Per un attimo rimasero tutti impietriti. Il vento soffiava tra le chiome degli alberi sopra di loro.
«Non vi dirò qual è il mio nuovo nome», disse Barbora con voce tremante.
«No», disse Erika prendendole una mano. «Non dire altro».
«Cazzo, in effetti era ovvio», disse Moss. Dal finestrino aperto della macchina si udì un leggero bip. Era Crane che chiedeva aggiornamenti.
«Dobbiamo fare rapporto, capo… Se qualcuno del programma di protezione rivela la propria identità o viene scoperto dobbiamo riferirlo subito», disse Moss.
«Dovranno darti una nuova identità», disse Peterson, cercando di nascondere il proprio fastidio.
«Aspettate. Vi prego. Devo dirvi delle cose», disse Barbora. «Ho deciso di incontrarvi perché devo parlarvi di George Mitchell…». Deglutì e il tremito nella voce e nelle mani aumentò. «Vorrei dirvi come si chiama veramente».
«Come si chiama?», chiese Erika.
Barbora fu scossa da un singulto, come se pronunciare quel nome le richiedesse uno sforzo fisico.
«Igor Kucerov», disse infine.
Peterson fece per tornare alla macchina e alla radio.
«Per favore! Lasciate che vi racconti tutto prima di… prima di rendere tutto questo ufficiale».
Ci fu un’altra pausa. La voce metallica di Crane risuonò in lontananza, chiedendo seccamente la loro posizione e le novità.
«Peterson. Digli che stiamo ancora aspettando. E che va tutto bene… E per favore, non una parola su tutto questo finché non avremo sentito cosa ha da dirci», disse Erika.
Peterson annuì e si avviò di corsa verso la macchina.
«Vivo molto lontano da qui. Ho più io da perdere che tutti voi messi insieme, ma finalmente mi sono decisa a parlare», disse. «Se torniamo un po’ indietro, più in là c’è un’area per i picnic».
Erika e Moss la seguirono, lasciando Peterson a occuparsi della radio. Dopo cinque minuti raggiunsero una radura con un tavolo e delle panche da picnic. La luce penetrava a fatica dalla cortina di rami sopra di loro. Erika pensò di nuovo che d’estate doveva essere un posto bellissimo, ma adesso era solo cupo e opprimente. Ricacciò quella riflessione in un angolo della mente e si sedette insieme a Moss sulla panca di fronte a Barbora, con il tavolo a dividerli.
Erika offrì a Barbora una sigaretta, che lei accettò volentieri. Le mani le tremavano ancora mentre si chinava in avanti e copriva la fiamma dell’accendino. Erika accese anche la sua e quella di Moss, e tutte e tre aspirarono all’unisono.
Sembrava che Barbora fosse sul punto di vomitare. Si passò la mano tra i capelli corti, colorati con una tinta così scadente che parevano fatti di paglia. Deglutì e cominciò a raccontare.
«La prima volta che ho incontrato George Mitchell… Igor Kucerov… è stato tre anni fa. Avevo vent’anni, vivevo a Londra e facevo due lavori, uno era in un club privato nel centro di Londra che si chiama Debussy». Fece un altro tiro di sigaretta e proseguì: «Facevo qualche turno lì e poi lavoravo in un bar di New Cross, il Junction. Era un posto vivace e divertente, un punto di ritrovo per artisti, pittori e poeti locali. È lì che ho incontrato Igor per la prima volta. Era un cliente regolare e ogni volta che veniva ci mettevamo a chiacchierare. All’epoca pensavo che fosse bellissimo e divertente. Ero lusingata che passasse tutto quel tempo a parlare con me… Un giorno arrivai al lavoro molto arrabbiata. Mi si era rotto l’iPod, ci tenevo un sacco di canzoni e di foto. Lui fu molto premuroso, ma lì per lì non ci feci caso. Poi quando tornai per il turno successivo, qualche giorno dopo, lo trovai ad aspettarmi con un pacchetto. Dentro c’era un nuovo iPod… non piccolo come quello che avevo prima, era il modello nuovo, il più costoso, doveva averlo pagato centinaia di sterline».
«Ed è stato allora che hai cominciato la tua relazione con George/Igor?», chiese Moss.
Barbora annuì. Il cielo si stava oscurando e una nuvola incombeva sopra di loro.
