Erika rimase in silenzio nella stanza di Keith immersa nell’oscurità. L’aria era carica di polvere e calore. Cercava di captare anche il più piccolo suono, cancellando dalla sua mente la musica attutita del piano di sopra, ma niente: al di là della porta della camera non si sentiva nulla. Superò il letto scuro e ingombrante, uscendo nel corridoio. Un fascio di luce attraversava il vetro della porta d’ingresso colpendo la moquette, ma man mano che avanzava si immergeva sempre più nelle tenebre. Superò la porta della seconda camera, che era accostata. Riuscì appena a distinguere la sagoma delle due massicce sedie a rotelle che incombevano, vuote e silenziose, nell’ombra.
La musica si interruppe per qualche istante, e in quel silenzio a Erika parve di sentire qualcosa. Ma poi ripartì, un ritmo monotono e ripetitivo. Continuò ad avanzare, con tutti i nervi tesi, superando anche la porta spalancata del bagno. Dalla minuscola finestrella sopra il lavandino arrivavano i bagliori del lungomare, lasciò ai suoi occhi il tempo di abituarsi alle condizioni di luce.
Dei rumori coprirono il ritmo costante della musica. Uno scricchiolio, qualcuno che tirava su con il naso. Erika si fermò all’istante. Si avvicinò lentamente alla porta di vetro in fondo al corridoio ed estrasse il telefono. Non appena svoltò l’angolo del soggiorno, accese la torcia del cellulare.
E per poco non si mise a gridare a squarciagola: immobile, al centro della stanza, c’era una donna. Bassa, pallida come un fantasma. Aveva i capelli scuri, un caschetto disordinato. Gli occhi erano pozze di buio assoluto, che si restrinsero subito in due fessure non appena Erika le puntò contro la luce del telefono. Di fronte alla sconosciuta, Keith era accasciato sulla sedia a rotelle, con le braccia che ricadevano senza vita lungo i fianchi. Aveva un sacchetto di plastica legato intorno alla testa, così stretto che le lenti degli occhiali erano schiacciate contro le orbite.
«Chi sei tu?»
«Mi chiamo Simone», disse la donna, tirando su con il naso e asciugandosi una lacrima. «Non volevo ucciderlo».
«Mio Dio», mormorò Erika, con la voce tremante. Spostò il fascio di luce dal corpo di Keith e la puntò velocemente in faccia a Simone, sperando di confonderla e guadagnare qualche secondo per pensare alla sua prossima mossa. Ma la donna fu più rapida, ed Erika si ritrovò scaraventata contro il muro con un coltello puntato alla gola.
«Dammi il telefono», le disse Simone con una voce calma e stranamente acuta. Erika sentiva l’acciaio freddo contro la pelle. «Hai visto cosa sono in grado di fare. Non sto scherzando».
Erika le passò lentamente il cellulare. Riuscì a non distogliere lo sguardo solo ricorrendo a tutta la sua forza di volontà. Simone era bassa, ma la fissava con un’inquietante intensità. Spense la luce del telefono con uno scatto rapido della mano libera: Erika sentì che la batteria cadeva sulla moquette con un tonfo sordo. Nella penombra, le pupille di Simone si dilatarono come quelle di un drogato sotto effetto di stupefacenti. Buttò a terra il telefono ed Erika lo sentì scricchiolare e frantumarsi sotto il suo piede.
«Perché sei venuta fin qui, Erika Foster? Volevo uccidere lui e poi sparire dalla faccia della Terra».
Erika si guardava furiosamente intorno.
«No, no, no – tieni gli occhi puntati su di me», disse Simone. «Abbiamo da fare qui», aggiunse inclinando la testa verso il corpo immobile di Keith. Allentò di poco la presa, ma continuava a premerle il coltello sulla gola. Si mossero insieme in una specie di macabra danza, scivolando sulla moquette finché Erika non si ritrovò accanto alla sedia a rotelle.
«Adesso io faccio un passo indietro, ma se solo provi a fare qualcosa ti accoltello. Punterò prima agli occhi e poi alla gola. Hai capito bene?»
«Sì», ansimò Erika. Stava sudando e sentiva la puzza di Keith accanto a lei, un odore nauseabondo di sudore e feci. Simone andò alla porta e accese la luce. La stanza s’illuminò e lei tornò alla carica, con il coltello puntato verso Erika.
«Levagli la busta dalla testa», le ordinò.
«Cosa?»
«Mi hai sentito. Levagliela». Avanzò verso Erika, con la lama che brillava sotto le luci intense.
«Va bene, va bene», rispose la detective alzando le mani. Sollevò lentamente la testa di Keith. Aveva ancora il collo bagnato di sudore e per qualche secondo sperò che potesse essere vivo – ma il viso aveva assunto un colorito bluastro ed era tremendamente gonfio.
