Lee Kinney emerse dalla casetta a schiera, l’ultima della fila, dove viveva ancora con sua madre, e lanciò un’occhiata alla strada coperta di bianco. Tirò fuori un pacchetto di sigarette dai pantaloni della tuta e se ne accese una. Aveva nevicato per tutto il weekend, e ancora non aveva smesso. I nuovi fiocchi cancellavano il turbinio di impronte e scie lasciate a terra dai pneumatici. La stazione ferroviaria di Forest Hill, ai piedi della collina, era immersa nel silenzio. I pendolari del lunedì mattina, che di solito sfrecciavano diretti ai loro uffici al centro di Londra, probabilmente erano ancora al calduccio sotto le coperte, a godersi quell’inaspettata mattinata libera insieme alle loro dolci metà.
Bastardi fortunati.
Lee era disoccupato da quando aveva lasciato la scuola, sei anni prima, ma i bei vecchi tempi in cui poteva contare sul sussidio di disoccupazione senza far nulla erano finiti. Il nuovo governo conservatore aveva dichiarato guerra ai disoccupati di lungo corso e adesso Lee doveva darsi da fare per mantenere il sussidio. Gli avevano assegnato un lavoretto facile facile come giardiniere all’Horniman Museum, a una decina di minuti a piedi da casa. Quella mattina sarebbe volentieri rimasto sotto le coperte come tutti quanti, ma il centro di collocamento non si era fatto vivo per comunicargli che la giornata di lavoro era cancellata. Durante l’acceso battibecco che era seguito, sua madre aveva detto che se non fosse andato al lavoro gli avrebbero sospeso il sussidio e avrebbe dovuto trovarsi un altro posto in cui vivere.
Lee udì battere sul vetro della finestra, spuntò fuori il volto emaciato di sua madre che gli fece cenno di andare. Lui le mostrò il dito medio e si incamminò su per la collina.
Cinque graziose adolescenti venivano verso di lui. Indossavano le giacche rosse, le gonne corte e i calzettoni al ginocchio della scuola femminile di Dulwich. Stavano chiacchierando freneticamente con il loro accento affettato, commentando la decisione della scuola di rispedirle a casa, mentre contemporaneamente armeggiavano con i loro iPhone. I caratteristici auricolari bianchi ondeggiavano e sbattevano sul taschino della giacca. Occupavano tutta la strada e non si spostarono quando Lee le raggiunse, perciò fu costretto a mettere un piede oltre il cordolo, in un punto fangoso che la spargisale aveva trascurato. Sentì del liquido ghiacciato penetrare nelle sue scarpe da ginnastica nuove e lanciò un’occhiataccia alle ragazzine, ma erano troppo prese dal loro chiacchiericcio tribale, dai gridolini e dalle risate.
Che ricche puttanelle arroganti, pensò lui. Man mano che saliva, l’orologio del campanile dell’Horniman Museum spuntava sempre più tra le fronde nude degli olmi. La neve si era posata qua e là sui mattoni color sabbia, i fiocchi erano rimasti appiccicati come brandelli di carta igienica.
Lee svoltò su una stradina residenziale che correva parallela alla ringhiera di ferro che delimitava la proprietà del museo. Il pendio si fece più ripido, le case più imponenti. Quando raggiunse la cima si fermò un momento a riprendere fiato. I fiocchi di neve, gelidi e taglienti, gli ricaddero sugli occhi. Se la giornata era bella da lì si poteva vedere tutta Londra, per chilometri e chilometri fino al London Eye, al Tamigi. Ma quel giorno erano calate delle fitte nubi bianche e Lee riuscì a vedere soltanto l’imponente profilo della tenuta di Overhill, sulla collina di fronte.
Il cancelletto era chiuso. Il vento aveva ripreso a soffiare e Lee, che indossava dei semplici pantaloni della tuta, rabbrividì. Il capo dei giardinieri era un vecchio idiota, Lee di solito lo aspettava e si faceva aprire da lui, ma in strada non si vedeva anima viva. Si guardò intorno, scavalcò il cancelletto ed entrò nel giardino del museo, imboccando poi un viale che si inoltrava tra due siepi di sempreverdi.