«All’inizio lui era incredibile. Pensavo di essermi innamorata, di aver trovato l’uomo con cui volevo passare il resto della mia vita».
«E la tua famiglia che ne pensava di lui?»
«Eravamo solo io e mia madre. Lei era venuta in Inghilterra a vent’anni. Voleva trovarsi un marito e vivere una bella vita borghese, ma poi rimase incinta di me. Il suo ragazzo dell’epoca non ne volle sapere, perciò mi ha cresciuta da sola. Poi, quando io avevo dieci anni, le fu diagnosticata la sclerosi multipla. All’inizio la malattia progrediva lentamente, ma più o meno quando avevo sedici anni si aggravò. Dovetti lasciare la scuola per accudirla, per questo la mattina lavoravo al bar di mattina e al club di sera».
«E quanto è durata la tua relazione con Igor?», chiese Moss, cercando di velocizzare un po’ il racconto.
«Circa un anno. Fece così tanto per noi in quel periodo. Ci aiutò. Fece installare in casa un bagno speciale per mia madre, pagò tutti i miei debiti…». Barbora sorrise ripercorrendo quei ricordi nella mente. Poi fece un tiro di sigaretta e il suo volto si incupì.
«Successe quando stavamo insieme ormai da qualche mese. Una sera andammo al cinema a Bromley… Dei ragazzi cominciarono a fare dei commenti su di me mentre compravamo i biglietti, parlavano del mio fisico. Igor si arrabbiò, ma io gli dissi di lasciar perdere. Entrammo e ci guardammo il film, e io pensavo che avesse dimenticato tutto. Quando uscimmo era tardi e non c’era molta gente in giro. Igor notò uno di quei ragazzi mentre se ne andava, stava camminando davanti a noi in direzione del parcheggio. Quando arrivammo vicino alla nostra macchina lui gli si lanciò addosso e lo prese a pugni e a calci. Era come un animale. Il ragazzo crollò a terra e Igor continuò a dargli calci, anche sulla testa. Non l’avevo mai visto così, fu uno shock… tentai di farlo smettere e lui diede un pugno in faccia anche a me. Alla fine, quando ormai non aveva più energia, se ne andò. Lasciò quel ragazzo per terra al buio…».
Barbora cominciò a piangere. Moss tirò fuori un pacchetto di fazzoletti e glielo passò sul tavolo. Barbora ne prese uno, poi fece un profondo respiro e si asciugò il volto.
«E io lo seguii», riprese. «Lasciammo quel ragazzo per terra, tra due macchine… Igor fece guidare me, anche se l’assicurazione della macchina copriva solo lui, e io ubbidii. Lui frugò nella mia borsa, prese le salviettine struccanti e le usò per pulirsi il sangue dalle nocche e dalla faccia, dove era arrivato qualche schizzo. Mi lasciò a casa. Per qualche giorno non lo vidi, poi si presentò a casa con un regalo e mia mamma fu così felice di vederlo. Io accettai il regalo e andammo avanti come se nulla fosse accaduto».
«E il ragazzo?», chiese Erika. Barbora scrollò le spalle. In lontananza si udì il boato di un tuono, seguito da un lampo.
«E Andrea cosa c’entra in questa storia?», chiese Moss.
«Lavoravo al Debussy già da qualche settimana, ero al bancone, e Andrea venne a farsi un drink. Era una serata tranquilla e cominciammo a chiacchierare. Lei iniziò a venire più regolarmente e pian piano imparai a conoscerla. Mi raccontò che odiava le ragazze snob figlie di papà con cui era andata a scuola. Quando scoprì che vivevo in un quartiere a sud del fiume disse che le sarebbe piaciuto molto venirmi a trovare. Come se dovesse fare le valigie e partire per una gita… in realtà New Cross è a dieci minuti di metro da Charing Cross». Barbora fece una risata amara.
«Quindi Andrea venne a trovarti a casa?».
Barbora scosse la testa. «No, cominciò a venire al Junction, il bar dove lavoravo. Le piaceva un sacco. Era molto bohémien e ci passava un sacco di gente interessante, gente che viveva la propria vita liberamente, non dentro una gabbia, diceva lei… Io le dicevo che la sua era una gabbia dorata, ma lei non capiva. Credo che non avesse la più pallida idea di cosa intendessi».
