Capitolo 1

Venerdì 28 ottobre 2016

L’ispettore capo Erika Foster si strinse nell’ingombrante giubbotto di salvataggio per ripararsi dal vento ghiacciato, rimpiangendo di non aver indossato qualcosa di più pesante. Il piccolo gommone della polizia metropolitana avanzava tra le acque dell’Hayes Quarry, trascinandosi dietro un trasponder compatto che sondava il fondale. La cava dismessa si trovava al centro di Hayes Common, novanta ettari di bosco e brughiera che fiancheggiavano il villaggio di Hayes, periferia di South London.

«L’acqua è profonda ventitré metri e sette», disse il sergente Lorna Crozier, a capo delle attività di ricerca subacquea. A un’estremità dell’imbarcazione, era china sullo schermo che mostrava i risultati del sonar in variopinte sfumature di viola denso, che si espandevano sul monitor come una ferita.

«Quindi non sarà facile tirare fuori quello che cerchiamo?», domandò Erika, cogliendo il tono della sua affermazione.

Lorna annuì. «Quando ci si avvicina alla soglia dei trenta metri tutto si fa più complicato. I miei sub riescono a stare sotto solo per poco tempo. E la profondità media di un laghetto o di un canale si aggira intorno a un paio di metri. Persino con l’alta marea, il Tamigi non supera i dieci, dodici al massimo».

«Potrebbe esserci qualsiasi cosa là sotto», commentò l’agente John McGorry, schiacciato nel minuscolo sedile di plastica accanto a Erika. L’ispettore seguì lo sguardo del giovane che sorvolava la superficie increspata dell’acqua. La visibilità era ridotta a una manciata di centimetri, poi tutto diventava un miscuglio di ombre scure.

«Vuoi che ti prenda in braccio, per caso?», lo rimproverò quando praticamente le salì sopra per affacciarsi dal gommone.

«Scusa, capo», disse lui con un sorriso, tornando immediatamente al suo posto. «Ho visto un programma su Discovery Channel in cui dicevano che soltanto il cinque per cento dell’oceano è stato mappato, lo sapevi? E l’acqua occupa il settanta per cento della superficie terrestre, il che significa che il sessantacinque per cento del pianeta, esclusa la terra ferma ovviamente, è inesplorato…».

Sul ciglio dell’acqua, una ventina di metri più in là, ciuffi di giunchi morti dondolavano spinti dal vento. Sull’erba di fronte alla riva era parcheggiato un veicolo di supporto; lì accanto una squadra di sub stava preparando l’attrezzatura per l’immersione. I giubbotti di salvataggio arancioni erano l’unica nota di colore nell’uggioso pomeriggio autunnale. Le ginestre e l’erica dipingevano il panorama alle loro spalle di un’alternanza di grigi e marroni, più in là s’intravedeva qualche albero spoglio. Il gommone raggiunse la riva della cava e rallentò.

«Giriamo», annunciò Barker, un giovane poliziotto al timone del motore fuoribordo. Effettuò una curva stretta, preparando l’imbarcazione a solcare le acque per la sesta volta.

«Credi che là sotto possa esserci qualche pesce o anguilla di dimensioni, non so, mostruose?», domandò John a Lorna, con gli occhi pieni di entusiasmo.

«Mi è capitato di vedere dei bei pescioni quando facevo immersioni, ma questa cava non sbuca da nessuna parte, perciò tutto ciò che si trova là sotto vi è stato portato», rispose Lorna con un occhio incollato allo schermo.

«Dove sono cresciuto io, a St. Mary Cray, c’era un negozio di animali che vendeva cuccioli di coccodrillo, a quanto si diceva…». Di fronte al sopracciglio alzato di Erika non ebbe il coraggio di finire la frase.

Era sempre su di giri e non la piantava mai di chiacchierare. E su questo l’ispettore poteva anche chiudere un occhio. Ma lavorare con lui la mattina presto la metteva a dura prova.

«Non stiamo cercando un coccodrillo, John, ma dieci chili di eroina in un container impermeabile».

John le lanciò un altro sguardo e annuì. «Scusa, capo».

Erika controllò l’orologio. Quasi le tre e mezza.

«Che valore hanno sul mercato dieci chili?», chiese Barker, ancora al timone.

«Quattro milioni di sterline», rispose Erika tornando a fissare le immagini del sonar che si alternavano sullo schermo.

