Quando Erika, Moss e Peterson arrivarono a Laurel Road, l’aria era fresca e tranquilla. Il sole si era abbassato immergendo nell’ombra tutta la fila di case accanto a quella di Munro.
Un gruppetto di uomini e donne in giacche e tailleur sbucò in fondo alla strada, i visi arrossati e sudati. Gli uomini erano in camicia, con le maniche arrotolate. Erano le cinque e trenta passate, e la prima ondata di pendolari stava tornando dal centro.
Erika suonò il campanello del civico 14 e pochi secondi dopo Estelle Munro aprì la porta. Indossava dei pantaloni chiari, una bella camicetta bianca con delle rose stampate e un paio di guanti di gomma gialla.
«Salve, signora Munro. Ci hanno detto che è sparito un certificato», disse Erika.
«Sì», fu tutto ciò che rispose. Fece un passo indietro e i tre poliziotti entrarono. Erika sentì immediatamente l’odore acidulo dei detersivi al limone mescolato a una potentissima fragranza floreale. Nonostante l’afa estiva, la casa era fresca. Le finestre erano chiuse e il condizionatore ronzava in sottofondo.
«Era nell’ufficio di Gregory», disse Estelle chiudendo la porta alle loro spalle e girando la chiave. Una serratura nuova di zecca, notò Erika – una Yale scintillante con due catenacci.
Seguirono Estelle su per le scale, salendo piano dietro l’anziana signora che respirava affannosamente.
«Come vanno le cose?», chiese Erika.
«Sto ancora pulendo il casino che hanno lasciato i vostri», disse seccamente Estelle.
«Noi cerchiamo di trattare le scene del crimine con il massimo rispetto, ma è necessaria la presenza di molte persone, e tutte nello stesso momento», disse Moss.
«E fra tutte queste persone, c’è qualcuno che sa chi ha ucciso mio figlio?»
«Stiamo seguendo diverse piste», chiarì Erika.
Arrivarono in cima alle scale. Estelle si fermò a riprendere fiato, poggiandosi una mano guantata sul fianco. Le pesanti tende alla finestra del corridoio erano state rimosse, rendendo il pianerottolo molto più luminoso.
«Quando mi ridaranno il corpo di mio figlio, ispettore Fosset?», domandò Estelle.
«Foster…».
«Perché ho un funerale da organizzare», disse Estelle, sfilandosi i guanti dito dopo dito.
«Mi dispiace ma prima di diffondere ulteriori dettagli dobbiamo controllare chi è il primo membro della famiglia di Gregory con cui affrontare le questioni organizzative», rispose Moss.
Il volto di Estelle si rabbuiò ancora di più. «Gregory era mio figlio. L’ho portato in grembo per nove mesi. Chiamerete me per prima, capito? Penny è stata sua moglie per quattro anni, io sua madre per quarantasei…». Fece un respiro profondo per riprendere il controllo. «Mi ha telefonato poi, Penny. Mi ha chiesto quando verrà rilasciata la salma. “La salma”! Non “Gregory”, non “Greg” – anche se odiava essere chiamato Greg. Penny voleva prenotare la sede della squadra di calcio di Shirley per la veglia. La squadra di calcio! Senza dubbio Gary e tutti i suoi amici hooligan ci avrebbero guadagnato sopra».
«Mi dispiace, signora Munro».
Estelle entrò in bagno e si sciacquò le mani nel lavandino. Se le stava ancora asciugando quando uscì. «Pure Gary mi ha chiamata oggi, per minacciarmi».
«Minacciarla?», chiese Erika.
«Gregory ha fatto cambiare il testamento quando lui e Penny si sono separati. Abbiamo appena scoperto che ha lasciato la casa a me e le proprietà in affitto a Peter».
«E Penny?».
Estelle le lanciò un’occhiataccia. «Penny? Si terrà il quadrilocale a Shirley. Basta e avanza. Ma Gary è stato molto aggressivo al telefono, ha detto che questa casa spetta a Penny e che io devo andarmene altrimenti…».
