Quando Erika tornò a casa si fece una lunga doccia calda e si avvolse in un asciugamano. Poi andò in camera e si sedette sul letto, ripercorrendo con la mente gli eventi di quella sera. No, anche ripensandoci a freddo non erano molto più incoraggianti di quando si erano effettivamente verificati.
Allungò la mano per mettere in carica il cellulare, ma poi si fermò e sollevò il piumone. Sotto, sparpagliate sul materasso, c’erano tutte le cose che teneva nell’armadietto del bagno.
Erika scattò in piedi e andò alla finestra. Era chiusa e la distanza da terra era notevole. Si spostò in salotto e accese la luce. La stanza era come l’aveva lasciata. Le persiane erano chiuse. I fascicoli e le tazze di caffè erano ancora sparpagliati sul tavolino. Andò a controllare la porta d’ingresso, che non aveva la buca delle lettere. Aveva chiuso a chiave? Certo che sì, pensò. Tornò nel bagno e aprì l’armadietto sopra il lavandino. Era vuoto.
La finestra era chiusa quando era andata a farsi la doccia, e lei non l’aveva aperta. No, pensò, era solo stanca, probabilmente aveva tirato fuori lei quella roba dall’armadietto e poi se ne era dimenticata. Notò che il bagno era ancora pieno di vapore e tirò la cordicella della piccola ventola. Poi la tirò di nuovo. Non accadde nulla.
«Merda», disse asciugando la condensa sullo specchio con il dorso della mano. Ma perché il destino aveva voluto che Marsh fosse il suo proprietario di casa? L’ultima cosa che voleva era doverlo contattare. Spense la luce, tornò in camera e liberò il materasso. Si sentiva a disagio. Era stata davvero lei a togliere quella roba dall’armadietto? Ripensò al biglietto che aveva ricevuto.
Era entrato qualcuno? E come? Era impossibile senza la chiave.
La mattina seguente Erika mise in ordine l’appartamento. Stava contemplando l’idea di informare la stazione di polizia della possibilità che qualcuno fosse entrato in casa sua – mettendo parecchia enfasi sulla parola “possibilità” – quando sentì il postino che lasciava la posta nell’atrio. Dopo aver scartato le bollette per i suoi vicini, trovò una lettera indirizzata a lei. Era la prima che riceveva al nuovo indirizzo. Una richiesta da parte della polizia metropolitana di sottoporsi a valutazione psichiatrica la settimana successiva.
«Non sono pazza, vero?», chiese Erika a se stessa. Scherzava, ma non del tutto. Quando rientrò nell’appartamento il telefono squillò.
«Erika, sono Marsh. Hai sei ore con una squadra della Thames Water. Se non trovi il telefono questa storia finisce qui. Hai capito?».
Erika sentì la speranza rinascerle nel petto. «Sì. Grazie».
«È praticamente impossibile ritrovarlo là sotto. Hai visto come piove?».
Erika guardò la pioggia che scrosciava contro la finestra.
«Lo so, signore, ma correrò il rischio. Ho risolto casi anche peggiori, sa».
«Ma non risolverai questo. Sei sospesa. Ricordi? E passerai qualsiasi indizio al detective Sparks. Immediatamente».
«Sissignore», disse Erika.
«Moss ti contatterà per i dettagli».
«Molto bene, signore».
«E se mai ti verrà in mente di rifare una scenata del genere, di presentarti alla mia porta e sventolare foto morbose delle scene del crimine davanti a mia moglie, non sarai solo sospesa. Potrai considerare finita la tua carriera».
«Non succederà più, signore», disse Erika. Marsh riattaccò con un clic. Erika sorrise. «Dietro ogni grande uomo c’è una donna che sa come tirare i fili dei suoi burattini. Grazie mille, Marcie».
Erika andò a incontrare Moss e Peterson. Il tombino che dava accesso al canale di scolo era accanto al cimitero della chiesa di Honor Oak Park, a un paio di chilometri dall’appartamento di Erika. La chiesa era a poca distanza dalla stazione, appollaiata su una collina. La pioggia era cessata e le nubi si erano un po’ aperte quando Erika raggiunse Moss accanto a un grosso furgoncino con il logo della Thames Water. Peterson aveva un vassoio con dei caffè e li stava distribuendo a un gruppo di persone in tuta.
«Lui è Mike. Coordinerà la squadra di ricerca», disse Moss.
«Sono Erika Foster», disse lei stringendogli la mano. Gli uomini della squadra non persero tempo. Buttarono giù il caffè e nel giro di pochi minuti stavano già sollevando l’enorme tombino. Lo fecero rotolare di lato con un suono tintinnante.
«Che bello vederla, capo», disse Peterson sorridendo e porgendole del caffè.
Mike li fece salire sul furgoncino. Era dotato di una serie di monitor, di una piccola doccia e di apparecchi radio per gli uomini che sarebbero scesi nel canale. Su uno dei monitor una mappa satellitare aggiornata in tempo reale teneva sotto controllo il clima, mostrando l’andamento di strisce e cumuli di un grigio carbone su tutta l’area di Greater London.
«Questo fa la differenza tra la vita e la morte», disse Mike dando un colpetto allo schermo con la penna. «Le fogne raccolgono l’acqua piovana e quella di scarico. Uno scroscio improvviso di pioggia può inondarle in brevissimo tempo e causare un’ondata d’acqua che si riversa nel Tamigi».
«Come facevate prima di avere questa tecnologia?», chiese Peterson indicando gli schermi e la mappa satellitare.