«Ti disse chi era suo padre?»
«Non subito, poi voleva che restasse un segreto. Solo che più tempo passava al bar, più entrava in competizione con alcune delle ragazze che frequentavano gli artisti e i pittori. E allora cominciò a lasciar cadere il suo nome in qualche conversazione».
«E la gente cosa diceva?», chiese Erika.
«La maggior parte di loro era abbastanza ingenua… ma George – Igor – si mostrò subito interessato. Quando lo scoprì fu come se vedesse Andrea per la prima volta…».
«E diventarono amanti?».
Barbora annuì. «Accadde tutto molto, molto in fretta. Io ero annichilita».
«Lui era violento con te, Barbora?»
«No… be’, a volte. Ma erano più le minacce che la violenza in sé, il controllo… La prima volta che mi ha picchiata veramente è stato quando ho scoperto di Andrea».
«Dove è successo?», chiese Erika.
«A casa. Era una domenica sera e mia madre si stava facendo il bagno. Non ricordo bene come mai uscì fuori, ma successe e io lo affrontai».
«E poi?»
«Lui mi diede un pugno nello stomaco. Fu così forte che vomitai, poi mi rinchiuse nel ripostiglio del sottoscala».
«Per quanto tempo?»
«Non molto. Lo pregai di farmi uscire perché mia madre in bagno avrebbe preso freddo, dovevo aiutarla a uscire. Lui disse che mi avrebbe liberata solo se avessi promesso di non fare mai più parola della sua relazione con Andrea».
«E tu hai disubbidito?».
Barbora scosse la testa.
«E poi cosa è successo?», chiese Erika
«Le cose tornarono normali per un po’. Le acque si calmarono. Poi un giorno, mentre ero a casa, Igor entrò dalla porta della cucina, sul retro, insieme a una ragazza. Era molto giovane, avrà avuto al massimo diciott’anni. Si reggeva a malapena in piedi, aveva dei jeans stretti e una maglietta. Il viso era una maschera di sangue, un po’ secco e un po’ fresco, e le era colato anche sul davanti della maglietta. Piangeva… Che potevo fare? Li feci entrare, ma Igor non voleva aiutarla. La trascinò fino al sottoscala e la chiuse a chiave nel ripostiglio. Era impazzito, diceva che voleva soltanto sapere che fine aveva fatto il suo telefono, che la ragazzina gliel’aveva preso…».
Stava arrivando una tempesta, sotto la cupola di alberi si era fatto tutto scuro.
«Igor mi mandò al piano di sopra. Mi disse di restare in camera mia se non volevo cacciarmi nei guai. Sentivo la ragazzina che gridava e piangeva, andò avanti per ore, o almeno così mi sembrò… Poi si zittì. Igor aprì la porta e mi chiese il permesso di andare in camera di mia madre. Lei sorrise quando lo vide, aveva dormito tutto il tempo. Lui mi chiese la mia sacca da palestra, quella che usavo quando ero in viaggio. Andai all’armadio e la tirai fuori, e lui la prese… era così tranquillo. Scesi giù dopo qualche minuto e lui se ne stava andando con la sacca in spalla».
«E cosa c’era dentro?», chiese Moss, anche se conosceva già la risposta.
«La ragazza», disse Barbora. «Era nella sacca, e lui se ne andò via così».
«Tu cosa hai fatto?», chiese Erika.
«Ho pulito il casino che aveva lasciato nel ripostiglio. Il sangue e le altre cose…».
«E poi?»
«Più tardi lui tornò e mi disse che avevo fatto un ottimo lavoro. Mi diede anche dei soldi…». La voce di Barbora era colma di disprezzo per se stessa. «E andammo avanti con la nostra vita normalmente, come se nulla fosse. Ma lui cominciò a parlarmi del suo lavoro. Di come andava a caccia di ragazze alle fermate dei pullman di Victoria Station, di come le faceva lavorare per lui».
«In che senso lavorare?», chiese Erika.
«Come prostitute. Più sapevo e più Igor mi riempiva di soldi. Comprò una sedia a rotelle elettrica per mia madre, poteva usarla da sola, non c’era bisogno di spingerla. Le cambiò la vita».
