65.

Marx: ragione e alienazione

Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengano dotate di vita spirituale e l’esistenza umana avvilita a forza materiale. [...] L’umanità diventa signora della natura, mentre l’uomo diventa schiavo dell’uomo o schiavo della propria infamia.

K. MARX, Die Revolution von 1848 und das Proletariat (1866), in MEGA, vol. X, p. 42.

Deciso dal totalitarismo della ragione e impotente di fronte all’esito nichilista che si prospetta, l’uomo, che s’è sottratto all’essere per essere presso di sé, si ritrova lontano da sé, alienato nel sistema della ragione che trascende ogni sua possibilità di controllo.

L’essenza dell’alienazione è nella natura scientifica della razionalità che tutto presiede. Infatti, prima dell’avvento della scienza, l’uomo si prendeva cura delle cose come di mezzi a sua disposizione. Il loro senso era custodito nella loro disponibilità ai fini che l’uomo di volta in volta si proponeva. Accogliendo in sé il senso di tutte le cose, l’uomo era alienato perché dimentico dell’essere, apertura della sua e-sistenza, ma non avvertiva questa alienazione perché suppliva la lontananza dell’essere con la prossimità delle cose a sua disposizione.

L’avvento della scienza e poi della tecnica elimina ogni determinazione finalistica, compresa quella che prevede l’uomo quale fine di tutte le cose. Queste, sottratte al finalismo antropologico, sono considerate in se stesse, il loro valore non è più misurato dal loro impiego (valore d’uso), ma dalla loro permutabilità con le altre cose (valore di scambio).

Quando lo scenario era caratterizzato dal primato della natura, l’insieme degli strumenti era funzionale alla produzione dei beni, e questi erano funzionali alla soddisfazione dei bisogni umani. L’uomo era il fine, mentre l’ordine degli strumenti e i beni da questi prodotti erano mezzi volti a garantire le condizioni d’esistenza dell’uomo. Questa è la ragione per cui i beni, prodotti dall’insieme degli strumenti, vengono denominati da Marx valori d’uso, dove esplicita è quella destinazione finalistica che li subordina alla soddisfazione dei bisogni umani, scopo ultimo del processo lavorativo che Marx così definisce:

Il processo lavorativo è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana.1

Quando al primato della natura subentra il primato del mercato, il finalismo immanente al lavoro, che è fruitivo perché produttivo di valori d’uso, viene abolito. Separandosi dal fruire, il produrre non mette più capo a valori d’uso, ma a valori di scambio, il cui “valore” non risiede nella loro capacità di soddisfare bisogni, ma nella loro capacità di permutarsi con altri beni, secondo quelle leggi di mercato che, nella produzione dei beni, si sostituiscono alle leggi di natura.

Nel mercato, infatti, il bene, che inizialmente serviva per la soddisfazione dei bisogni, serve per la produzione di denaro, e quando l’ordine dei bisogni non è più funzionale alla produzione di denaro, è la soddisfazione dei bisogni e non la produzione di denaro a essere sacrificata.2 In questo modo “il ricambio organico tra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana” viene distorto, e la deviazione dalla razionalità, che connetteva il produrre al fruire, è chiamata da Marx: alienazione.

Prima di essere la “condizione infelice” del lavoratore in una logica di mercato, l’alienazione è per Marx la distorsione della razionalità della prassi che prevede la subordinazione del produrre (mezzo) al fruire (fine), mentre in una logica di mercato il produrre diventa lo scopo a cui il fruire resta subordinato.

Alienazione allora è il capovolgimento dei mezzi in fini, è l’autonomizzarsi dei mezzi dai fini a cui erano subordinati. Non più la natura come referente della prassi umana, ma il mercato; non più il bisogno come fine dell’attività lavorativa, ma il prodotto e la sua scambiabilità in vista della sempre maggior acquisizione di denaro. Qui assistiamo al primo grande capovolgimento del mezzo in fine. Il denaro, che è mezzo per produrre beni e soddisfare bisogni, diventa il fine in vista del quale si producono beni e, solo se la cosa concorre a questo scopo, si soddisfano bisogni.

