Capitolo 55

Simone correva a perdifiato nei vicoli del centro. Pioveva a dirotto, sentiva il sangue scorrerle lungo il collo; aveva la bocca intorpidita e il labbro superiore era gonfio e faceva un male cane. Aveva combinato un casino.

All’inizio era andato tutto liscio. Era riuscita a entrare nel complesso di Bowery Lane Estate grazie alla sua divisa da infermiera. La balconata del secondo piano era deserta, aveva superato le varie finestre senza far rumore. In un appartamento aveva visto un uomo addormentato di fronte al televisore lampeggiante. Simone si era fermata a osservarlo per un momento. I piedi divaricati, un braccio piegato sul busto, i movimenti regolari del petto illuminati dalla luce tremolante…

Ma si era fatta forza e aveva continuato ad avanzare nel buio fino a raggiungere l’appartamento 37. La casa di Stephen Linley. Aveva appoggiato un orecchio sulla vernice rossa, ma non arrivava alcun rumore dall’interno. Aveva infilato la chiave nella serratura e la porta si era aperta con un leggero click.

Stephen Linley era tornato a casa un’ora dopo. Era rimasta ad aspettarlo nascosta nell’ombra del sottoscala, ascoltando attentamente ogni rumore della cucina. Lo aveva visto versarsi un bicchiere del succo che lei aveva drogato. Lo aveva mandato giù in un solo sorso, alla svelta, poi se n’era versato un altro e se l’era portato al piano di sopra.

Era passato vicinissimo al nascondiglio di Simone, dietro le pesanti pieghe della tenda dell’ampia finestra. E lei aveva sentito lo spostamento d’aria, aveva percepito il suo odore: acqua di colonia dolce e avvolgente, sudore umido e sesso. Lo odiava da morire.

Immobile, aveva ascoltato i suoi movimenti. Stephen Linley era andato in bagno e Simone lo aveva seguito nascosta nell’ombra, camminando sulla moquette morbida senza fare il minimo rumore. La porta del bagno era chiusa, ma lo aveva sentito slacciarsi la cintura e pisciare.

Goditela per bene, perché sarà l’ultima, aveva pensato. Aveva raggiunto la camera e aperto cautamente il marsupio che teneva stretto intorno alla vita. Aveva tirato fuori la busta di plastica attentamente ripiegata.

Si era avvicinata al letto ed era scivolata sotto, sulla moquette. L’attesa era la parte che preferiva, rendeva veri tutti i suoi incubi di bambina: l’uomo nero che si nascondeva sotto il letto, i mostri che si annidavano nell’oscurità. Solo che adesso il mostro era lei, e ne andava fiera.

Aveva ascoltato i rumori attutiti di Stephen in bagno. Lo scroscio d’acqua della doccia, il fruscio della tenda che veniva tirata…

Qualche minuto dopo, Simone aveva visto i suoi piedi intorno al letto. Si muoveva in modo incerto. Il cellulare si era messo a suonare e Stephen aveva imprecato, cercandolo goffamente nelle tasche dei pantaloni. Aveva premuto un tasto per rifiutare la chiamata. Il telefono gli era sfuggito di mano, atterrando per terra accanto a lei. Lo schermo stava ancora lampeggiando. Poi, all’improvviso, Stephen aveva perso l’equilibrio e si era accasciato sul materasso. Simone si era appiattita ancora di più sotto il letto, rintanandosi nell’ombra. Sopra di lei, il materasso cigolava.

«Santo cielo, ma quanto ho bevuto?», lo aveva sentito mormorare. Simone aveva atteso qualche altro minuto prima di prendere il telefono sulla moquette. Aveva allungato un braccio e lo aveva spento. Lentamente, senza fare rumore, era scivolata fuori. Stephen Linley era steso su un fianco e le dava la schiena, mentre con una mano tremante si sfiorava il viso. Era rimasta qualche secondo a osservarlo, ascoltando i suoi lamenti, e poi era uscita alla svelta dalla camera e aveva sceso le scale. Il contatore elettrico si trovava all’interno di una piccola credenza sotto le scale a chiocciola. Lo aveva aperto e staccato la corrente.

Aveva aspettato che i suoi occhi si abituassero al buio. Aveva lanciato uno sguardo ai libri che aveva scritto, impilati ordinatamente sulle mensole: Discesa nell’abisso, Dalle mie fredde mani morte, La ragazza in gabbia. Suo marito amava quei libri, e gli piaceva mettere in pratica con Simone gli orrori e le torture che la mente di Stephen metteva su carta. Per questo lo odiava. Le era tornato in mente il giorno in cui Stan l’aveva tenuta immobile e le aveva versato l’acqua bollente sul corpo nudo… inspirandosi a Dalle mie fredde mani morte.

Aveva indugiato lì per qualche secondo, assaporando il silenzio interrotto solo dai lamenti di Stephen al piano di sopra.

«Sto arrivando. Vengo a prenderti, maledetto bastardo», aveva bisbigliato. Aveva salito le scale di corsa.

Il letto cigolava e dondolava mentre lei si sistemava al suo fianco. Con un leggero crepitio della plastica, Simone gli aveva infilato la busta sulla testa.

Stephen era stato preso dal panico ed era scattato subito, colpendo Simone in testa con un pugno. Lei aveva cercato di ignorare il dolore e lo stordimento, e aveva stretto l’elastico intorno al collo ancora più forte. Stephen l’aveva colpita di nuovo, sulla bocca. La potenza di quel pugno l’aveva sorpresa. A quest’ora la droga avrebbe già dovuto fare effetto, aveva pensato preoccupata. Aveva dato uno strattone e il cordoncino si era stretto ancora di più, fino a ferirgli la pelle del collo. Stephen Linley aveva cominciato a dimenarsi sul materasso. Simone pensava che stesse cercando di liberarsi, ma aveva capito le sue vere intenzioni solo quando il braccio di Stephen era scattato verso l’alto e l’aveva colpita alla testa con qualcosa di molto duro e pesante. La droga lo aveva indebolito, non aveva abbastanza forza per sferrare un colpo come si deve. L’oggetto con cui l’aveva colpita era rotolato sul materasso.

Il sacchetto ormai gli stringeva la testa, la plastica si appiccicava al volto conficcandosi nella bocca aperta. Simone aveva mantenuto la presa sul sacchetto con una mano, mentre con l’altra cercava l’oggetto. In quel momento Stephen le aveva tirato una gomitata sulla tempia, forte. La mano di Simone si era chiusa sul pesante posacenere di marmo. Intanto lui stava lottando furiosamente con la plastica, in preda all’asfissia e ai conati di vomito. Aveva puntato i piedi sul materasso e sollevato le gambe. Simone non riusciva più a mantenere la presa, così aveva sollevato il posacenere e con tutta la sua forza glielo aveva sbattuto sulla testa. Un suono raccapricciante. Gli aveva sfondato il cranio. Aveva tirato di nuovo su il posacenere e lo aveva colpito ancora e ancora. Al terzo tentativo, c’era stata un’esplosione di sangue dentro la plastica e frammenti di ossa erano finiti sul muro.

Simone era rimasta seduta sul materasso, tremando come una foglia. Era finita. C’era riuscita. Ma aveva combinato un casino. Era corsa fuori dalla stanza, barcollando per le scale. Era scappata dall’appartamento.

Si fermò solo quando fu al sicuro nel buio sotto l’acqua che scrosciava.

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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