«E Andrea che ruolo aveva in tutto questo?»
«Io ero così stressata che non riuscivo a mangiare, non mi veniva nemmeno più il ciclo. Igor non mi guardava più con gli stessi occhi e mi sostituì con Andrea. Ci pensava lei a soddisfarlo sotto certi punti di vista».
«E tutto questo accadeva nel periodo in cui sei andata in vacanza con la famiglia di Andrea?»
«Sì».
«Poco più tardi Andrea si è fidanzata ufficialmente. Questo lo sapevi?».
Barbora annuì e accettò un’altra sigaretta.
«Andrea sapeva di Igor? Del lavoro che faceva?», domandò Erika.
«Non lo so. Non ne ho mai parlato con lei. All’inizio eravamo molto intime e in uno strano modo lo siamo rimaste anche durante le vacanze con la sua famiglia, ma poi ho cominciato a ritirarmi in me stessa. Credo che Andrea avesse tutta una sua idea romantica di Igor, pensava a lui come a uno di quei gangster londinesi un po’ canaglie che si vedono in quegli stupidi film di Guy Ritchie».
«Come sei finita nel programma di protezione testimoni?», chiese Moss.
«Pochi mesi dopo fu ritrovato il corpo della ragazza dentro la mia sacca».
«Dove?»
«In una discarica a East London. Nella sacca era rimasta la vecchia tessera di un negozio intestata a me, così un giorno la polizia si presentò alla mia porta. Dissero che mi sorvegliavano già da tempo e mi offrirono un accordo per fornire loro altre prove».
«E tu hai accettato?»
«Sì. Mia madre era morta poco tempo prima. Grazie a Dio non ha mai saputo nulla… Igor a quel punto si fidava di me. Voleva che cominciassi ad andare con lui a conoscere le ragazze a Victoria Station. Loro credevano di lavorare come domestiche qui in Inghilterra, lui pensava che la mia presenza le avrebbe indotte a fidarsi e a salire in macchina…».
«Igor quindi gestiva un traffico di prostitute a Londra?», chiese Erika.
«Sì».
«E lavorava da solo?»
«No. Non lo so, era tutto molto complicato. C’erano anche altri uomini, e le loro fidanzate».
«Dove portavano le ragazze? Quante erano?», chiese Moss.
«Non lo so», fece Barbora. Poi crollò e prese a singhiozzare e a piangere.
«Va tutto bene», disse Erika allungando un braccio sul tavolo per afferrare la mano di Barbora. Lei sussultò e si ritrasse.
«Poi cosa successe?», proseguì Erika. «Igor fu arrestato?»
«Sì. Si arrivò a un processo», disse Barbora. Erika lanciò un’occhiata a Moss. Nonostante il buio riuscì a vedere la sua espressione scioccata.
«Che processo? Non abbiamo niente in archivio su questo… Cosa è successo?»
«L’accusa messa in piedi dal pubblico ministero crollò. Non avevano prove sufficientemente solide, la giuria non sapeva decidersi… credo che Igor abbia scovato alcuni degli altri testimoni. Lui… conosce molte persone». Lo sguardo di Barbora si fece vacuo. «So che idea vi sarete fatti di me, delle cose terribili che ho fatto. So che sono una persona orribile. E tutto perché mi ero innamorata di lui», disse. Erika e Moss rimasero in silenzio. «Quando ho visto quelle ragazze in televisione, quando hai lanciato l’appello, mi sono ricordata di una di loro, Tatiana. Quando arrivò a Londra era così eccitata e… dovevo parlare con voi. Dovete prendere quel bastardo».
«Hai più rivisto Andrea dopo?», chiese Moss.
Barbora parve a disagio. «Sì».
«La notte dell’otto gennaio, in un pub che si chiama Glue Pot?», chiese Erika.
«Sì».
«E c’era Igor con lei?»
«Che cosa? No! Non mi sarei nemmeno avvicinata se… Lui era lì?»
«No», disse Erika. Moss le lanciò un’occhiata. «Perché eri a Londra? Sei nel programma di protezione».