Il risultato più evidente di questo capovolgimento è il disincanto del mondo che, sottratto a ogni considerazione finalistica, richiede una nuova definizione che tenga presente quella reificazione per cui la cosa (res) vale in se stessa e non in quanto mezzo per la soddisfazione di un bisogno.

Abolendo i fini e autonomizzando quelli che, al tempo del primato della natura, erano i mezzi, la logica del mercato dischiude quello scenario che prevede il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore perché, in un processo di totale reificazione, è la cosa a definire l’uomo, che così risulta oggettivato e istituito dal genere della propria attività. Questa, a sua volta, non è più ricambio organico con la natura, ma pura produzione di merci, che non solo conducono vita autonoma rispetto ai bisogni umani, ma definiscono, attraverso la loro circolazione, il senso dell’attività umana e il valore delle cose.3

Nell’oggettivazione di uomini e cose la provocazione scientifica realizza compiutamente se stessa. Assecondandola, l’uomo passa dall’alienazione, rappresentata dalla cura esclusiva dell’ente nella dimenticanza dell’essere, alla sua radicalizzazione che prevede, sempre per la cura dell’ente, anche la dimenticanza dell’uomo.

Questo paradossale rovesciamento (determinato dall’autonomizzazione dell’ente che, da mezzo al servizio dell’uomo è diventato esso stesso fine o fine a se stesso, con la conseguente subordinazione dell’uomo) caratterizza l’intera civiltà moderna, le cui istituzioni e organizzazioni sono a tal punto “razionalizzate” in vista dell’accumulo dell’ente, da essere ora loro a rinchiudere e a determinare, come in un guscio (als Gehause, dice Jaspers), l’uomo che si è organizzato e inquadrato in esse. Il comportamento umano, che ha dato origine a tali istituzioni nell’intento di poter disporre “più razionalmente” dell’ente, deve ora conformarsi a quanto da esse scaturisce.

Questo rovesciamento, che Marx chiama “dominio delle cose sull’uomo”, ovvero dominio dei mezzi sul fine, rappresentato dalla soddisfazione dei bisogni, si manifesta in modo decisivo nello scenario economico, dove, meglio che altrove, si esprime quella razionalità che ha ridotto tutte le cose al loro valore di scambio, dopo averle sottratte a quella visione del mondo che le definiva in funzione del loro uso.

Rispetto a quel tipo di razionalità che giustificava se stessa in funzione di un fine, la nuova razionalità, promossa dall’autonomizzazione dei mezzi, rovescia la razionalità precedente nell’irrazionalità di rapporti autonomi e autocratici, giunti ora a dominare il comportamento umano. L’assoluta organizzazione razionale dei rapporti d’esistenza fa sorgere da sé l’irrazionale autocrazia dell’organizzazione, che però è perfettamente “razionale”, cioè conforme alla nuova considerazione dell’ente non più come strumento, ma fine a se stesso.

Tutto l’impegno teorico e pratico di Marx mira a chiarire e a distruggere questo tipo di razionalità, per la quale la cosa domina l’uomo, il prodotto, di qualsiasi genere, domina il produttore, per cui la società non risulta più composta da uomini, ma da “svolgenti funzioni”, specialisti definiti dalla corrispondente attività lavorativa.

