Simone tornò a casa dopo un infinito turno di lavoro e si chiuse la porta alle spalle, assaporando il silenzio nell’ingresso cupo. Sfilandosi il cappotto, andò al computer nella nicchia del sottoscala. Lo accese, entrò nella chat e scrisse:
ILGUFO: Ehi, Duca. Ci sei?
Passò qualche istante, poi DUCA rispose.
DUCA: Ciao, Gufo. Come va?
ILGUFO: L’ho visto di nuovo. Stan. Mio marito.
DUCA: Ah, sì? Stai bene?
ILGUFO: Non proprio. Sapevo che non era reale, ma era lì e sembrava vero. Vero come tutto il resto.
DUCA: Hai cambiato medicine?
ILGUFO: Sì.
DUCA: Cosa prendi?
ILGUFO: Halcion.
DUCA: Dosaggio? 0,125 mg?
ILGUFO: Sì.
DUCA: I disturbi della vista sono un effetto collaterale.
ILGUFO: Spiegami!
DUCA: Ci sono passato. Me ne hanno prescritti 0,5 mg, ma ancora non faceva niente: giorni e giorni senza chiudere occhio… Quindi, ora che fai?
Simone fissava lo schermo. Le parole si confondevano e si massaggiò gli occhi stanchi e arrossati. Soffriva d’insonnia da anni. Tutto era iniziato all’orfanotrofio, quando la paura le impediva di chiudere gli occhi la notte.
Erano passati più di vent’anni, e ormai aveva imparato a gestire l’insonnia. La sensazione di stanchezza e di stordimento di una notte priva di riposo. La sensazione di un corpo che marciva dall’interno. E aveva imparato a sembrare una persona normale.
Desiderava ardentemente dormire – lo desiderava tanto che non riusciva a pensare ad altro. Ma quando arrivava l’ora di andare a letto – una frase che alle sue orecchie suonava come una battuta di cattivo gusto – il suo corpo cadeva in uno stato di panico controllato. Il terrore della certezza che non sarebbe mai riuscita a dormire, ma avrebbe passato ore infinite stesa a letto a fissare la luce rossa della radiosveglia, mentre i pensieri correvano senza sosta nella sua mente.
La paura, Simone lo sapeva bene, era più forte la notte. Quando tutti gli altri hanno lasciato questo mondo, gli insonni restano completamente soli, bloccati nella penombra. L’insonnia aveva guidato Simone verso una relazione malsana e una gravidanza inaspettata. Aveva perso il bambino poco dopo il matrimonio riparatore con Stan. Un problema ordinario. Secondo il dottore l’aborto spontaneo durante la prima gravidanza era un rischio estremamente comune. Ma per lei non c’era stato nulla di ordinario. Aveva creduto che la sua vita potesse finalmente diventare normale, non vedeva l’ora di conoscere la giovane, piccola vita che cresceva dentro di lei.
Fresca di nozze, Simone aveva pensato che condividere il letto con un uomo l’avrebbe aiutata a dormire, ma ancora una volta si era ritrovata a fissare l’oscurità mentre vedeva Stan attraversare le diverse fasi del sonno: i movimenti lenti del suo petto ampio, il tremolio delle palpebre mentre gli occhi si muovevano sotto.
Certe volte, il ritmo del respiro pesante di Stan s’interrompeva bruscamente e lui apriva gli occhi, fissandola con sguardo vuoto e famelico. Nel cuore della notte, quando Simone si sentiva più vulnerabile, stanca e respingente, Stan le montava addosso allargandole le gambe con il dorso della mano – un gesto quasi svogliato, come se le sue cosce non fossero altro che uno stupido ostacolo che lo separava da ciò che desiderava davvero.
Nei primi tempi del matrimonio aveva sopportato. Il sesso era violento. Stan le faceva male. Inizialmente Simone aveva pensato che perdesse il controllo perché la desiderava troppo, si sentiva in obbligo di compiacerlo in tutto e per tutto. I doveri di una brava moglie. Era compito suo lasciarsi sfuggire i gemiti giusti e metterci passione.
E poi desiderava tanto un bambino. La possibilità di essere madre.
Una notte, mentre si faceva strada dentro di lei, le aveva morso violentemente un seno. Simone era rimasta scioccata. Ma più dello shock, era stata sopraffatta dal dolore. Stan aveva sollevato la testa, i denti erano sporchi di sangue scintillante e aveva continuato a spingere. Come se niente fosse.