Il ragazzo fece un fischio. «E immagino che siano stati gettati qui apposta, no?».

Erika annuì. «Jason Tyler, il tizio che abbiamo in custodia, stava aspettando che si calmassero le acque per tornare a prenderli».

Non aggiunse però che potevano tenerlo sotto custodia soltanto fino a mezzanotte.

«Davvero pensava di recuperarli? Anche con una squadra di sub esperti, sarà una bella sfida per noi», disse Lorna.

«Per quattro milioni di sterline su un piatto d’argento? Sì, penso proprio che sarebbe tornato a prenderli», ribatté Erika. «Speriamo di riuscire a rilevare le sue impronte nelle buste di plastica che troveremo dentro».

«Come avete scoperto che l’aveva gettati qui?», chiese Barker.

«Grazie alla moglie», rispose John.

L’agente Barker gli lanciò un’occhiata che soltanto un altro uomo poteva capire e fischiò di nuovo.

«Aspettate. Ecco, qui forse c’è qualcosa. Spegni il motore», ordinò Lorna avvicinandosi di più al minuscolo schermo.

Fra le varie sfumature di viola brillava una piccola sagoma nera. L’agente Barker spense subito il motore fuoribordo facendo piombare la cava nel silenzio assoluto, interrotto soltanto dallo sciabordio dell’acqua causato dal rallentamento del gommone. Si alzò e raggiunse la collega.

«Stiamo esaminando un’area di quattro metri per ogni lato della barca», disse Lorna, muovendo la mano minuta sopra la chiazza sul monitor.

«Sì, la scala è corretta», concordò Barker.

«Li abbiamo trovati, secondo voi?», domandò Erika con la speranza che si gonfiava nel petto.

«Può darsi», rispose Lorna. «Ma magari si tratta di un vecchio frigorifero. Non lo sapremo finché non saremo laggiù».

«Ti immergerai oggi stesso?», le domandò l’ispettore cercando di mantenere un atteggiamento positivo.

«No, mi tocca restare sulla terra ferma, purtroppo. Ho già fatto un’immersione ieri e devo rispettare dei periodi di riposo», rispose Lorna.

«Dove sei stata ieri?», domandò John.

«A Rotherhithe. Abbiamo dovuto recuperare il corpo di un suicida nel lago, nella riserva naturale».

«Wow, deve essere pazzesco trovare un cadavere sott’acqua, no?».

Lorna annuì. «L’ho trovato io. A tre metri di profondità. Stavo nuotando con zero visibilità e a un certo punto ho sfiorato con le mani un paio di caviglie, ho tastato più su e c’erano le gambe. Era praticamente in piedi sul fondale».

«Cavoli. In piedi sul fondale?», fece John.

«A volte capita. Ha a che fare con la composizione del gas corporeo e con il processo di putrefazione».

«Dev’essere affascinante. Mi sono arruolato da pochi anni, questa è la prima volta che collaboro con l’unità subacquea», commentò John.

«In realtà troviamo tonnellate di roba orribile. La cosa peggiore è quando t’imbatti nei sacchi pieni di cuccioli».

«Che razza di bastardi. Faccio la poliziotta da venticinque anni, ma ogni volta mi sorprendo di fronte agli abissi di depravazione che può toccare la gente». Erika notò che per un istante tutti si voltarono a fissarla: stavano cercando di calcolare quanti anni avesse, era evidente. «Allora, questa anomalia? Quanto ci mettete a scendere giù e tirarla a secco?», chiese riportando l’attenzione sullo schermo.

«La segnaleremo con una boa e ci passeremo sopra un’altra volta», rispose Lorna spostandosi sul lato del gommone per sistemare una boa di segnalazione alla corda. Rovesciò i pesi in acqua, che scomparvero velocemente nel liquido scuro e profondo lasciando visibile soltanto l’estremità della corda sottile. La boa di segnalazione rimase lì a galleggiare mentre l’agente Barker accendeva il motore e faceva partire il gommone.

Un’ora più tardi gli agenti avevano battuto l’intero specchio d’acqua della cava e identificato tre possibili anomalie. Erika e John erano scesi sulla terraferma per scaldarsi un po’. Mentre quella giornata di fine ottobre giungeva al termine, si stringevano nel furgoncino dell’unità subacquea con in mano due tazze di polistirolo piene di tè e osservavano i sommozzatori all’opera.