Nell’identificazione dell’uomo con la sua funzione si realizza un’effettiva “in-umanità” nei rapporti d’esistenza, che non riguardano più l’uomo come tale, ma la sua dimensione lavorativa. L’uomo, cioè, non conta per ciò che è, ma per ciò che fa; non ha in sé il fondamento del proprio essere, ma altrove, nella cosa prodotta. Se diamo, come fa Marx, il nome di merce alla cosa, in quanto prodotto dell’attività lavorativa, ebbene l’essenza dell’uomo è alienata nella merce, che a questo punto assume il carattere ontologico che definisce uomini e cose. Scrive in proposito Marx:

L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra gli oggetti esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovra-sensibili, cioè cose sociali. [...] Quindi, non più rapporti immediatamente sociali tra persone, ma rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose.4

Nel Dibattito sulla legge contro i furti di legna, Marx osserva che la punizione di chi sottrae la legna a chi la possiede è una punizione umanamente giusta e non soltanto giuridicamente corretta, solo se chi possiede la legna si considera “uomo” in quanto possessore di legna, in quanto, cioè, ha di sé, come uomo, questa autocoscienza “ristretta e particolare”, e se l’altro, di conseguenza, non viene considerato come “uomo”, ma soltanto in quanto “ladro di legna”.

Diversamente la punizione, giuridicamente corretta, non è umana, a meno di non ridurre, come di fatto si riduce, l’essenza dell’uomo al possesso della legna, una cosa morta, una “potenza oggettiva”, qualcosa di inumano che però decide le sorti dell’uomo. Certo dell’uomo che si riconosce nella legna, ma questa è la condizione a cui si è giunti autonomizzando i mezzi (i prodotti) dai fini (i bisogni), con conseguente subordinazione degli uomini alle cose. Per questa ragione, osserva Marx: “Gli idoli di legno possono vincere, e le vittime umane venir sacrificate”.5

Ma l’autonomizzarsi dei mezzi dai fini non modifica solo il modo di concepire l’uomo (che ne è determinato quanto al suo essere, al suo comportamento e alla sua reificazione), ma anche il modo di concepire le cose. Se infatti qualcosa come la legna viene a determinare l’essere e l’agire dell’uomo, allora vuol dire che la legna non è più considerata come “legna da ardere”, come qualcosa al servizio dell’uomo, ma, abbandonata la sua natura di “mezzo”, viene resa autonoma dalla logica di mercato ed elevata a misura dell’uomo. I rapporti umani si materializzano perché la materia si impadronisce dell’uomo e lo definisce. Questa e non altra è la vera essenza del materialismo e dell’alienazione materialistica dell’uomo, a proposito della quale Marx scrive:

Questo abietto materialismo, questo peccato contro lo spirito santo dei popoli e dell’umanità è una conseguenza immediata predicata dal legislatore dalla “Gazzetta ufficiale prussiana”, cioè la dottrina secondo cui, trattandosi di una legge forestale, si debba pensare esclusivamente alla legna e alla foresta, invece di risolvere il singolo problema materiale politicamente, cioè in connessione con tutta la razionalità e la moralità dello Stato.6

Per superare l’“abietto materialismo” non basta una più razionale distribuzione della legna, perché il conseguimento di uguali possessi è ancora un’espressione di quell’universale alienazione che colloca nel possesso delle cose e nella loro scambiabilità il valore delle stesse e il senso dell’agire umano.

Ma se l’essenza dell’alienazione consiste nel fatto che la razionalità del sistema costringe l’uomo a “pensare soltanto alla legna e alla foresta”, dall’alienazione si potrà uscire solo abbandonando la razionalità del sistema, che determina nell’uomo una simile autocoscienza “ristretta e particolare”, e non già, come vuole Marx, inserendosi “in connessione con tutta la razionalità”, perché questo vuol dire attendere la salvezza dall’alienazione proprio da ciò che l’ha determinata.

A determinare l’alienazione, infatti, non è stato questo o quest’altro tipo di razionalità, ma la razionalità come tale, la sua pre-potenza che, razionalizzando la potenza conseguita dall’uomo sull’ente, ha creato strutture e rapporti d’esistenza tali da costringere l’uomo a riconoscersi solo nel possesso e nel dominio dell’ente, che così è divenuto la ragione del suo essere.