Il mattino seguente si era scusato a lungo. Aveva pianto e promesso di non farlo più e per un po’ non avevano più fatto sesso.
Pian piano, però, le cose erano tornate come prima. Non riusciva a chiudere gli occhi neanche per una manciata di minuti, era debole e disperata, e lo lasciava fare. Man mano che passavano i mesi, e poi gli anni, Simone aveva perso ogni briciolo di forza, diventando docile e sottomessa proprio come nelle fantasie più oscure di suo marito. Si chiedeva spesso come aveva fatto la sua vita a prendere quella piega. Non aveva dei sogni? Non avrebbe voluto viaggiare, scappare, diventare un’altra persona?
Soltanto un figlio avrebbe potuto salvarla, ne era certa – ma un figlio non era mai arrivato. Alla fine aveva fatto tutti gli esami e aveva scoperto che l’aborto della prima gravidanza l’aveva resa sterile. La delusione non aveva fatto altro che alimentare i problemi nel loro matrimonio, gettando benzina sul fuoco. Simone veniva stuprata ripetutamente, poi restava sveglia e dolorante al buio. Ogni volta che Stan finiva, si allontanava da lei e volava nel mondo dei sogni.
A volte pensava che avrebbe anche potuto sopportare la violenza e gli abusi, se solo fosse riuscita a dormire. La privazione del sonno era peggio di una tortura – una sofferenza sconosciuta, malvagia. Qualcosa nel suo cervello cospirava per trattenerla in questo mondo, mentre tutti gli altri erano liberi di scomparire nei loro sogni.
Simone aveva compiuto trentacinque anni e la situazione non era cambiata: Stan aveva iniziato a bere senza controllo ed erano sommersi dai debiti. Nello stesso periodo, più o meno, internet era arrivato anche a casa loro e, in quelle notti buie e insonni, Simone aveva trovato uno spiraglio di luce: le chat online. All’inizio aveva frequentato dei gruppi di supporto, scambiando messaggi con altre donne che venivano picchiate e stuprate dai mariti. Potevano cancellare le loro paure solo parlando delle proprie esperienze, ma leggere su uno schermo la stessa situazione che viveva tutte le notti nell’intimità di casa sua era troppo patetico.
Era stato allora che aveva conosciuto il Duca.
Anche il Duca soffriva di insonnia. L’ascoltava sempre, senza giudicare. Parlavano di tutto, dai programmi televisivi che amavano alle piccole cose buffe che potevano capitare durante una giornata qualsiasi. Flirtavano.
Il Duca si descriveva come un uomo alto e bruno – Simone ne dubitava –, mentre lei diceva di essere alta e bionda. E questa era una bugia bella e buona. Uscivano dalle chat comuni per parlare da soli, in uno spazio privato e intimo. E talvolta le conversazioni si facevano piccanti e spinte. Il Duca le descriveva per filo e per segno cosa avrebbe voluto farle a letto; e Simone rispondeva. Si sentiva amata e desiderata.
Gli aveva parlato della sua situazione, del marito violento, ma non aveva mai rivelato il nome. Al Duca raccontava qualsiasi cosa: i più profondi segreti, le fantasie e i desideri più nascosti. E lui faceva lo stesso. Ma non avevano mai rivelato la loro identità, né si erano scambiati gli indirizzi. Lui era semplicemente il Duca e lei il Gufo.
Non ricordava precisamente quando i loro discorsi avevano cominciato a prendere una piega oscura. Forse una notte dopo che era stata stuprata. Solo allora aveva iniziato a chiamarlo così – stupro – e non sesso. Si era lamentata del fatto che il dottore le avesse prescritto le ennesime pillole che non facevano alcun effetto contro l’insonnia. E il Duca le aveva risposto:
DUCA: Magari farebbero effetto su tuo marito!
Simone era rimasta a fissare lo schermo per un po’. Poi avevano continuato a chiacchierare.
Ci erano volute altre due notti per trovare il coraggio. Aveva cucinato gli spaghetti per Stan e, mentre il sugo bolliva nella pentola, aveva preso una delle sue nuove pasticche di Zopiclone. Aveva aperto le capsule, tenendole sospese sulla pentola fumante… e aveva mischiato la polvere bianca al sugo.
Piena d’ansia, era rimasta a guardare Stan che mandava giù un bel piatto pieno per poi andarsene sul divano con una birra. Aveva appoggiato la testa al cuscino ed era svenuto nel giro di qualche minuto.