«Vado a Londra tutti i mesi, a trovare mia madre al cimitero. Pulisco la sua tomba, cambio i fiori. Avete idea di quanto sia difficile diventare un’estranea, avere una nuova identità? Ho mandato un messaggio ad Andrea, pensavo che magari potevamo bere un caffè. So che è stata una cosa stupida. Andrea però continuava a cambiare il luogo del nostro appuntamento e… lo so che non dovevo andare, ma sentivo la sua mancanza».
Moss aveva qualche difficoltà a dissimulare la sua incredulità.
«È stato un incontro breve. Lei era da sola. Mi ha detto che poi doveva incontrare un nuovo fidanzato… Era come se non fosse successo niente tra noi, non era affatto sorpresa che io fossi sparita e poi ricomparsa. Non le importava».
«A che ora te ne sei andata dal Glue Pot?»
«Non lo so. Prima delle otto. Sapevo che il treno per la stazione di Liverpool Street partiva prima delle nove».
«E non hai visto nessun altro?»
«No, Andrea ha detto che andava a bersi un’altra cosa al bancone. C’era una ragazza che lavorava… volevo dirle di stare attenta, che anche io ero stata come lei, ma non l’ho fatto».
«Barbora, avremmo bisogno di registrare la testimonianza che ci hai appena fornito».
Lei ammutolì. Quando riprese a parlare la sua voce pareva distante. «Ho registrato tutto sul cellulare mentre parlavamo», disse porgendo loro il telefono. «Ho ancora qualcosetta da raccontarvi, ma prima devo assolutamente andare in bagno».
«Devi proprio? Si è fatto buio e…».
«Vi prego, devo andare», insisté lei.
«Okay. Ma non ti allontanare troppo… Ti aspettiamo qui», disse Erika.
«Tieni, puoi usare la mia torcia», disse Moss tirandola fuori dalla tasca della giacca. Barbora la prese, si alzò e si inoltrò nel sottobosco. Il boato dei tuoni nel frattempo si era fatto più costante. Un lampo illuminò la radura.
«Chiamo Peterson», disse Erika. «Quando torna dobbiamo fare qualcosa. Portarla con noi a Londra. Insomma, ha fatto saltare la sua copertura, quindi la nuova identità non le serve più a niente. Non ho idea della procedura da seguire in casi come questo».
«Cazzo, capo, e il processo? Non c’è niente né su George Mitchell né su Igor Kucerov. E quando hanno inserito la sua foto nel database nazionale non è uscito fuori nulla… questa faccenda non mi piace, è strano».
Erika annuì e si accese una sigaretta. «Dobbiamo trovare conferma della sua nuova identità. E controllare tutto quello che ci ha detto».
«Un’altra svolta imprevista nel caso di Andrea Douglas-Brown», disse Moss. Erika osservò il cellulare e premette qualche pulsante per riprodurre la registrazione di Barbora.
«È tutto registrato. E c’è materiale a sufficienza per far finire dentro questo George Mitchell, o Igor Kucerov. Quando ritorna dobbiamo chiederle l’indirizzo di casa sua», disse Erika.
Moss prese il suo telefono e chiamò Peterson per spiegargli dov’erano, ma la ricezione era pessima.
«Non funziona capo, non riesco a chiamare!». Ci fu un nuovo boato sopra le loro teste e un lampo illuminò il cielo. «Cazzo!», esclamò Moss. «E usare il cellulare sotto i fulmini non mi pare una buona idea. Peterson può aspettare».
«Okay, okay, tranquilla, ci provo io», disse Erika. Provò a chiamare dal suo cellulare e poi di nuovo da quello di Moss, ma non c’era campo, la chiamata non partiva nemmeno.
Erika cominciò provare una strana sensazione.
«È passato un po’ troppo tempo per una pisciatina», disse Moss. La luce del telefono di Erika illuminava i loro volti.
Balzarono in piedi nello stesso istante e si avviarono verso il punto in cui Barbora era uscita dalla radura, chinandosi sotto la grossa fronda di un albero. Spostarono qualche altro ramo rinsecchito e si ritrovarono sul sentiero principale.
La pioggia cominciò a inzupparle non appena uscirono dal riparo degli alberi. Un lampo squarciò l’aria e illuminò un grosso albero dai lunghi rami proprio di fronte a loro. C’era anche una corda che dondolava e cigolava, e a un’estremità, appesa a un cappio, c’era Barbora.
I suoi piedi erano immobili, il corpo dondolava sospinto dal vento.