciò che si dà nelle modalità attese da quel fare operativo che è proprio delle ipotesi. Dire che la scienza è esatta significa che la scienza non si prende cura della verità (alétheia), ma solo di ciò che sortisce (es-) dalla sua attività (-atto). Come “teoria del reale” la scienza non contempla (theáomai) il reale, ma controlla se il reale osserva le ipotesi anticipate, se il reale corrisponde al trattamento a cui è stato sottoposto dalle ipotesi. Sarà per questo, scrive Heidegger, che:

La traduzione tedesca di “contemplatio” (contemplazione) è Betrachtung. [...] “Trachten” equivale al latino tractare, trattare, elaborare. “Nach etwas trachten” significa: operare per raggiungere qualcosa, perseguirlo, tendergli insidie per poterselo assicurare. In questo modo la teoria come contemplazione diventa l’insidiante-assicurante operare nel reale.15

In ciò è l’essenza operativa della scienza. Il suo operativismo la esclude dalla vita teoretica (bíos theoretikós) e la riconduce tra le espressioni della vita pratica (bíos pragmatikós) prima ancora del suo impiego tecnico. Anzi la scienza può produrre e di fatto produce la tecnica perché la sua essenza non è contemplativa ma fin dall’inizio produttiva.16 La scienza infatti produce l’oggettività, e così facendo si sostituisce all’essere nella presentazione dell’ente. Va da sé che l’affermarsi della ragione scientifica come ultimo lógos implica da un lato lo smarrimento del senso dell’essere e dall’altro lo smarrimento dell’essenza dell’uomo in quanto apertura all’essere.

Se oggi l’uomo non sa riconoscersi se non affacendato tra le cose, nella più disperata assenza di senso,17 è perché, da espressione di vita teoretica (bíos theoretikós) che guarda (oráo) ciò che aprendosi si dispiega (théa), s’è ridotto a espressione di vita pratica (bíos pragmatikós), a cosa (prâgma) tra le cose, apprezzato solo per la sua capacità produttiva. Ancora una volta riappare l’essenza dell’alienazione che invoca un superamento. Ma, lontani dall’essere, da dove può giungere l’indicazione della via del superamento?

Di solito il superamento è tentato nella direzione della cultura. In questa società, che in ordine alla produzione ha organizzato anche il tempo libero, si ha sete di cultura. Ma la cultura a disposizione è la cultura che si è affermata nell’assenza dell’essere, una cultura (Bildung) che non sa far altro che indicare modelli (Vor-bild), guardando i quali si stabilisce che cosa fare e non fare. Ancora prassi quindi, ancora assenza di senso.

Nel senso (Sinn) si può entrare solo con la meditazione (Be-sinnung) che in Occidente è, fra le possibilità umane, la più desueta, la meno familiare, perché la cultura ha familiarizzato con l’ente che la scienza ha prodotto e la tecnica ha messo a disposizione. Non si favorisce la meditazione offrendo oggetti da meditare. Nella nostra situazione la meditazione è possibile solo trascendendo l’oggettività in cui la razionalità scientifica e la cultura che la esprime ci hanno situati. Per questo è necessario de-situarsi, se non altro per comprendere il senso della situazione, che resta incomprensibile a chi rimane circoscritto, e non sa trovare forma più alta di pensiero che non sia quella di “adattarsi alla situazione”.

De-situarsi significa per Jaspers spezzare il “compreso (Begriffen)” in vista dell’incomprensibile che è tale perché tutto comprende (Umgreifende), mentre per Heidegger significa spezzare la situazione manifesta (o manifestata dalla scienza) che consente l’accesso a tutte le cose, in vista della situazione latente che, per chi si attiene nella clausura della situazione manifesta, è l’inaccessibile (das Unumgängliche). Ma, si domanda Heidegger:

Perché chiamiamo inaccessibile la situazione latente? Perché in quanto latente non attira l’attenzione. Può anche essere sotto gli occhi, eppure non è considerata. [...] Diremo allora che lo stato che domina l’essenza della scienza, cioè della teoria del reale, è l’inaccessibile inaggirabile che passa costantemente inosservato (das stets übergangene unzugägliche Unumgängliche).18

1 Cfr. il capitolo 52: “Hegel e la ragione assoluta”.

2 Cfr. il capitolo 24: “Platone e il giogo dell’idea”.

3 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807); tr. it. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I, Parte IV A: “Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza. Signoria e servitù”, pp. 153-164.

4 Platone, Teeteto, 155 d: “Infatti è tipico del filosofo l’esser pieno di meraviglia. Il principio della filosofia non è altro che questo”. Riprendendo questo motivo platonico Aristotele, nella Metafisica, Libro I, 982 b, scrive: “Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia”.

5 K. Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte (1959); tr. it. Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1965, p. 45.

6 Ivi, p. 90.

7 K. Jaspers, Von der Wahrheit, Piper, München 1947, p. 1.

8 Id., Die grossen Philosophen (1957); tr. it. I grandi filosofi, Longanesi, Milano 1973, p. 343.

9 All’opposizione delle due volontà K. Jaspers ha dedicato pagine significative in Von der Wahrheit, cit., pp. 594-599.

10 Id., Philosophie (1932-1955); tr. it. Filosofia, Utet, Torino 1978, pp. 118-126.

11 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 175. A proposito delle tre forme di coscienza segnalate da Jaspers (Bewusstsein als Dasein, Bewusstsein überhaupt, absolute Bewusstsein) si vedano le pp. 53-70, 170-189, e in traduzione italiana nella raccolta antologica che ha per titolo: Sulla verità, La Scuola, Brescia 1970, capitolo 5: “La coscienza nelle sue tre accezioni”, pp. 36-50.

12 Id., I grandi filosofi, cit., p. 344.

13 Id., Von der Wahrheit, cit., p. 176.

14 M. Heidegger, Wissenschaft und Besinnung (1953); tr. it. Scienza e meditazione, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 29.

15 Ivi, pp. 34-35.

16 Sul carattere “produttivo” e non “contemplativo” della scienza, rispetto alla quale la tecnica non ne è l’applicazione, ma l’essenza, si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 39, § 2: “La strumentazione scientifica e il calcolo del mondo”.

17 Si veda in proposito ivi, capitolo 54, § 2: “Il crollo del regno dei fini e la caduta del senso”.

18 M. Heidegger, Scienza e meditazione, cit., pp. 41-42.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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