La gioia di Simone era stata subito rimpiazzata dalla paura, dall’improvvisa consapevolezza di aver fatto qualcosa di incredibilmente stupido. Non aveva pensato a cosa fare dopo averlo messo fuori gioco. E se fosse rimasto sul divano tutta la notte? Se si fosse svegliato il giorno dopo ancora lì? Si sarebbe insospettito di sicuro.
Era stato uno sforzo sovrumano sollevare Stan e portarlo al piano di sopra, trascinandolo come un ubriaco. Era convinta di aver combinato un casino e moriva di paura. Lo aveva fissato tutta la notte, mentre nella sua mente si affollavano pensieri di ogni sorta: scappare via, togliersi la vita. Ma poi il sole era sorto e Stan si era svegliato – rabbioso e spiacevole, certo. Ma era andato al lavoro senza dire niente.
È davvero così facile?, aveva pensato.
Dopo un mese le violenze erano peggiorate. Una sera in particolare era stata straziante: stavano guardando la televisione quando, senza alcun motivo, Stan l’aveva schiaffeggiata urlandole contro tutto il suo odio. Gli aveva rovinato la vita, diceva. Aveva iniziato a picchiarla ma Simone era riuscita a scappare e a chiudersi in bagno.
Si era nascosta nella vasca, rannicchiandosi e sentendolo vagare rabbiosamente per la cucina facendo un gran baccano. Alla fine aveva buttato giù la porta ed era entrato con una pentola in mano. Le aveva strappato i vestiti e rovesciato l’acqua bollente sul corpo nudo.
Le aveva ustionato il petto e l’addome. Le ferite si erano infettate, il dolore era così forte che Stan non aveva avuto scelta, aveva dovuto portarla dal medico. Lei aveva colto subito l’occasione per rivelare le violenze che aveva subito, ma il dottor Gregory Munro aveva sminuito la cosa. Per lui erano semplici sintomi di paranoia e psicosi legate all’insonnia. Aveva creduto che fossero tutte bugie! Certo, Stan aveva recitato bene la sua parte, fingendosi un bravo maritino preoccupato.
Era vero, le era capitato di perdere contatto con la realtà in passato. Aveva già avuto delle allucinazioni e aveva raccontato al dottor Munro tutte le cose irreali che aveva visto e sentito. E allora, nonostante le lacrime e le bruciature, il dottor Munro non le aveva creduto. Simone si era fidata di lui, e lui le aveva voltato le spalle prendendo le parti di Stan. Si era detto tanto in pena per lui, alle prese con una moglie matta! E l’aveva semplicemente fatta ricoverare.
Era stata dimessa una settimana dopo, per qualche tempo le violenze erano scemate. Ma Simone aveva ancora troppa paura di lasciarlo. Non vedeva una via di fuga, era sempre più disperata.
Lo aveva drogato di nuovo, stavolta svuotando le pillole nella birra che beveva a letto. Nel giro di pochi minuti, si era addormentato come un sasso. Aveva persino provato a svegliarlo – strattonandolo, scuotendolo – ma niente. Si era svegliato il mattino dopo senza sospettare nulla. Come al solito, si era lamentato di sentirsi intontito.
All’epoca il Duca aveva smesso del tutto di dormire. Diceva di volersi togliere la vita, descriveva nel dettaglio i modi in cui si sarebbe suicidato.
DUCA: Userei una di quelle suicide bag.
ILGUFO: Cos’è una suicide bag?
DUCA: Le chiamano anche exit bag…
ILGUFO: ???
DUCA: È una grossa busta di plastica con un cordoncino. E si usa per suicidarsi.
ILGUFO: Sembra doloroso.
DUCA: Non se la usi insieme a un gas, come l’elio o il nitrogeno. L’elio è più facile da reperire. Si vende in bombole, per le feste di compleanno dei bambini. Comunque, ti metti il sacchetto in testa e lo riempi di gas… Il gas ti aiuta a non farti prendere dal panico e così ti addormenti e basta. Per sempre. Una benedizione.
ILGUFO: È davvero così facile?
DUCA: Sì, con una di queste suicide bag sì. Ho letto un paio di forum online sul suicidio. Sai che se il sacchetto viene rimosso e non ci sono segni di lotta, è impossibile capire come ha fatto una persona a morire?
ILGUFO: Ti prego non farlo.
DUCA: Perché?