Per questo nella società ci sono solo possessori e ladri di legna, perché la razionalità del sistema, come dice bene Marx, “esorta a pensare solo alla legna”. Un pensiero da cui non ci si libera con una più equa distribuzione, perché anche in questo caso si rimarrebbe prigionieri di quella più radicale alienazione che colloca nel possesso dell’ente la ragione dell’uomo. Di questo Marx era perfettamente consapevole e perciò, ne La sacra famiglia, criticando Proudhon, afferma che:

L’idea dell’uguaglianza dei possessi è l’espressione in termini di economia politica e quindi ancora alienata, del fatto che l’oggetto, in quanto essere per l’uomo, in quanto essere oggettivo dell’uomo, è nello stesso tempo l’esistenza dell’uomo per l’altro uomo, la sua relazione umana con l’altro uomo, il comportamento sociale dell’uomo verso l’altro uomo. Proudhon toglie l’alienazione, espressa nei termini dell’economia politica, rimanendo nell’ambito dell’economia politica in quanto alienazione.7

Risolvere il problema dell’alienazione dell’uomo rimanendo nell’ambito dell’economia politica significa risolverlo a un livello inessenziale, limitato al superamento della divisione del possesso, mentre la causa dell’alienazione è nella divisione del lavoro, il cui superamento consente di universalizzare non soltanto il possesso, ma anche la realtà umana in tutte le sue manifestazioni. Ora è proprio questa realtà umana che deve essere tenuta presente quando si parla di alienazione, perché l’essenza dell’alienazione non è nell’estraneità della cosa, superabile con il suo possesso, ma nell’estraniarsi degli uomini nelle cose, al punto che, scrive Marx:

Gli uomini finiscono per comportarsi, di fronte ai loro prodotti, in modo da perdere il controllo dei loro reciproci rapporti; con la conseguenza che i prodotti si rendono autonomi di fronte a essi e la potenza della loro vita acquista la supremazia su di essi.8

Dunque è nella pre-potenza della ragione l’essenza dell’alienazione, quella prepotenza che si esprime nella razionalizzazione dei rapporti umani che, sottratti alla libera scelta e resi autonomi, sono predisposti come rapporti di classe che condizionano ogni possibile comportamento. Ma, si chiede Marx:

Come mai nel processo che porta gli interessi volontari a rendersi autonomi come interessi di classe, il comportamento personale dell’individuo deve materializzarsi e alienarsi? A causa della divisione del lavoro, il cui grado dipende dalla forza produttiva di volta in volta sviluppata.9

Infatti, commenta Engels nell’Antidühring:

Originariamente un carrettiere differisce meno da un filosofo che non un cane da guardia da un levriero. È stata la divisione del lavoro ad aprire tra loro un abisso.10

Ma la divisione del lavoro è a sua volta una conseguenza della prepotenza della ragione che, per normalizzare la produzione e garantire così l’efficienza del sistema, ha condotto all’identificazione dell’uomo con la sua attività produttiva e quindi all’alienazione della sua essenza nel prodotto. A questo punto la sorte umana resta subordinata alla sorte della merce, e perciò Marx può scrivere:

Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengano dotate di vita spirituale e l’esistenza umana avvilita a forza materiale. [...] L’umanità diventa signora della natura, mentre l’uomo diventa schiavo dell’uomo o schiavo della propria infamia.11

L’infamia consiste nel fatto che, per effetto della “razionalizzazione”, l’uomo è dominato dalla merce, che è l’espressione economica dell’autoalienazione, e che, elevata a “feticcio”,12 risolve in sé ogni possibile relazione sociale fra gli uomini. Ciò è possibile perché ogni genere di bene non viene prodotto e scambiato per l’uso che se ne può fare o per il bisogno che soddisfa, ma perviene sul mercato come merce, divenuta autonoma rispetto ai bisogni di chi la produce e di chi la vende, di chi la compra e di chi la consuma.

