«Dalla settimana prossima le giornate cominceranno ad accorciarsi», disse Simone, in piedi di fronte alla finestra della camera d’ospedale di Mary. Guardò fuori e vide le file di cassonetti dell’immondizia e l’inceneritore. Le alte mura degli imponenti edifici circostanti le bloccavano la visuale lasciando solo una striscia argentata di cielo. La torre dell’orologio sopra la stazione di King’s Cross sembrava sul punto di trafiggere il sole basso e infuocato.
Simone si avvicinò al letto dove Mary riposava con la coperta rimboccata fino al mento. Il tessuto si muoveva appena per il suo respiro debole. Il corpo praticamente scompariva sotto la coperta. Il turno di Simone era finito da un’ora, ma aveva deciso di restare. La paziente peggiorava in fretta. Non le rimaneva molto.
Tirò fuori dal cassetto la foto in bianco e nero di Mary e George e la sistemò in piedi contro la bottiglia d’acqua.
«Ecco, ora siamo tutti insieme. Io, tu e George», disse Simone, appoggiandosi alla sponda di sicurezza del letto per stringere la mano di Mary. «Sembri così felice in quella foto, Mary. Vorrei tanto che potessi raccontarmi un po’ di lui. Sembra proprio un gentiluomo… Non ho mai avuto una buona amica con cui parlare. Mia madre non parlava mai di sesso o, meglio, lo faceva solo per dire che è una cosa sporca. Ma si sbagliava, lo so. Non è sporco. Quando c’è anche amore, deve essere perfetto… Con George era perfetto?».
Simone prese la foto. George era affascinante, con il braccio forte stringeva la vita di Mary e socchiudeva gli occhi per proteggersi dal sole.
«Vi divertivate la sera? Ti portava a ballare? Ti riaccompagnava a casa e aspettava che entrassi prima di ripartire?».
Simone afferrò la spazzola e cominciò a pettinarla dolcemente.
«Il buio mi spaventa, sai. Con il buio mi sento ancora più sola…».
La spazzola correva fra i capelli argentati con un leggero fruscio. La pelle di Mary era pallida, sottilissima, e lasciava intravedere piccole vene blu che si diramavano dalle tempie alla fronte. Simone sollevò delicatamente la testa della vecchia per sistemarle i capelli sulla nuca.
Whoosh, whoosh, whoosh.
«Il mio non è un matrimonio felice. Le cose non sono mai andate bene, ma un paio di anni fa sono addirittura peggiorate. Così mi sono spostata nella camera degli ospiti…».
Whoosh, whoosh, whoosh.
«Ma questo non l’ha fermato. Stan viene lo stesso a cercarmi la notte. Ho provato a barricarmi dentro, ma lui forza la porta ed entra comunque…».
Whoosh, whoosh.
«Mi penetra con violenza. Anche se non voglio».
Whoosh.
«Fa male. Tanto male…».
Whoosh, whoosh.
«Ma a lui piace farmi male e non si ferma mai. Mai. Finché non ha finito!».
Sentiva un suono sordo e monotono. Le ci volle qualche secondo prima di capire che la spazzola era incappata in un nodo e che quel rumore era il suono della testa di Mary che continuava a sbattere contro la sponda del letto in ferro, mentre Simone tirava furiosamente.
Lasciò andare di colpo la spazzola e fece un passo indietro. L’anziana perdeva sangue e Simone cominciò a tremare. La testa della donna pendeva inerme di lato, con un occhio mezzo aperto e premuto contro il metallo freddo.
«Oh, Mary!». Simone si chinò su di lei e le tolse la spazzola dal nodo che si era formato sulla nuca. Le risistemò delicatamente il capo sul cuscino, rimboccandole le coperte. Si stava formando un livido sulla tempia.
«Mi dispiace Mary. Mi dispiace tanto», disse Simone accarezzandola dolcemente. «Ti prego, perdonami…». Le aggiustò di nuovo le lenzuola. Il sole era tramontato alle spalle dell’ospedale e la stanza ora era scura e fredda. «Farei qualsiasi cosa per te… Per farti capire quanto sei importante per me ti mostrerò una cosa…».
Simone si avvicinò alla porta e l’aprì furtivamente, controllando che nel corridoio non ci fosse nessuno. La richiuse, tornò di fronte al letto, si chinò e afferrò il bordo della divisa. Lo alzò lentamente, scoprendo le calze scure e spesse. La pelle chiara e paffuta riluceva sotto il tessuto. Continuò a tirare su il camice, scoprì la pelle morbida dell’addome stretta dall’elastico delle mutande. Si mosse per tirare ancora più su il tessuto, mostrando i seni. Una ragnatela di cicatrici rosse si diramava furiosa da quello che un tempo era il suo ombelico arrivando fino al costato, dove la pelle era scura e increspata. Scompariva sotto il tessuto morbido e ingrigito del reggiseno. Simone si avvicinò alla donna e le prese la mano inerme, facendole accarezzare gentilmente la trama delle cicatrici.
«Lo sai, Mary? È stato lui a farmi questo. Mi ha bruciata… Anche io ho bisogno di te, come tu hai bisogno di me».
Simone rimase immobile per qualche secondo, sentendo l’aria fredda che le rinfrescava la pelle marchiata e rovinata, e godendosi il tocco della mano tiepida di Mary sul suo corpo. Poi la lasciò andare e si risistemò la divisa. Prese la borsa che aveva appoggiato sul pavimento ed estrasse una busta.
«Quasi me ne dimenticavo. Ti ho preso un biglietto! Che faccio, lo apro?». Simone infilò il dito nella busta spessa e la strappò, mostrandole il bigliettino. «Guarda: c’è un gelso disegnato ad acquerello… Ho pensato che poteva essere questo l’albero sotto cui eravate seduti tu e George. Ma vuoi sentire cosa ho scritto? “Alla mia migliore amica Mary, guarisci presto. Con amore, l’infermiera Simone Matthews”».
Sistemò il biglietto sul comodino, accanto alla foto e alla brocca d’acqua, e accese la lampada sopra il letto. Si rimise a sedere e strinse di nuovo la mano di Mary.
«So che non guarirai. Ne sono abbastanza certa. Ma è il pensiero che conta, no?». Le accarezzò la mano. «Ecco qua. Di nuovo comode, io e te. Resterei ancora un po’, se non ti dispiace. Non mi va di tornare a casa. Non finché non sarò sicura che se ne sia andato».