ILGUFO: Perché ho bisogno di te.
DUCA: Davvero?
ILGUFO: Sì… Sai, leggevo una cosa a proposito della filosofia orientale che…
DUCA: Evvai! Continua a parlare, sento che sto finalmente per addormentarmi, sai?
ILGUFO: Ah, ah. Dico sul serio. Leggevo questa cosa dello Yin e dello Yang. Due opposti perfettamente complementari. E se andassimo a letto insieme?
DUCA: Ti ascolto. Nudi?
ILGUFO: Perché no… Ma intendevo a dormire. E se potessimo fuggire lontano e dormire nello stesso letto?
DUCA: Dove?
ILGUFO: Non lo so. Da qualche parte, lontano. Resteremmo abbracciati fino ad addormentarci.
DUCA: Mi piacerebbe tantissimo. Te lo immagini… ci sveglieremmo freschi, lucidi. Come nuovi.
E Simone aveva avuto una rivelazione: lei non voleva morire. L’unica cosa che desiderava era non essere più una vittima. Aveva chiesto altre informazioni al Duca sulle suicide bag e poi aveva cancellato la cronologia del computer. Lui gliene aveva ordinata una e l’aveva fatta consegnare all’ospedale in cui lavorava.
Ovviamente la suicide bag non era per lei. Era per Stan. Non aveva neanche bisogno del gas: aveva accesso a una scorta quasi illimitata di sonniferi.
L’ultima volta che Stan l’aveva stuprata, era stato particolarmente violento. Come se, in un certo senso, avesse sentito che quella violenza sarebbe stata l’ultima. E così le aveva dato la forza di portare a termine il suo piano.
Il mattino seguente, mentre suo marito era nella doccia, Simone aveva deciso che l’avrebbe fatto quella sera stessa, non appena fosse tornato a casa dal lavoro. Era di sotto a preparare il tè, e di tanto in tanto lanciava un’occhiata alle pillole sopra al microonde, quando all’improvviso aveva sentito un tonfo dal piano di sopra. Era corsa come un fulmine su per le scale e aveva trovato Stan accasciato nella vasca, bianco come un lenzuolo.
Aveva chiamato un’ambulanza, quasi di riflesso. Era già morto quando era arrivato all’ospedale: un attacco di cuore a trentasette anni.
Da quel momento in poi, la sua vita era cambiata. Simone era diventata agli occhi di tutti la vedova inconsolabile, il marito morto un tragico eroe. Non aveva mai pagato per ciò che le aveva fatto. Simone avrebbe dovuto sentirsi sollevata ma, con il passare dei giorni, aveva cominciato a covare soltanto una rabbia incredibile. Una repulsione tremenda nei confronti dell’uomo che l’aveva impunemente privata degli anni migliori della sua vita.
Era diventata un’ossessione. Aveva smesso del tutto di dormire; le era stata tolta ogni cosa. Le piaceva fingere che Stan fosse ancora vivo. Così nessuno avrebbe provato pietà per lui.
Di colpo Simone si rese conto di essersi lasciata trasportare dai pensieri. Rimise a fuoco le parole confuse che brillavano sullo schermo del PC. Il Duca aveva scritto più volte, chiedendole dove fosse finita.
DUCA: Gufo?
DUCA: C6????
DUCA: ???????
ILGUFO: Scusami, Duca. Stavo sognando a occhi aperti.
DUCA: Allora? Che succede adesso? Potrò finalmente incontrarti? Stendermi a letto accanto a te? Lontano da qui?
ILGUFO: Presto. Molto presto. Devo solo occuparmi del prossimo nome della lista.
Simone ripensò alla sua lista. Esisteva solo nella sua mente, eppure era reale. Dopo aver ucciso il dottor Gregory Munro – l’uomo che aveva creduto a Stan anziché a lei – aveva cancellato il suo nome con una bella linea nera. E aveva fatto lo stesso con Jack Hart. Hart era stato più difficile da rintracciare. Quando aveva scritto quell’articolo su sua madre, definendola una donna orribile e negligente, era solo un giornalista ambizioso che voleva fare carriera con una storia sensazionale. E ce l’aveva fatta… Mentre lei era finita in un orfanotrofio, da sola, con tanti nuovi orrori da affrontare. Era stato Jack Hart a portarle via sua madre. La sua unica madre.
Simone pensò alla prossima vittima e sorrise. Sarebbe stata la migliore di tutte.