«Altrimenti cosa?», chiese Erika.
«Oh, andiamo, usi l’immaginazione, ispettore Fosset. Altrimenti dovrò vedermela con lui. Mi manderà qualche delinquente. Magari mi farà investire da un’auto mentre torno dal supermercato. Immagino che abbiate dato un’occhiata alla fedina penale di Gary, no?».
I tre poliziotti si scambiarono uno sguardo.
Estelle continuò: «Ho cambiato le serrature, ma sono ancora preoccupata».
«Le assicuro che Gary Wilmslow non le farà alcun male», rispose Erika.
Gli occhi di Estelle si riempirono di lacrime, cercò freneticamente un fazzoletto. Come al solito ci pensò Peterson, che immediatamente prese un pacchetto dalla tasca.
«Grazie», le disse la signora con riconoscenza.
Erika fece cenno a Moss di seguirla, lasciando Peterson a confortare Estelle Munro. Si spostarono in una piccola stanza che Gregory aveva adibito a studio.
Una pesante scrivania in legno scuro era stata infilata a forza sotto la finestra, sulle mensole al lato opposto si trovavano file e file di libri di medicina e romanzi. Erika notò che il dottor Munro aveva ben tre volumi della saga dell’ispettore Bartholomew, la serie poliziesca scritta da Stephen Linley.
«Merda!», disse.
«Che succede, capo?»
«Niente, niente…». Erika si era appena ricordata l’invito di Isaac della settimana prima: la cena era quella sera. Controllò l’orologio, erano quasi le sei.
Estelle le raggiunse, seguita da Peterson.
«Era qui», disse indicando la parete alle spalle della scrivania dove erano appese due cornici dorate. Una era piena di foto: Gregory e Penny che tagliavano la torta nuziale; Penny che reggeva un paio di occhiali da sole davanti al muso scocciato del gatto; e ancora Penny, in un letto d’ospedale con in braccio quello che doveva essere Peter neonato ed Estelle, Gary e la madre occhialuta in piedi intorno a lei in una posa imbarazzata. L’altra cornice, invece, era vuota.
«Ho chiesto a Penny se ce l’aveva lei, e per una volta credo che dica la verità», disse Estelle, indicando di nuovo la cornice vuota. «Se si fosse trattato della TV o del lettore DVD, state certi che avrebbe mentito. Ma il diploma no».
Erika si avvicinò alla cornice vuota, infilandosi un paio di guanti in lattice. La staccò dal muro, scoprendo che era molto leggera, di plastica.
«Lei non l’ha proprio toccata, signora Munro?»
«No, non l’ho toccata», rispose.
Erika si rigirò la cornice fra le mani, ma non vide nulla.
«Dovremmo far venire la scientifica a raccogliere le impronte. È un tentativo disperato, ma…».
«D’accordo, capo», rispose Moss. Prese la radio e fece partire una chiamata; subito qualcuno rispose che non c’erano tecnici disponibili.
Erika afferrò la radio. «Sono l’ispettore Foster. Mi serve qualcuno oggi, ora, il prima possibile. Abbiamo trovato una nuova prova sulla scena del crimine al civico 14 di Laurel Road, SE23».
Poi, una lunga pausa e un paio di bip.
«Abbiamo chiamato una tecnica. Verrà non appena avrà finito con un furto a Telegraph Hill. La contatto via radio e le dico di correre lì il prima possibile. Autorizza gli straordinari?», rispose la voce metallica all’altro capo della radio.
«Sì. Straordinari autorizzati», tagliò corto Erika.
«Va bene», rispose la voce.
Erika rimise la cornice al suo posto e si tolse i guanti. «D’accordo, dovremo aspettare un pochettino. Moss, tu vieni con me. Andiamo a fare qualche domanda ai vicini. Signora Munro, va bene se l’ispettore Peterson rimane qui insieme a lei?»
«Certo. Gradisce una tazza di tè, caro?», domandò Estelle.