«Avanti, più in fretta», le ordinò Simone. Erika cominciò a slegare il cordoncino intorno al collo, tirando, temendo che si fosse incastrato. Riuscì a sciogliere il nodo e finalmente lo allargò. La testa di Keith si sollevò con un rumore strano, come un risucchio, man mano che tirava via la plastica. Gli occhiali scivolarono via dal naso fin sopra la fronte, ruzzolando insieme al sacchetto. La testa gli ricadde inerme sullo schienale. Simone si avvicinò, mentre Erika si stringeva in un angolo porgendole la busta.
«Prendi gli occhiali e rimettiglieli», le ordinò Simone. Erika obbedì, appoggiando dolcemente le lenti sul naso di Keith e assicurando per bene le aste dietro le orecchie.
«Perché l’hai ucciso?», chiese Erika.
«Doveva morire perché sapeva chi sono. E te l’ha detto».
«Non me l’ha detto. L’ho capito da sola».
«Voleva incontrarmi. Non ha mai voluto… Neanche quando ho provato a chiederglielo io. Se l’è sempre fatta addosso. Ho immaginato che aveste scoperto tutto. La mia paranoia era fondata… E la paranoia non è esattamente la base su cui costruire una relazione», aggiunse fissando di nuovo Keith.
«Lui ti amava», disse Erika spostando lo sguardo dal corpo senza vita a Simone.
«Oh, certo. È tutto quello che mi serve, l’amore di un uomo», commentò Simone con sarcasmo.
«Che c’è di male a essere amati?», domandò Erika, con la mente che correva freneticamente. Stava cercando di prevedere la prossima mossa dell’assassina. Nel frattempo, voleva continuare a farla parlare.
«La gente giusta non ti ama mai!», urlò Simone. «Tua madre dovrebbe amarti. Tuo marito. Le persone di cui ti fidi. Ma ti deludono sempre! E una volta che permetti a qualcuno di ferirti… effetto domino… Diventi vulnerabile, e la gente se ne approfitta. Ti saltano addosso, vedono le crepe nella tua corazza».
«Mi dispiace», si affrettò a dire Erika, vedendo che Simone si stava scaldando pericolosamente.
«Non è vero. Però mi capisci, no? Hai visto come sono cambiate le persone intorno a te dopo la morte di tuo marito, immagino. Ti hanno abbandonato. Chi è rimasto l’ha fatto solo per approfittarsi di te».
«Simone… Io ti capisco».
«Davvero?»
«Sì».
«Quindi… comprendi perché ho fatto tutto questo. Perché ho ucciso il dottore che non mi ha creduta mentre ero in preda alla paura e al dolore. Lo scrittore che trovava sempre nuovi modi malati per ispirare il mio aguzzino. Il giornalista che mi ha portato via da mia madre quando avevo solo nove anni…».
«Jack Hart?»
«Sì, Jack Hart. Quell’uomo non aveva un briciolo di cuore. Farlo fuori mi ha dato una grandissima soddisfazione. Si era costruito una carriera sulle miserie degli altri, guadagnando soldi sulle loro lacrime e sul loro dolore. Pensava di essere stato un eroe quando aveva scritto quelle cose su mia madre… spiattellando di fronte a tutti la mia infanzia… Ma io sono riuscita a sopravvivere anche senza di lei, solo perché sapevo che in cuor suo mi amava, lei mi amava… E quando le cose si facevano difficili potevo trovare una connessione con quell’amore… Non l’ho mai più rivista, sono finita in orfanotrofio! Hai idea di cosa succede ai bambini che finiscono in posti del genere?»
«Me lo posso immaginare», rispose Erika, indietreggiando in fretta quando Simone le agitò il coltello davanti al viso.
«NO che non puoi».
Erika si coprì il volto con le mani. «Mi dispiace, è vero. No, non posso immaginarlo. Però, ti prego, Simone. È finita adesso, lasciati aiutare».
«Certo, perché io ho bisogno di aiuto, non è vero? Guarda che non ho niente che non va! È solo che ho smesso di beccarmi tutta la merda che mi piove addosso senza reagire! Io non sono nata così! Ero innocente, ma l’innocenza mi è stata strappata via!».
«D’accordo», disse Erika, sollevando le mani per ripararsi dal coltello che Simone brandiva sempre più vicino.
«Andiamo, sii onesta, Erika. Non ti piacerebbe avere la possibilità di far fuori tutti quegli uomini che hanno plasmato il tuo futuro? Quegli uomini che hanno distrutto la tua vita? Come Jerome Goodman, lo spacciatore che ha ucciso tuo marito e i tuoi amici. Guardami negli occhi e dimmi che non gli faresti del male se potessi. Che non riprenderesti il controllo della tua esistenza con la vendetta!».
Erika era senza parole. Sentiva il sudore che le colava sulle ciglia, bruciandole gli occhi.
«Dimmelo! Dimmi che faresti quello che ho fatto io!».
«Sì! Sì, lo farei!», rispose Erika. Mentre quelle parole le uscivano dalle labbra, disse a se stessa che non lo pensava davvero – stava semplicemente facendo tutto quello che era necessario per restare in vita, per accontentare Simone. Ma rimase sconvolta quando si rese conto che una parte di lei comprendeva sinceramente quella donna. Si guardò intorno, cercando un modo per scappare.
