Qualche minuto dopo Erika, Moss e Peterson erano di nuovo nella sala d’osservazione. Guardavano Laura, seduta al tavolo con un avvocato d’ufficio.
«Credete che parlerà davvero?», chiese Moss.
«Quando le ho detto che il marito e i figli l’avevano cercata e che non sapevano ancora niente, mi è sembrato che avesse cambiato idea. Credo che voglia essere lei a dirglielo».
«A dirgli cosa?», chiese Peterson.
«Lo scopriremo presto, spero», rispose Erika.
Erika e Moss rientrarono in sala interrogatori, dove Laura adesso era seduta al fianco di una giovane donna che era stata nominata suo avvocato difensore. Entrambe avevano in mano una tazza di tè fumante. Laura si era tolta il cappotto, ma aveva tenuto la sciarpa al collo. Erika annunciò ad alta voce la data e l’ora per la registrazione, e poi allungò il braccio sul tavolo e strinse la mano di Laura.
«Okay, noi ci siamo, andrà tutto bene», le disse.
Moss sorrise e annuì, nascondendo bene il suo scetticismo.
«No, non è vero!», rispose la donna con le lacrime agli occhi. «Non è vero».
«Comincia dal principio», le disse Erika.
Moss le passò un fazzoletto. Laura lo prese e si asciugò il viso. Singhiozzò, ma poi parve calmarsi. E cominciò a raccontare.
«Adoravo vivere in Irlanda. Abitavamo in una casetta a Galway, vicino al mare. Non avevamo molto: papà lavorava in qualche cantiere e mamma stava a casa con me. Ma eravamo felici. Ho conosciuto Gerry O’Reilly a tredici anni».
«Dove l’hai incontrato?», chiese Erika.
«Al circolo cattolico del quartiere. Un piccolo capannone su una collina sopra il mare. Era come una chiesetta, il capannone, pieno di vecchie foto della Vergine. E poi c’erano un mucchio di giochi e a volte tiravano fuori la televisione e mettevano qualche cartone. I ragazzi più grandi sgattaiolavano sulla spiaggia, in coppia, e si nascondevano fra le dune di sabbia. Io sono stata la sventurata che è rimasta incinta».
«Di Gerry, giusto?».
Laura annuì e bevve un sorso di tè. Trasalì, deglutendo.
«E poi cos’è successo?».
La donna proseguì il suo racconto: «Dio, era così tanto tempo fa e l’Irlanda nei primi anni Ottanta era come l’Inghilterra degli anni Sessanta, forse. Mia madre impazzì. Riuscii a nasconderglielo per un bel po’ di tempo, ma una sera, quando mi alzai di fronte alla televisione, notò la pancia e capì che la mia infanzia era finita…».
«Tua madre era più religiosa di adesso?», chiese Moss.
Laura annuì. «In Irlanda è come una febbre, una sorta di cattolicesimo competitivo. Tipo Le spie della porta accanto, solo che la gente non investe in lavatrici e ristrutturazioni, ma nell’accumulo di favori divini, in tempo passato a messa. Mi hanno mandata via, da una zia… zia Mary. Una terribile stronza crudele. Di sicuro ne avrete incontrate, di persone come lei. Pensava che l’intero Concilio Vaticano II fosse un abominio. È morta, adesso, non c’è bisogno che controlliate. Come avete visto ho dato alla luce la bambina. La mia Jessica…». Scoppiò di nuovo a piangere e tutti le lasciarono il tempo di calmarsi. «Ci siamo trasferiti in Inghilterra qualche mese dopo il mio ritorno dalla “vacanza” con zia Mary».
«E cos’è successo al padre di Jessica? Gerry O’Reilly?», domandò Moss.
«Niente. Era uno dei tanti ragazzini della città. Non sapeva neanche che fossi rimasta incinta. Non è che avessimo programmato di avere un figlio. E io non glielo dissi. Quella della mia famiglia fu una specie di fuga di mezzanotte dall’Irlanda. Ce ne andammo senza dire niente a nessuno. Era il 1983, non c’erano le mail, tantomeno Facebook. Zero cellulari. Mio padre e mia madre avevano perso da poco i genitori. Così sparirono. Si sforzarono di dimenticare. Sarebbe dovuto essere un nuovo inizio per loro. Arrivammo a Londra con poco e niente. Vivemmo in un ostello della gioventù a London Bridge per due settimane. E a tutti raccontavamo che mia madre aveva avuto Jessica pochi mesi prima. Era sua figlia e mia sorella. L’ostello era un postaccio, nessuno diceva le preghiere prima di andare a dormire, nominavano tutti il nome di Dio invano. C’erano delle ragazze che scopavano con chiunque… E sapete qual era la cosa fuori di testa? Che i miei genitori non erano mai stati così felici! A nessuno sarebbe importato che fossi una ragazza madre di tredici anni! Avrebbero potuto lasciarmela. Sarebbe potuto essere un nuovo inizio anche per me».