Con l’autonomizzazione della merce si smarrisce l’identità ontologica delle cose, perché, in quanto merce, un mercato di bestiame non differisce da un mercato librario, un bene materiale da uno spirituale. Negli oggetti-merce, inoltre, si risolvono tutti i possibili rapporti sociali tra gli uomini, perché l’uomo entra in relazione con l’altro uomo in quanto “produttore”, “venditore”, “acquirente”, “consumatore” di merci. In questo modo la sua esistenza non dipende dalla propria attività lavorativa, ma dal valore autonomo delle merci, in un mercato che segue leggi proprie ed esprime in denaro il valore di tutte le cose.

Ciò che si può cambiare è il prezzo della merce, ma non la natura di merce degli oggetti d’uso in quanto tali. Con il suo permanere, permane l’alienazione dell’uomo nella merce e quindi la subordinazione della sorte umana alla sorte della merce, decisa a un livello (il mercato) immunizzato da ogni possibile intervento umano, perché segue le proprie leggi che non tengono conto dei bisogni dell’uomo, ma appunto delle esigenze del mercato.

Muovendo da queste considerazioni Marx sviluppa la possibilità di un futuro ordinamento sociale comunista che non prevede una semplice equa distribuzione delle merci, ma una soppressione del mondo delle merci, che risolve in sé ogni possibile rapporto umano, affinché, con il ritorno dal carattere di merce al carattere di bene fruibile, o che è lo stesso, dal valore di scambio al valore d’uso, il bene cessi di dominare l’uomo, e da feticcio ritorni a essere strumento al suo servizio. Solo così l’uomo potrà recuperare le proprie naturali relazioni umane, attualmente alienate dalla razionalità del sistema, in oggettive relazioni merceologiche.

Nell’analisi marxiana la razionalità del sistema coincide con la razionalità del sistema borghese, per cui il superamento dell’alienazione non prevede il superamento della pre-potenza della ragione, ma semplicemente il superamento della potenza della borghesia, che rende prepotente la razionalità del sistema che presiede.

Nella società borghese, infatti, l’uomo è innanzitutto un privato che nasconde a se stesso il proprio carattere sociale; e la società che lo accoglie, in quanto difende e tutela la condizione privata, è nell’impossibilità di esprimersi come società politica. Ogni tentativo in tal senso implica infatti una scomposizione dell’uomo vivente in una esistenza privata e in una pubblica, determinando così un’evidente autoalienazione del borghese che, essendo per sé un privato, in quanto cittadino dello Stato è necessariamente qualcosa d’altro, di esteriore, di estraneo a sé, così come la sua vita privata è estranea allo Stato. Quest’ultimo non può fare a meno di costituirsi come Stato amministrativo, razionalizzato burocraticamente, e quindi astratto, perché prescinde dalla vita reale, cioè privata dei suoi cittadini, così come questi, uomini privati, prescindono da esso.

L’emancipazione umana dall’alienazione sociale non può avvenire a opera dei borghesi che, per definizione, sono socialmente alienati, ma da quella classe, il proletariato, la cui prerogativa è quella di essere una società fuori dalla società. L’essere-fuori dalla società, scrive Marx:

Consente al proletariato di costituirsi come una classe che non può emancipare se stessa se non emancipa tutte le restanti classi, una classe che, rappresentando la perdita totale dell’uomo, può conquistare se stessa solo attraverso la completa riconquista dell’uomo.13

Nei confronti della pre-potenza della ragione, la condizione della classe proletaria non consiste nell’essere più o meno alienata rispetto alla classe agiata, perché sia l’una sia l’altra esprimono la stessa alienazione, che consiste nel non essere presso di sé, ma presso la merce che le definisce. La differenza, come osserva Marx, consiste nel fatto che la classe agiata si trova a suo agio in questa alienazione di cui non possiede una precisa coscienza, mentre il proletariato vi si trova suo malgrado, perché è cosciente di essere la personificazione della merce, in quanto la sua esistenza consiste esclusivamente nel semplice collocare e vendere la propria forza lavoro.

