Erika trascorse il resto della mattinata a vagare in auto senza meta. Si sentiva frustrata, impotente. Passò davanti alla casa di Isaac a Blackheath e vide che le ricerche andavano ancora avanti. C’era un agente a guardia del nastro giallo messo di fronte all’ingresso. Era strano vedere la casa del suo amico, così elegante – due piante di yucca davanti al portone nero e lucido, le finestre splendenti al sole – che veniva messa sotto custodia.
Arrivò fino a Shirley, dove si trovava la casa di Penny Munro. La strada era tranquilla e molte case avevano le tende tirate per proteggersi dal sole cocente. Con il suo prato verde e rigoglioso, il giardino di Penny spiccava fra gli altri. A quanto pareva, Gary continuava a innaffiarlo. Erika avrebbe tanto voluto sapere cos’altro stesse combinando. Stava quasi per fermarsi quando il buon senso la spinse a desistere. Fece inversione e se ne tornò a Forest Hill.
Quando arrivò finalmente a casa, iniziò a piovere. Rovistò dappertutto in cerca di qualcosa da bere, ma il frigo era vuoto, come anche gran parte degli scaffali.
Cominciò a vagare per l’appartamento, irrequieta come un animale in gabbia. Alla fine accese il computer e si versò ciò che rimaneva del whisky aperto. Si guardò intorno, odiando la sua vita, odiando il suo lavoro. Odiando ogni cosa. La pioggia batteva sempre più forte. Aprì la finestra che dava sul cortile e si accese una sigaretta al riparo sulla soglia. Sentì un debole trillo alle sue spalle – Skype. Erika si precipitò dentro: forse era l’Ombra della notte.
E invece era sua sorella Lenka, che la chiamava da casa, dalla Slovacchia.
«Sto impazzendo», mormorò rendendosi conto che sì, era delusa. «Preferirei ricevere una chiamata da un serial killer che da mia sorella». Fece un respiro profondo e rispose.
«Ahoj zlatko!», cinguettò Lenka. Era in salotto, seduta sul suo ampio divano su cui era distesa una pelle di pecora. La parete alle sue spalle era di un accecante arancione, con numerosi ritratti dei suoi figli, Karolina e Jakub, sparsi qua e là. Lenka aveva i lunghi capelli biondi raccolti in uno chignon e, nonostante il pancione enorme, indossava una canottierina rosa con le bretelle sottili.
«Ehi, Lenka», disse Erika in slovacco, sorridendole. «Sembri sul punto di scoppiare!».
«Già. Non manca tanto ormai», rispose sua sorella. «Ho dovuto chiamarti: ho fatto l’ultima ecografia e indovina un po’? Un altro maschio!».
«È fantastico, congratulazioni», disse Erika.
«Marek è emozionatissimo. Mi ha appena portato in quella gioielleria in centro, ti ricordi? Quella di lusso, e mi ha regalato una cavigliera».
Marek era il marito di Lenka, e di recente era finito dentro per riciclaggio di merce rubata.
«Come se la sta cavando Marek?», domandò Erika.
«Ha ricominciato a lavorare».
«A lavorare? Ma non era in prigione?»
«Gli hanno dato la libertà vigilata un mese fa».
«E come ha fatto a ottenerla così presto? L’avevano condannato a quattro anni».
«Erika, sapevo che avresti reagito così… Si è ricordato una cosa, un’informazione che la polizia ha considerato utile, quindi l’hanno lasciato andare… Ti ho chiamato anche per dirti che non serve che mi mandi altri soldi. Ti ringrazio».
«Lenka…».
«No, sto bene, Erika. Marek è tornato adesso e le cose vanno bene».
«Perché non ti apri un conto in banca tuo? Così continuo a mandarteli e li tieni per te».
«Non ho bisogno che ti prendi cura di me».
«E invece sì. Sai benissimo che chi lavora per la mafia finisce in galera o al cimitero. Vuoi diventare una madre single con due figli – anzi tre, a carico?»
«Si è comportato bene, ce l’ha messa tutta e ha ottenuto la libertà vigilata», rispose Lenka gesticolando arrabbiata, come se la scarcerazione lo rendesse un ottimo padre. «Qui la vita è diversa, Erika».
«Non significa che sia giusto, però».
«Tu non capisci. Non puoi essere felice per noi e basta? C’è Marek adesso, che si prende cura della nostra famiglia. I bambini hanno dei vestiti nuovi e l’iPhone. A questo piccoletto non mancherà nulla. Saremo in grado di mandarli nelle scuole migliori e…».
«E perché passare tanto tempo a studiare quando Marek può andare dagli insegnanti e minacciare di farli fuori?»
«Non ho più voglia di parlarne, Erika. Non ti ho chiamato per litigare», disse Lenka, sistemandosi lo chignon e mettendo fine al discorso. «Dimmi di te. Stai bene? Ho provato a telefonarti su Skype. Per l’anniversario di Mark».
«Sto bene».
«Dovresti mettere delle foto alle pareti», suggerì Lenka sbirciando nella telecamera. «Casa tua sembra una cella».
«La tengo così per quando tu e Marek verrete a trovarmi. Così si sentirà subito a casa».
Nonostante la frecciatina, scoppiarono entrambe a ridere.
«Ti salutano i bambini, comunque», disse alla fine Lenka. «Sono andati in spiaggia con degli amichetti».
«Manda loro un bacio da parte mia», rispose Erika. «E fammi sapere quando inizia il travaglio, okay?»
«Okay… Ti tengo aggiornata. Ti voglio bene». Si appoggiò le dita sulle labbra e le mandò un bacio. Erika ricambiò e lo schermo tornò nero.
Dopo la videochiamata, in casa piombò un silenzio assordante. Erika fissò le pareti spoglie, soffermandosi sulla libreria piena di cianfrusaglie. Accanto a Cinquanta sfumature di grigio c’era Dalle mie fredde mani morte, il romanzo con dedica che Stephen Linley le aveva regalato. Si alzò in piedi e lo prese. Incominciò a leggere.