«E come siete finiti da un ostello della gioventù a London Bridge alla casa di Hayes?», chiese Erika.
«Dopo qualche settimana dal nostro arrivo a Londra, mio padre ottenne un appalto per un cantiere importante, una serie di uffici. Erano indietro con i lavori, così gli diedero un mucchio di soldi per finirlo in tempo. Uno straordinario, quasi quattro o cinque volte quello che guadagnava a casa. E così iniziò a farsi i suoi contatti e i lavori continuavano ad arrivare. Non aveva mai fatto tutti quei soldi. Nel giro di poche settimane ci trasferimmo in una casa in affitto a East London».
«E per tutto quel tempo tu hai continuato a dire che Jessica era tua sorella?»
«Litigavo con loro per questo», rispose Laura, guardando Erika dritto negli occhi con un’espressione feroce. «Mi sono opposta con tutta me stessa, e pensavo che l’avrei avuta vinta, ma…».
«Ma non è stata così».
Laura fece di no con la testa, le lacrime riaffiorarono di nuovo. «Mi ricordo quel giorno come se fosse ieri. Avevo quasi quattordici anni e papà mi portò al lavoro con lui quel giorno. Avevamo lasciato mamma a casa con Jessica. Lavorava alla costruzione di un grosso complesso residenziale, degli appartamenti per giovani rampanti, yuppie. Avevano raso al suolo un mucchio di edifici e c’era un buco gigantesco là dove avrebbero costruito le fondamenta. La terra era secca e si poteva scendere con una scala e camminare nelle zone in cui gli operai non erano ancora arrivati. Papà mi lasciò libera di gironzolare e incontrai questo bellissimo ragazzo, un senzatetto. Stava setacciando le macerie alla ricerca di pezzi di metallo. Avevo iniziato a fumare di nascosto così gli offrii una sigaretta e cominciammo a parlare. Era intelligente, mi spiegò che cosa significava il termine “yuppie”: giovani ambiziosi e in cerca di successo professionale. Io non lo sapevo. Gli raccontai che avevo una bambina e che volevo crescerla per bene. Lui mi fece gli auguri e mi disse che sarei stata una brava madre e proprio allora mio padre cominciò a chiamarmi. Tornai indietro e mi disse che aveva chiuso un affare e avrebbe comprato un pezzo di terra per costruire la nostra casa. Tornammo subito a casa per dirlo alla mamma: era così emozionato. Quando arrivammo, scoprii che mia madre aveva iscritto Jessica all’asilo, le aveva trovato un pediatra, un dentista. E l’aveva registrata come sua figlia: ora era ufficiale. Dopo, non ho più detto a nessuno che ero io la vera madre di Jessica».
Laura si fermò e bevve un sorso di tè. Erika e Moss aspettarono pazientemente che ricominciasse a parlare.
«Il terreno che aveva comprato mio padre è quello dove sorge ora la nostra casa, ad Avondale Road. In seguito accadde tutto molto velocemente. La vita cambiò in fretta, io faticavo a restare al passo. Ci trasferimmo nella casa grande, poi arrivò Toby. Mi fermavo spesso a osservare mamma e papà insieme a Jessica e Toby: la classica famigliola perfetta. E io ero la pecora nera, l’esclusa. Mia madre non perdeva occasione per ricordarmi che ero una peccatrice, una donna perduta. Soltanto quando andai all’università a Swansea, mi resi conto che non era che una fanatica religiosa. Quando tornai a casa dopo il primo anno di studi, nel 1990, scoprii che mia madre aveva iscritto Jessica e Toby a catechismo: voleva farli studiare per la prima comunione. Jessica era la mia bambina e io non volevo che anche lei subisse tutte quelle cazzate, che fosse costretta a entrare nel confessionale quando era ancora piccola, a studiare tutte le teorie sul peccato originale… E fu più o meno allora che incontrai Oscar a Swansea, al primo anno di università. Era così affascinante, intelligente e mi amava… Era un po’ come mio padre, un uomo che si era fatto da solo. Aveva una borsa di studio, aveva lavorato sodo per ottenerla».
«Ed eri al campeggio con lui quando Jessica è scomparsa, no?», chiese Erika.
Laura abbassò lo sguardo per diverso tempo. Passò un minuto, poi due. Alla fine alzò la testa e disse: «Jessica non è scomparsa. L’ho presa io».