«Guardami mentre ti parlo!», urlò Simone.
«Mi dispiace», disse Erika. Doveva pensare. Pensare. Sapeva di essere vicinissima alla morte. «So che ti ha ustionata, Simone. Tuo marito. E mi sto sforzando di comprendere tutto il tuo dolore e la tua rabbia. Aiutami a capire. Spiegami».
Simone iniziò a tremare, mentre le lacrime scendevano incontrollabili sul suo viso.
«Mi ha rovinata. Ha rovinato il mio corpo», disse. Prese un lembo della maglietta e lo sollevò. Di fronte a quel feroce intreccio di cicatrici che le correvano lungo lo stomaco e le costole, Erika rimase a bocca aperta. Lì dove un tempo c’era l’ombelico, la pelle era chiara e raggrinzita.
«Mi dispiace così tanto, Simone», disse Erika. «Adesso capisco. Ma guardati… Sei diventata una guerriera. Una coraggiosa, coraggiosissima guerriera».
«Io sono… sono coraggiosa», singhiozzò Simone.
«Sì. Sì, lo sei. E mostri con orgoglio le tue cicatrici», aggiunse Erika.
Simone si sollevò ancora di più la maglietta per mostrare altri lembi di carne deturpata. Per una frazione di secondo il tessuto le coprì la faccia. Erika non si lasciò sfuggire l’occasione: prese la rincorsa e le piantò un calcio sulla pelle arrossata. Simone si piegò dal dolore, urlando a squarciagola. Erika riuscì a superarla, ma l’assassina si riprese in un istante, le si lanciò addosso. Andarono a sbattere contro la porta, il vetro esplose in mille frammenti. Erika scalciava e lottava, riuscì quasi a liberarsi. Arrivò a metà del corridoio, poi Simone la prese di nuovo.
«Stronza maledetta!», urlò. Caddero entrambe sul pavimento del bagno. Erika rotolò sulla schiena mentre Simone, sopra di lei, la prendeva a pugni in faccia. La colpì un’altra volta e la vista le si annebbiò. Stava quasi per svenire.
«Troia bugiarda», sibilò Simone. Erika si sentì trascinare lungo il pavimento del bagno. Simone la tirò su, con la schiena appoggiata alle mattonelle fredde che ricoprivano le pareti del bagno. Il viso minuto e affilato di Simone incombeva su di lei, ma i suoi occhi si annebbiarono non appena il sacchetto di plastica le scivolò in testa. Lo stesso sacchetto che aveva ucciso Keith.
La plastica scricchiolava seguendo il ritmo del suo respiro. Il sangue le pulsava nelle orecchie e all’improvviso sentì il cordoncino che le stringeva il collo. Simone era seduta sulla tavoletta del gabinetto. Stringeva Erika fra le gambe, con i piedi le immobilizzava le braccia a terra, con le mani tirava sempre di più il cordoncino. Ormai le mancava l’aria, cominciò a tossire, la plastica si gonfiava sopra la sua testa.
«Morirai qui, e lascerò il tuo corpo a marcire fra queste mura», sibilava Simone, stringendo forte.
Le braccia di Erika si agitavano sul pavimento, disperatamente, inutilmente. La mano strofinava con furia la parete alle spalle del gabinetto. All’improvviso sentì una striscia di stoffa pesante che penzolava a ridosso del battiscopa. Era legata alla gigantesca barra di sicurezza oscillante del gabinetto. Le dita si chiusero con una forza disperata, riuscì a stringerla. La vista le si offuscava velocemente. Con un’improvvisa scarica d’adrenalina, scattò in avanti spingendo Simone giù dal WC, tirando contemporaneamente la striscia di stoffa. L’immensa barra di sicurezza precipitò con tutta la sua forza, colpendo l’assassina in testa.
Simone mollò la presa e cadde rovinosamente. Erika afferrò il cordoncino che le stringeva il collo e lo allentò, muovendo freneticamente le dita. Alla fine riuscì a togliere il sacchetto. Mandò nei polmoni profonde boccate d’aria pulita, tirò la corda d’emergenza accanto al water, facendo partire l’allarme.
Simone era a terra di fronte a lei, si muoveva, gemeva. Erika strattonò di nuovo la corda rossa, strappandola. Salì sopra Simone, le immobilizzò le braccia dietro la schiena e le legò i polsi con il filo rosso.
«Sei in arresto», disse Erika senza fiato. Era una vera lotta tirar fuori le parole, una dopo l’altra. «Per gli omicidi di Gregory Munro, Jack Hart, Stephen Linley e Keith Hardy… e per aggressione e tentato omicidio ai danni di una agente di polizia. Hai il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirai potrà e sarà usata contro di te in tribunale. Hai diritto a un avvocato. Se non puoi…».
Si mise a sedere sulle gambe di Simone, continuando a bloccarle i polsi legati. Il viso le faceva male dove era stata colpita. E, mentre piano piano riprendeva fiato, sentì il pianto lontano delle sirene.