Erika e Peterson uscirono sulla strada principale, che brulicava di gente che sciamava da un pub all’altro. Camminarono verso la stazione ferroviaria in silenzio. C’era un solo taxi lì davanti, con il motore spento.
«Pensavi di prendere un taxi?», le chiese Peterson.
«Sì, sono troppo stanca».
«Già, anch’io».
Controllarono un lato e l’altro della strada. Non c’era traffico. Cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, che presto divenne torrenziale.
«Dovete andare da qualche parte o no?», chiese l’autista abbassando il finestrino. Era un uomo anziano dall’aspetto misero, con qualche rado ciuffo di capelli grigi in testa. Peterson aprì lo sportello e insieme montarono sul sedile posteriore, tenendosi a distanza.
«Dove andiamo?», chiese l’autista.
«Lei è la prima a Forest Hill. Poi Sydenham», rispose Peterson.
«Sei tu il primo, bisogna attraversare Sydenham per arrivare a Forest Hill», chiarì l’autista.
«Portiamo a casa prima lei, è il mio capo», scherzò Peterson.
Il vecchio alzò gli occhi al cielo e uscì dal parcheggio. Viaggiavano in silenzio, mentre la pioggia tamburellava sul tettuccio della macchina e il buio scivolava oltre il finestrino. Si era formato un po’ di traffico. Erika lanciò uno sguardo di soppiatto a Peterson. Per una volta non voleva lasciarsi opprimere dalla vita, dal dolore e dalle responsabilità. Desiderava soltanto qualcuno da stringere durante la notte. Voleva svegliarsi insieme a un uomo al mattino, senza sentirsi sola e desolata.
Peterson si voltò e i loro occhi s’incrociarono. Distolsero subito lo sguardo. Il cuore le martellava nel petto, mentre il taxi svoltava verso Manor Mount e cominciava la risalita che portava al suo edificio. Una dopo l’altra le case si alternavano in fretta, un secondo dopo erano arrivati.
«Prima fermata», annunciò l’autista. Le serrature automatiche si sbloccarono e la portiera si riaprì.
«Ti va una tazza di caffè? Da me, intendo», disse Erika.
Peterson sembrava sorpreso. «Sì… Certo, ci vuole proprio un po’ di caffè».
Pagarono il povero autista e scesero dal taxi, affrettandosi lungo il parcheggio. Erika vide che nell’atrio le luci erano accese e che dentro c’era una donna bionda insieme a dei bambini.
Arrivati di fronte al portone, rovistò nella borsa in cerca delle chiavi. Peterson la circondò con un braccio, premette il corpo al suo e la baciò sulla guancia. Erika si voltò verso di lui e gli sorrise. Stava per dirgli qualcosa, quando sentì una voce acuta. «Erika!».
Il portone si spalancò e una donna bionda e alta si precipitò verso di loro. Somigliava a Erika, con il volto dai bei lineamenti slavi e gli occhi quasi a mandorla. I lunghi capelli biondi le ricadevano umidi sulle spalle; sopra i jeans blu e stretti e una magliettina scollata indossava un lungo cappotto nero. Alle sue spalle due bambini dai capelli scuri erano aggrappati a un passeggino costoso in cui dormiva una bambina. La donna abbracciò forte Erika e fece un passo indietro.
«Sono così felice di vederti. È tutto il giorno che ti chiamo!», urlò.
«Chi è?», domandò Peterson, colto completamente alla sprovvista.
«Mia sorella, Lenka», rispose Erika.