Adesso che era protetto dalle raffiche di vento, tutto intorno a lui calò un silenzio inquietante. La neve si ammucchiava velocemente, coprendo le impronte che aveva lasciato tra i due filari di siepi. L’Horniman Museum e i terreni della proprietà comprendevano quasi sette ettari, e i capanni degli attrezzi erano proprio in fondo, accostati a un muro di pietra ricurvo. Ogni cosa era coperta di bianco e Lee perse il senso dell’orientamento, inoltrandosi più del necessario nel giardino e sbucando vicino alla serra. Quando vide l’edificio decorato in vetro e ferro battuto rimase sorpreso. Ritornò sui suoi passi, ma dopo qualche minuto si ritrovò di nuovo in un punto che non gli era familiare, di fronte a un bivio del sentiero.
Quante volte ho attraversato questo maledetto giardino?, pensò. Imboccò il sentiero sulla destra, che scendeva in un avvallamento. C’erano dei cherubini di pietra su piedistalli coperti di neve. Il vento ululò sfrecciando tra le statue e quando Lee ci passò davanti ebbe l’impressione che gli occhietti bianchi e vuoti dei cherubini lo fissassero. Si fermò e si schermò gli occhi con la mano per proteggersi dalla neve, mentre cercava di individuare la via più breve per il centro accoglienza. In genere i giardinieri non erano ammessi all’interno del museo, ma fuori si gelava e forse il bar era aperto, quindi vaffanculo, anche lui aveva diritto a scaldarsi come qualunque altro essere umano.
Sentì il telefono vibrare nella tasca e lo tirò fuori. Era un messaggio del centro di collocamento, diceva che A CAUSA DELLE CONDIZIONI METEREOLOGICHE AVVERSE quel giorno non era atteso sul posto di lavoro. Lee si rimise il cellulare in tasca. I cherubini parevano tutti voltati nella sua direzione. Era così anche prima? Immaginò le loro candide testoline muoversi lentamente per seguirlo mentre attraversava il giardino. Scacciò via quel pensiero e accelerò, concentrandosi sul terreno coperto di neve, finché non sbucò in una tranquilla radura vicino a un laghetto dove una volta si poteva andare in barca.
Si fermò di nuovo e socchiuse gli occhi nel turbinio di fiocchi di neve. Al centro del candido ovale di neve che si era posato sulla superficie ghiacciata del lago c’era una barca a remi azzurra. Vicino alla sponda opposta c’era una rimessa in disuso e sotto la tettoia Lee intravide un’altra vecchia imbarcazione a remi.
La neve si stava accumulando sulle sue scarpe già fradicie, e nonostante la giacca il freddo gli era penetrato nelle ossa. Con una certa vergogna si accorse di aver paura. Doveva uscire di lì in qualche modo. Se fosse tornato indietro fino all’avvallamento avrebbe potuto riprendere il sentiero che costeggiava il giardino e sbucare su London Road. Il benzinaio doveva essere aperto, lì avrebbe potuto comprarsi altre sigarette e un po’ di cioccolata.
Stava per voltarsi quando udì un rumore nel silenzio. Un suono metallico e distorto, che arrivava dalla rimessa.
«Ehi! C’è qualcuno?», gridò con voce stridula e impaurita. Solo quando il rumore cessò, e ricominciò pochi secondi dopo, Lee realizzò che si trattava della suoneria di un cellulare, forse quello di un collega.
La neve non gli consentiva di vedere dove finisse il sentiero e cominciasse il lago, perciò Lee rimase vicino alla linea degli alberi che delimitava la superficie dell’acqua e si incamminò nella direzione da cui proveniva la suoneria. Era molto flebile. Quando si avvicinò Lee si rese conto che arrivava dalla rimessa.
Raggiunse la costruzione, si chinò a guardare all’interno e vide una luce lampeggiare dietro la barca. La suoneria si interruppe e qualche secondo dopo anche la luce scomparve. Lee era sollevato che fosse soltanto un telefono. Spesso barboni e drogati scavalcavano il cancello di notte e i giardinieri trovavano sempre portafogli vuoti – gettati via dopo averli ripuliti di soldi e carte di credito –, preservativi usati e siringhe. Anche il telefono probabilmente era stato gettato… Però perché?… Dev’essere un telefono di merda per sbarazzarsene in questo modo, pensò Lee.
Fece il giro della rimessa. Dalla neve spuntavano i piloni di un piccolo pontile, che proseguiva fin sotto il tetto. Lì dove la neve non era riuscita ad arrivare, Lee notò che il legno era completamente marcio. Oltrepassò il pontile, chinandosi sotto la bassa tettoia. Anche lì il legno era marcio e scheggiato, pieno di ragnatele. Finalmente raggiunse la barca e vide che sul lato opposto della rimessa, posato su una piccola ringhiera di legno, c’era un iPhone.