Il proletariato poi, oltre a essere “cosciente della propria disumanizzazione”,14 vive nella società borghese come escluso, in quanto non ha nulla di privato da difendere all’infuori della sua forza lavorativa, che è l’unica cosa che possiede, ma solo per alienare e vendere. Come soggetto cosciente dell’alienazione, ed escluso dalla società, il proletariato è l’unico in grado di demolire “il feticcio merce” e lo stato borghese che, difendendolo, mantiene l’alienazione universale che coinvolge sia i servi sia i signori.

Il compito del proletariato non è quindi un compito di classe, ma una missione universale, perché il riscatto dall’alienazione non riguarda solo i membri della classe proletaria, ma l’uomo in generale che, riscattato, non si definisce più in funzione della merce e tanto meno dello Stato che ne difende il privato possesso.

La razionalità del sistema, fondato sulla reificazione dell’uomo dominato dalla cosa (res) e definito come produttore dal prodotto e come lavoratore dal lavoro compiuto, si scompone e si dissolve a opera dell’evento rivoluzionario che è in grado di ricondurre l’uomo dall’alienazione merceologica alla dimensione umana, mediante la riduzione dell’ente da merce-feticcio, fine a se stesso, a mezzo a disposizione dell’uomo.

1 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie (1867-1883); tr. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1964-1968, Libro I, capitolo V, p. 218.

2 Questa “inversione dei mezzi in fini” è ben descritta da E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989, capitolo V, § 3, p. 69: “Gli strumenti sono mezzi per la realizzazione di scopi. Ma hanno la tendenza a diventare scopi essi stessi. [...] Inizialmente, il denaro è un mezzo per entrare in possesso di merci – e tale possesso, e il correlativo consumo, sono lo scopo del processo economico; in seguito, il denaro diventa lo scopo di tale processo, cioè la produzione di merci diventa il mezzo per possedere quantità sempre maggiori di denaro. In generale: gli strumenti servono inizialmente a soddisfare dei bisogni; poi i bisogni servono a possedere e a usare gli strumenti; e quando il sistema dei bisogni ostacola in qualche modo il sistema degli strumenti, è il primo sistema, non il secondo, a essere modificato”.

3 Per un approfondimento di questa tematica si veda U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica (1999), Feltrinelli, Milano 2002, capitolo 41: “Il mondo della tecnica e la reificazione dell’uomo”.

4 K. Marx, Il capitale, cit., Libro I, capitolo I, pp. 104-105.

5 Id., Debatten über das Holzdiebstahlgesetz (1842); tr. it. Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, in Marx Engels Opere Complete (d’ora innanzi: MEOC), Editori Riuniti, Roma 1980, vol. I, p. 264.

6 Ivi, p. 263.

7 K. Marx, F. Engels, Die heilige Familie oder Kritik der kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Consorten (1845); tr. it. La sacra famiglia. Ovvero critica della critica contro Bruno Bauer e soci, in MEOC, cit., 1972, vol. IV, p. 45.

8 Id., Die deutsche Ideologie. Kritik der neuesten deutschen Philosophie in ihren Repräsentanten Feuerbach, B. Bauer und Stirner, und des deutschen Sozialismus in seinen verschiedenen Propheten (1845-1846, inedita fino al 1932); tr. it. L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, in MEOC, cit., 1972, vol. V, p. 72.

9 Ivi, p. 79.

10 F. Engels, Herrn Eugen Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft (“Anti-Dühring”) (1878); tr. it. Antidühring, in MEOC, cit., 1974, vol. XXV, p. 92.

11 K. Marx, Die Revolution von 1848 und das Proletariat (1866), in Marx-Engels Gesamtausgabe (d’ora innanzi MEGA), Frankfurt a.M.-Moskva, 1927-1935, vol. X, p. 42.

12 Id., Il capitale, cit., Libro I, capitolo I, § D, 4: “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”, pp. 103-115.

13 K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei (1848); tr. it. Manifesto del parito comunista, in MEOC, cit., 1973, vol. VI, p. 506.

14 Id., La sacra famiglia, cit., p. 37.

Il tramonto dell'Occidente. Nella lettura di Heidegger e Jaspers
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