«Come gli antichi, sfruttando gli echi», disse Mike. «Se c’era una tempesta in arrivo sollevavamo il tombino più vicino di qualche centimetro e lo lasciavamo ricadere. Il tintinnio riecheggiava nei tunnel e in genere dava tempo ai ragazzi che erano sotto di togliersi dalle palle».
«Ci lavorano solo ragazzi là sotto?», chiese Moss.
«Perché, vuoi cambiare lavoro?», scherzò Mike.
«Molto divertente», rispose Moss.
Scesero dal furgoncino e scrutarono il cielo. Le nuvole sopra di loro parevano meno minacciose, ma il cielo all’orizzonte era tetro.
«Meglio metterci all’opera», disse Mike spostandosi nel punto in cui quattro uomini avevano montato un argano, in corrispondenza del tombino, e si stavano agganciando alle imbragature di sicurezza. Erika si avvicinò e scrutò nel buco. Dei gradini di acciaio si inoltravano nell’oscurità.
«Allora, stiamo cercando un telefono, giusto?», chiese Mike.
«Un iPhone 5S, crediamo che sia bianco, ma potrebbe anche essere nero», disse Moss, porgendo a tutti una fotografia.
«Ci rendiamo conto che dev’essere là sotto da almeno due settimane, ma se lo trovate per favore non toccatelo. Dobbiamo preservare qualsiasi eventuale traccia per la scientifica. Dovreste metterlo immediatamente in una di queste buste trasparenti», disse Erika.
Ne presero una a testa. Avevano tutti l’aria un po’ scettica.
«Quindi che dobbiamo fare? Far levitare il telefono su dalla merda?», disse uno.
«Apprezziamo davvero il vostro aiuto, ragazzi», disse Peterson. «Ci state affiancando in una fase cruciale di un caso particolarmente spinoso che riguarda l’omicidio di giovani ragazze. Quel telefono è un tassello importante. Cercate solo di non toccarlo a mani nude».
L’atteggiamento degli uomini cambiò radicalmente. Si misero rapidamente i caschi e cominciarono a controllare le luci e le radio. Quando furono pronti rimasero in piedi intorno al tombino mentre Mike calava giù una sonda.
«Dobbiamo verificare la presenza di gas velenoso», disse. «Merda e piscio non sono le uniche cose di cui preoccuparsi là sotto. C’è l’acido carbonico, quello che i minatori chiamavano lo strozzagas; il metano, che può esplodere; e l’acido solfidrico, che è un prodotto della decomposizione… Avete i rilevatori di sostanze chimiche nella tuta, ragazzi?».
Gli uomini annuirono.
«Però! Sicuri che non preferireste lavorare in un supermercato?», chiese Moss.
«Qui pagano meglio», disse il più giovane della squadra, che andò per primo e fu calato lentamente nel tombino.
Osservarono gli altri uomini scendere nell’oscurità, le loro luci illuminavano l’antro marrone scuro del canale. Erika guardò Moss e Peterson, chini sul tombino. Si scambiarono un’occhiata.
«È come cercare un ago in un pagliaio», disse Peterson. Le torce sotto di loro scomparvero lentamente e tutti rimasero in silenzio. Mike tornò nel furgone per monitorare i progressi.
Un’ora dopo non c’era ancora nulla di rilevante e stavano tutti morendo di freddo. Poi sulla ricetrasmittente della polizia arrivò una chiamata, un incidente al supermercato di Sydenham. Un uomo aveva sparato dei colpi d’arma da fuoco.
«Oggi siamo di turno», disse Moss lanciando un’occhiata a Peterson. «Meglio andare. Marsh ha detto che questa operazione non era una priorità».
«Andate, resto io qui», disse Erika. Moss e Peterson scapparono via e lei rimase da sola. Si rese conto di nuovo che non aveva né distintivo né autorità di alcun tipo. Era solo una donna che gironzolava intorno a una fogna scoperchiata. Salì sul furgone e chiese a Mike come procedevano.
«Niente, per ora. E siamo quasi arrivati al limite oltre il quale non voglio farli andare. Il canale si ramifica in varie direzioni man mano che si avvicina al centro di Londra».
«Okay, e dove finiscono tutti i canali?»
«Agli impianti di depurazione tutto intorno a Londra».
«Quindi…».
«Quindi le probabilità che quel minuscolo cellulare salti fuori sono piuttosto esigue», disse. «Non è come quando un cane inghiotte un anello e allora…».
«Sì, ho capito», disse Erika. Uscì fuori, si appoggiò al tronco di un albero e si fumò una sigaretta. La chiesa incombeva sopra di lei in mezzo al gelo, in lontananza passava un treno. Un’ora e mezza dopo gli uomini riemersero, ricoperti di fango, esausti e sudati. Scossero il capo.
«Come pensavo. A quest’ora potrebbe essere ovunque. Persino in mare. I canali di scolo sono stati aperti due volte dal dodici gennaio e dev’essere passato di tutto. Non può esserci rimasto niente là sotto, con una pressione così forte dell’acqua», disse Mike.
«Grazie», disse Erika. «Ci abbiamo provato».
«No. Loro ci hanno provato», disse Mike indicando gli uomini. «Io l’avevo detto al suo capo che era impossibile. Come inseguire un fantasma».
Erika si chiese se era per questo che Marsh aveva acconsentito. Ma mentre tornava a casa sotto la pioggia era ancora convinta che fosse necessario ritrovare il telefono di Andrea. Ripensò alla lettera che aveva ricevuto e agli oggetti lasciati sul suo letto.
Aveva l’impressione di essere l’unica persona al mondo a sapere che la polizia aveva arrestato la persona sbagliata.