Fu colto dall’eccitazione. Giù al pub poteva venderlo senza problemi. Provò a spingere la barca a remi con un piede, ma quella non si mosse, il ghiaccio tutto intorno la teneva ferma. Oltrepassò la poppa e si fermò sul lato opposto del pontile. Si mise in ginocchio e si chinò in avanti, poi con la manica della giacca spazzò via un primo strato farinoso di neve, scoprendo una spessa lastra di ghiaccio. L’acqua sottostante era limpida e Lee riuscì persino a vedere due pesci a strisce rosse e nere che nuotavano pigramente nelle profondità del lago, producendo una scia di minuscole bollicine, che salivano su fino al lastrone di ghiaccio e poi si allontanavano in direzioni opposte.
Il telefono riprese a squillare e Lee balzò in piedi, rischiando di scivolare dal pontile. Quella patetica suoneria rimbalzava sul legno del tetto. Adesso riusciva a vedere bene l’iPhone illuminato, dall’altra parte della rimessa, posato di fianco su un listello di legno che si innalzava appena sul lago ghiacciato. Aveva una cover coperta di brillantini. Lee si riavvicinò alla barca a remi e scavalcò il bordo. Posò un piede sul legno per testare se era in grado di reggere il suo peso, rimanendo con l’altro sul pontile. La barca non si mosse. Sollevò l’altra gamba e montò completamente dentro la barca, ma anche da lì l’iPhone rimaneva fuori portata. Spinto dalla prospettiva di intascare una bella mazzetta di banconote, Lee sollevò di nuovo il piede dalla barca e lo posò esitante sul ghiaccio. Rimanendo aggrappato al bordo dell’imbarcazione aumentò la pressione sul ghiaccio, rischiando di bagnarsi completamente un piede e tendendo l’orecchio per udire qualsiasi suono che indicasse fragilità o instabilità. Niente. Fece un passo. Poi un altro. Era come camminare sul cemento. Il tetto di legno era molto inclinato, per raggiungere l’iPhone Lee doveva mettersi a quattro zampe.
Mentre si chinava, la luce dello schermo illuminò l’interno della rimessa. Lee notò un paio di vecchie bottiglie di plastica e dei rifiuti di vario genere che spuntavano dal ghiaccio, poi vide qualcosa che lo paralizzò… sembrava la punta di un dito.
Con il cuore che gli martellava nel petto, allungò una mano e lo afferrò. Era freddo e ruvido. Aveva del ghiaccio incrostato sotto l’unghia coperta di smalto viola. Con la manica del cappotto ripulì il ghiaccio tutto intorno. La luce dell’iPhone colorava di una sfumatura verde la superficie e sotto il lastrone Lee vide una mano, a cui apparteneva il dito che spuntava fuori dal ghiaccio. Il resto del braccio doveva essere sparito nelle profondità del lago.
Il telefono smise di suonare e calò un silenzio assordante. Poi la vide. Proprio sotto al punto in cui si era accovacciato c’era il volto di una ragazza. Gli occhi marroni, vacui e gonfi, lo fissavano. Ciuffi di capelli scuri erano rimasti intrappolati nel ghiaccio. Un pesce passò lentamente davanti alle labbra della ragazza, dischiuse come se stesse per dire qualcosa, sfiorandole con la coda.
Lee balzò all’indietro urlando e si alzò di scatto, sbattendo la testa contro il tetto basso della rimessa. Saltò su di nuovo, scivolò e ricadde sul ghiaccio. Rimase immobile per un momento, in preda allo shock. Poi udì un flebile rumore, qualcosa che si rompeva. In preda al panico prese a scalciare e a dimenarsi, tentando di rimettersi in piedi per allontanarsi il più possibile dalla ragazza morta, ma scivolò di nuovo. Questa volta la lastra di ghiaccio si frantumò e lui precipitò nell’acqua gelida. Sentì le braccia rigide della ragazza intrecciarsi alle sue, la pelle fredda e viscida sfiorarlo. Più si dimenava, più le loro membra si aggrovigliavano. Il freddo era intenso e tagliente. Ingoiò quell’acqua marcia, scalciò, agitò le braccia. In qualche modo riuscì a raggiungere la fiancata della barca. Si tirò su e vomitò. Quanto avrebbe voluto prendere quel telefono. E non per venderlo.
Voleva solo chiedere aiuto.