Peterson annuì.
I vicini erano una coppia sui quarant’anni: una donna bianca di nome Marie e un uomo di colore di nome Claude. La loro casa, di fronte al civico 14, era elegante e moderna e i due davano l’idea di essere inseriti nel giro giusto. L’ingresso era ancora pieno di valigie colorate, fecero accomodare Erika e Moss in cucina. Marie prese dei bicchieri, li riempì d’acqua e ghiaccio dal dispenser del grande frigo in acciaio inossidabile. Erika bevve dei lunghi sorsi, godendosi la freschezza.
«Quello che è successo al dottor Munro ci ha scioccati», disse Marie, quando tutti si furono accomodati al tavolo della cucina. «So che in questa zona i crimini sono frequenti, ma addirittura un omicidio!». Allungò la mano verso Claude, seduto al suo fianco, e lui la strinse, rassicurante.
«Capisco perfettamente quanto tutto questo possa essere angosciante per voi. Anche se ci tengo a precisare che statisticamente i casi di omicidio sono molto rari», aggiunse Erika.
«Be’, statisticamente anche un solo tizio morto ammazzato nel suo letto non lontano da casa nostra è troppo!», rispose Claude, alzando gli occhi al cielo.
«Certo», concordò Erika.
«Dobbiamo chiedervi se avete notato qualcuno o qualcosa di insolito nei paraggi ultimamente», disse Moss. «Qualunque dettaglio, per quanto apparentemente irrilevante, può rivelarsi utile… Soprattutto se riguarda la sera del 21 giugno, fra le diciassette e le diciannove».
«Non siamo quel tipo di quartiere, cara», rispose Marie. «Qui abita tutta gente che lavora ed è troppo impegnata per affacciarsi alla finestra e spiare cosa combinano i vicini».
«Voi eravate in casa quel giorno, fra le diciassette e la diciannove?», domandò Erika.
«Stiamo parlando di quasi un mese fa…», pensò Marie.
«Esatto, era un martedì», precisò Moss.
«Di sicuro ero ancora al lavoro. Mi occupo di contabilità nella City», rispose Marie.
«Io stacco prima. Lavoro qui vicino, in comune», aggiunse Claude. «Se era martedì, probabilmente ero in palestra. La Fitness First, a Sydenham, lungo la via principale. Possono confermarlo: per entrare dobbiamo strisciare la carta magnetica».
«Non ce n’è bisogno. Non siete fra i sospettati», rispose Erika. «Conoscevate bene Gregory Munro?».
Fecero entrambi no con la testa.
«Era un vicino gentile e amichevole, però», aggiunse Claude. «Era il nostro medico di famiglia. Ma non abbiamo mai avuto bisogno di farci visitare. Siamo andati da lui una sola volta, un paio di anni fa, quando ci siamo registrati».
Erika e Moss si guardarono scoraggiate.
«C’è una cosa che mi ha colpito però…», disse Claude. Bevve un sorso di acqua ghiacciata, pensieroso. La condensa scivolò dal bicchiere bagnando il tavolo di legno.
«Ce la dica comunque, anche se le sembra insignificante», lo incoraggiò Moss.
«Oh sì», disse Marie. «Li ho visti anch’io».
«Chi?», li incalzò Erika.
«Nelle ultime settimane c’è stato un andirivieni di ragazzi. Giovani affascinanti, che entravano e uscivano dalla casa del dottor Munro», disse Claude.
Erika lanciò un’occhiata a Moss. «Può essere più preciso?»
«Tipi muscolosi», disse Marie. «Il primo l’ho preso per un muratore o comunque un operaio che magari Munro aveva assunto per fare dei lavori, o cose del genere. Ma poi il giorno dopo un altro giovane attraente ha bussato ed è entrato in casa. Era davvero affascinante, una bellezza costosa, non so se mi spiego».
«Un gigolò?»
«Sì. E si sono trattenuti solo un’ora o due», aggiunse Claude.
«Quando li avete visti?»
