Era una notte calda e afosa di fine giugno. L’ombra scura, un cappuccio nero calato in testa, si muoveva velocemente, avanzando nelle tenebre senza fare il minimo rumore. Strisciava sul vialetto stretto e sporco, per non ferirsi con i rami sporgenti dei cespugli. Era come se l’oscurità si riversasse silenziosamente nel mondo superando la cortina di foglie.
Gli alberi alti e maestosi lasciavano intravedere solo una sottile striscia del cielo notturno, lo smog della città avvolgeva il sottobosco in una nube di leggera foschia. La sagoma esile raggiunse il dirupo sulla destra e si fermò all’istante: restò immobile, senza fiato, con il cuore che batteva all’impazzata.
Una luce intermittente illuminò i dintorni di blu e bianco, mentre il treno delle sette e trentanove per London Bridge sfrecciava rapido lungo i binari. L’ombra si abbassò quando i vagoni vuoti e luminosi le sfrecciarono davanti. Due lampi e il treno era sparito, facendo ripiombare la vegetazione nell’oscurità.
La sagoma ripartì alla svelta, seguendo senza far rumore la curva del sentiero che si allontanava dai binari. Gli alberi sulla sinistra si facevano sempre più radi, rivelando una fila di case a schiera. I cortili sul retro scorrevano avanti come diapositive: strisce scure, identiche tra loro, con i mobili da giardino, i capanni degli attrezzi e le altalene – tutto perfettamente immobile nell’oscurità della notte.
Alla fine la vide. Una villetta vittoriana a tre piani, del tutto identica alle altre case del quartiere, a parte il piano terra, che era stato ampliato con una veranda di vetro. L’ombra esile sapeva tutto del proprietario di quel posto. Conosceva le sue abitudini e, cosa più importante, sapeva che quella notte sarebbe stato solo.
Si fermò in fondo al cortile. Un albero enorme era cresciuto intorno alla recinzione che si affacciava sul sentiero. In un punto aveva inglobato il metallo, il legno ricurvo mordeva i pali arrugginiti come una grande bocca senza labbra. La chioma folta si espandeva come un’aureola, nascondendo la ferrovia. Un paio di notti prima l’ombra, percorrendo quella stessa strada, aveva reciso con cura una parte della recinzione, poi l’aveva risistemata in modo che il proprietario non si accorgesse di nulla. E ora venne via in un battibaleno. La sagoma oltrepassò il varco con facilità. L’erba era secca, non pioveva da settimane e il terreno era arido. Si tirò in piedi e si nascose dietro l’albero. Poi, con un unico movimento fluido, attraversò il cortile, come una nube di fumo nero.
L’unità esterna del condizionatore sul muro ronzava con insistenza, nascondendo il lieve scalpiccio dei suoi passi sul sentiero di ghiaia che dalla veranda conduceva alla porta. L’ombra raggiunse una bassa finestra a ghigliottina e si appostò sotto l’ampio davanzale. La luce all’interno era accesa e proiettava un quadrato giallo sui mattoni della casa vicina. Sollevando il cappuccio della felpa, l’ombra si affacciò cautamente e sbirciò dentro.
In casa c’era un uomo sui quaranta, alto e robusto, indossava pantaloni marroni e una camicia con le maniche arrotolate. Andò verso la credenza della cucina e prese un calice, versandosi un bicchiere di vino rosso. Ne prese un bel sorso e riempì di nuovo il bicchiere. Sul bancone c’era un pasto precotto – lo estrasse dalla confezione di carta e ruppe la pellicola di plastica con la punta del cavatappi.
L’ombra odiava profondamente quell’uomo. Era inebriante osservarlo, sapere cosa stava per succedere.
L’uomo programmò il microonde in cucina e sistemò la confezione. Un bip elettronico azionò il conto alla rovescia.
Sei minuti.
L’uomo bevve un altro sorso di vino e lasciò la cucina. Pochi istanti dopo, una luce si accese in bagno, proprio sopra al punto in cui era nascosta l’ombra. Il vetro si aprì di qualche centimetro, un suono stridente e acuto, poi lo scroscio d’acqua della doccia.
Con il cuore a mille l’ombra si mise subito all’opera: aprì il marsupio, tirò fuori un cacciavite e lo infilò sotto il telaio della finestra. Con un po’ di pressione la aprì. Sollevò il vetro e scivolò all’interno. Ce l’aveva fatta. Tutti i piani studiati con cura, tutti gli anni di rabbia e dolore…
Quattro minuti.
L’ombra entrò in cucina. Con una siringa di plastica spruzzò un liquido chiaro all’interno del bicchiere di vino, mescolando per bene prima di rimettere il calice al suo posto, sul bancone di granito nero.
Rimase per un secondo immobile, in ascolto, godendosi il piacevole refolo d’aria fresca del condizionatore, con le orecchie tese, pronte a captare il minimo rumore. Sotto la luce dei faretti il bancone della cucina era scintillante.
Tre minuti.
L’ombra attraversò rapidamente la cucina, superando il corrimano di legno alla base delle scale e nascondendosi in un angolo buio dietro la porta del salotto. Qualche secondo dopo, l’uomo scese dalle scale con addosso soltanto un asciugamano. Tre sonori bip annunciarono che la cena era pronta. L’uomo camminava a piedi nudi diffondendo nella stanza un odore di pulito. Si sedette a mangiare. Un tintinnio di posate, uno sgabello che veniva trascinato sul pavimento. La sagoma scura inspirò profondamente, lasciò il suo nascondiglio e salì le scale, piano, senza fare il minimo rumore.
E rimase a guardare.
E ad aspettare.
Era giunto il momento di riscuotere la ricompensa che attendeva da molto, molto tempo.