Lorna era in piedi sulla riva, teneva in mano un capo della corda chiamata jackstay. La corda finiva in acqua, toccava il fondale della cava per poi risalire a sei metri di distanza dal bagnasciuga. Il gommone era ancorato accanto alla prima boa di segnalazione e controllato dall’agente Barker, che teneva l’altro capo della jackstay. Erano passati dieci minuti da quando i sub si erano immersi in acqua. Erano partiti dai capi opposti della corda, per ispezionare ciascun lato del fondale fino a incontrarsi nel mezzo. Accanto a Lorna c’era un altro sommozzatore della squadra, chino su una ricetrasmittente grande come una ventiquattrore. Erika sentiva le voci dei sub che comunicavano grazie alle radio all’interno delle maschere.

«Zero visibilità, ancora niente… Dovremmo incontrarci al centro fra poco…», diceva la voce tintinnante alla radio.

Erika fumava nervosamente la sua sigaretta elettronica, accendendo di rosso il LED all’estremità. Espirò una nuvola di vapore bianco.

L’avevano trasferita al dipartimento di polizia di Bromley da tre mesi, ma stava ancora cercando di adattarsi al nuovo team, di trovare un equilibrio con la squadra. Solo pochi chilometri la separavano dal suo vecchio distretto di Lewisham, South London. Ma pochi chilometri potevano fare un’enorme differenza, se passavi dalla periferia di Londra all’inizio della contea di Kent. E lei stava cominciando ad abituarsi. C’era un’atmosfera più paesana da quelle parti.

Guardò John, che era al telefono una ventina di metri più in là: sorrideva mentre parlava. Chiamava sempre la sua ragazza, non appena ne aveva occasione. Riagganciò un momento dopo, e si avvicinò di nuovo.

«I sommozzatori stanno ancora cercando?», domandò.

Erika annuì. «Nessuna buona notizia… Se penso che dovrò rilasciare quel piccolo bastardo…».

Il piccolo bastardo in questione era Jason Tyler, uno spacciatore di bassa lega che nel giro di breve tempo era riuscito a prendere il controllo dei traffici al confine fra Kent e South London.

«Continuate a tenere la corda tesa, la sento un po’ allentata…», disse il sommozzatore alla radio.

«Capo?», chiese John con un filo di imbarazzo.

«Sì?»

«Prima era Monica, la mia ragazza, al telefono… Lei, noi, vorremmo invitarti a cena».

Erika si voltò a guardarlo, tenendo sempre un occhio puntato su Lorna che riavvolgeva appena la jackstay con i piedi ben piantati sulla riva. «Come?»

«Le parlo spesso di te… Bene, s’intende. Le ho detto quante cose ho imparato al tuo fianco, e che il lavoro è diventato molto più interessante. Mi sproni a essere un detective migliore, sei una vera fonte di ispirazione… Comunque, Monica vorrebbe preparare le lasagne. Sono davvero buone. E non lo dico perché è la mia ragazza, sono sul serio…», ma non terminò la frase.

Erika stava fissando lo spazio che divideva Lorna dal gommone, sei metri all’incirca. La luce stava svanendo in fretta. I sommozzatori dovevano essere vicinissimi a incontrarsi al centro ormai. Se fosse successo, si sarebbero ritrovati con un pugno di mosche in mano.

«Allora, che ne dici, capo?»

«John, siamo nel bel mezzo di un caso importante», lo rimproverò Erika.

«Non intendevo oggi. Un altro giorno, magari? A Monica farebbe molto piacere incontrarti. E se vuoi portare qualcuno, per noi va bene. Il signor Foster, forse?».

Erika si voltò a guardarlo. Negli ultimi anni in polizia erano circolati mille pettegolezzi sul suo conto, perciò la sorprese scoprire che John non ne sapesse nulla. Fece per rispondere, ma venne preceduta da un urlo della squadra di supporto. Li chiamavano a riva.

Corsero da Lorna e dall’agente, ancora chino sulla piccola ricetrasmittente. Sentirono uno dei sub che diceva: «C’è qualcosa incastrato sotto il fango… Ma mi serve aiuto per tirarlo fuori… Come sono messo con il tempo?». La voce metallica riecheggiò nell’aria fredda, seguita da una piccola interferenza, bolle nel respiratore, mentre l’agente rispondeva al sommozzatore a dieci metri di profondità.

Lorna si voltò verso Erika: «Ci siamo, credo. Potrebbe essere quello che stavamo cercando».

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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