«I primi due durante il fine settimana, ma non ricordo precisamente in quali giorni. Tornavo a casa dal lavoro, quindi intorno alle diciannove e trenta… Il dottor Munro l’ha quasi spintonato dentro quando mi ha visto passare e mi ha salutato frettolosamente. Poi, un’ora dopo, più o meno, stavamo cenando in soggiorno e l’abbiamo visto andarsene», disse Marie.
«E gli altri?», indagò Erika.
«Ce n’è stato uno di sabato mattina, mi pare. Non l’avevi visto uscire presto, Claude?», chiese Marie.
«Sì, la finestra del piano di sopra si affaccia sulla strada. Ero in bagno quando ho visto questo ragazzo uscire dalla casa del dottore, verso le sette di sabato mattina», disse Claude.
«E non avete pensato che fosse strano?», domandò Moss.
«Strano? Questa è Londra… E poi ancora non sapevamo che si fosse separato. Poteva essere un amico, un collega, uno studente di medicina o il babysitter del figlio», rispose Claude.
«Pensate che sia stato uno di questi ragazzi a… sapete, a ucciderlo?», chiese Marie.
«Sarò onesta con voi: ancora non ne abbiamo idea. Stiamo seguendo diverse piste».
Quel pensiero rimase sospeso nella stanza. Marie pulì nervosamente la condensa sul suo bicchiere con il palmo della mano. Claude le cinse le spalle con fare protettivo.
«Vi andrebbe di fare un identikit per la polizia? Sarebbe molto utile ricostruire anche in maniera sommaria l’aspetto di questi giovani», disse Erika. «Potremmo mandare qualcuno stasera stessa e farlo qui a casa vostra, se per voi va bene».
«Sì, certamente», rispose Claude. «Se può aiutarvi a prendere il colpevole».
Moss ed Erika tornarono in strada, al caldo, e si spostarono verso il lato in ombra.
«Io direi che è un passo avanti», disse Moss.
«Con un po’ di fortuna riusciremo ad avere un identikit entro stasera», concordò Erika. Tirò fuori il cellulare e chiamò Peterson per un aggiornamento.
«Ancora nulla, capo», le disse. «Il tecnico è ancora a Telegraph Hill. Estelle Munro è uscita a comprare del latte, e io non ho la chiave qui e non posso chiudere».
«D’accordo, stiamo arrivando», gli rispose. Terminò la chiamata e rimise il cellulare in borsa, controllando l’orologio: le sette passate.
«Devi andare da qualche parte, capo?», chiese Moss.
«Dovrei incontrare Isaac Strong per cena».
«Posso rimanere io qui con Peterson, se vuoi filartela. A quanto pare ci sarà ancora da aspettare e morire di noia. E poi dubito che troveremo delle impronte sulla cornice, ma ti farò sapere il prima possibile. Anche per quanto riguarda l’identikit».
«Tu non vuoi andartene a casa, Moss?»
«Non c’è problema. Celia porta Jacob a una lezione di nuoto mamma e figlio, quindi ho la sera libera. E so che tu non esci…». Non finì la frase.
«Sai che io non esco spesso?»
«Non volevo dire questo, capo», si affrettò a precisare Moss diventando ancora più rossa.
«Tranquilla. È tutto okay». Erika si morse un labbro e le fece l’occhiolino.
«Lo giuro: ti chiamo nello spazio di un nanosecondo appena troviamo un’impronta – se la troviamo. Per l’identikit invece ci vorranno un paio d’ore. Che cucina Isaac?»
«Non lo so».
«Per quando avrai finito di mangiare il non lo so avremo delle risposte».
«E va bene. Grazie, Moss. Ti devo un favore. Telefonami non appena succede qualcosa. Okay?»
«Promesso, capo», disse Moss. Rimase a guardare Erika che tornava alla macchina e si allontanava a tutta velocità, sperando di trovare qualcosa di utile alle indagini
Perché sembrava proprio che il detective Foster avesse bisogno di una svolta.