Simone stava andando al lavoro, fremente d’eccitazione. Aveva preso l’autobus per King’s Cross e si era avventurata attraverso i vicoli dietro la stazione per raggiungere il Queen Anne Hospital. Adorava il turno di notte, la sensazione di iniziare a lavorare quando gli altri finivano e tornavano a casa. Andare contro corrente, come un salmone. Non doveva preoccuparsi dell’insonnia, non doveva sentirsi sola e vulnerabile nel suo appartamento. Ma soprattutto non doveva preoccuparsi delle allucinazioni.
Era una serata mite e temperata. Mentre aspettava di attraversare la strada si rese conto che non vedeva l’ora di stare un po’ con Mary. La vecchia signora era una guerriera e l’avrebbe trovata ancora là, Simone ne era certa. Le aveva persino comprato dei regali: una cornice in cui mettere la foto insieme a George e una spazzola nuova di zecca. Di sicuro l’avrebbe trovata con i capelli tutti annodati.
Una forte, fastidiosa puzza di urina e pannolini usati le assalì le narici non appena mise piede nel lungo corridoio che portava alla stanza di Mary. Un paio di infermiere la salutarono, lei rispose con un cenno del capo e qualche rapida frase di circostanza. Alcune parevano sorprese di vedere un sorriso sul suo volto, di solito così tirato.
Simone arrivò di fronte alla porta di Mary, l’aprì senza bussare e rimase scioccata quando trovò una signora anziana ed elegante seduta sulla sua sedia, accanto al letto. Aveva i capelli grigi e lisci, un taglio a caschetto. Indossava un paio di pantaloni bianchi, scarpe basse di vernice nera e una camicetta di seta con motivi floreali. Il letto era vuoto e Mary era su una sedia a rotelle di fronte alla signora, con addosso un paio di pantaloni grigi ben stirati e una giacca a quadri. I capelli erano pettinati all’indietro e legati con un elastico rosso. La donna si chinò per infilare i piedi di Mary in un paio di scarpe nuove.
«Chi è lei?», chiese Simone fissandole entrambe. La donna sistemò anche la seconda scarpa e si alzò. Era molto alta.
«Salve, infermiera», la salutò. Parlava lentamente, con un accento americano.
«Che sta succedendo?», chiese Simone andando dritta al sodo. «Il dottore sa che lei è qui?»
«Sì, cara. Mi chiamo Dorothy Van Last, sono la sorella di Mary. Sono venuta a prenderla, per portarla a casa».
«Sorella? Non sapevo che Mary avesse una sorella. Ma lei è americana!».
«Sì, cara. Sono nata qui ma sono stata lontano dall’Inghilterra per molto tempo». Dorothy osservò per un momento la camera da letto sudicia. «Ma sembra che le cose non siano cambiate poi tanto da queste parti».
«Mary…», disse Simone, «questa è casa tua… con noi…».
Mary si schiarì la voce. «Chi sei tu, cara?», chiese scrutando il viso di Simone. Aveva una voce debole e tremante.
«Sono l’infermiera Simone. Ho badato a te per tutto il tempo che sei stata qui».
«Ah, sì? Mia sorella ha saputo dai vicini dov’ero finita. È venuta direttamente da Boston. Non so che fine avrei fatto se non fosse arrivata lei», rispose con un fil di voce.
«Ma tu… io… ti avrei…», balbettò Simone, sentendo gli occhi bagnarsi di lacrime.
«Il dottore dice che si è ripresa quasi del tutto», le interruppe Dorothy. «Resterò qui con lei finché non si sentirà meglio». Tolse il freno alla sedia a rotelle di Mary e superò il letto.
«Mary…», ripeté Simone.
Mary sollevò lo sguardo dalla carrozzina. «Chi è?», chiese alla sorella.
«Un’infermiera, Mary. Dopo un po’ sembrano tutte uguali. Senza offesa, cara».
Dorothy spinse la sedia a rotelle fuori dalla stanza, lungo il corridoio, lasciando sola Simone. L’infermiera si affacciò alla porta e rimase a guardare Mary che veniva portata via. Non si girò neanche una volta per salutarla. Alla fine svoltarono l’angolo e sparirono.
Simone corse a chiudersi nel bagno dei disabili. Rimase immobile per qualche secondo, tremante. Poi aprì la borsa, tirò fuori la cornice che aveva comprato per lei e la sbatté senza sosta contro il lavandino, finché non si ruppe in mille pezzi. Fissò il suo riflesso allo specchio, mentre una rabbia profonda le montava dentro. Era stata abbandonata. Di nuovo.