Erika trascorse una notte insonne nel suo claustrofobico appartamento, girandosi e rigirandosi nel letto senza riuscire a prendere sonno. Adorava Lenka e i bambini ma vivere così, ammassati gli uni sugli altri, stava cominciando a diventare insopportabile. Il mattino seguente uscì di casa molto presto, prima ancora che gli altri si svegliassero. Prese un caffè e un cornetto al cioccolato sulla strada verso la centrale, e fece colazione nella sala operativa.
Poi prese posto a una delle scrivanie ed esaminò un’altra volta tutte le prove. Le foto di Jessica, della cava, di Bob Jennings. Il caso continuava a espandersi, a gonfiarsi e a sfuggirle.
Poco prima delle nove, la sala operativa cominciò a riempirsi. Erika stava lavorando al computer nel suo ufficio quando Moss entrò di corsa senza bussare.
«Capo, scusa», disse ansimando, mentre riprendeva fiato. «Devi venire di sotto, ora».
«Merda, si tratta di Joel Michaels? Credevo che avessimo preso tutte le precauzioni anti suicidio e che ci fossero delle guardie a tenerlo d’occhio».
«No, non si tratta di Joel. È Trevor Marksman».
Erika scattò in piedi e la seguì di sotto.
All’ingresso della centrale di polizia, notarono che una grossa monovolume nera era stata parcheggiata sulle doppie strisce gialle. Erika e Moss uscirono sulle scale, ma capirono subito che qualcuno aveva fatto una soffiata alla stampa. Ai piedi della scalinata si stava riunendo un folto gruppo di giornalisti e fotografi e, in piedi accanto alla macchina, c’era Trevor Marksman con addosso un lungo cappotto nero, un cappello dello stesso colore e un bastone da passeggio con il manico dorato. Parlava direttamente alla stampa, con la sua voce rauca.
«L’arresto di Joel Michaels, solo perché è il mio badante, è un’altra tattica vessatoria della polizia metropolitana… Joel è innocente ma, come ormai sapete, questo non significa nulla per il MET. Li affrontai in tribunale nel 1995, quando uno dei loro ufficiali riferì il mio indirizzo privato a un gruppo di vigilanti che tirarono una bomba molotov nel mio appartamento. E già una volta il tribunale ha deciso in mio favore…».
Con un ampio gesto teatrale si tolse il cappello, esponendo l’entità delle cicatrici riportate.
«Ma che diavolo…», disse Erika osservando la scena insieme a Moss dall’ingresso della centrale. «Possiamo fare qualcosa?».
Trevor non si fermava. «Sarò costretto a vivere per il resto dei miei giorni con questa faccia!», gridò, mentre la pelle si raggrinziva intorno agli occhi. «La morte di Jessica Collins è stata una tragedia, ma io sono innocente! Sono stato rilasciato, libero da ogni accusa. Non sono stato io. E ora la polizia arresta Joel Michaels, un uomo che mi è stato accanto per ventisei anni, il mio badante full-time. Anche lui è innocente e questo non è altro che un disperato tentativo di intimidazione da parte della polizia, per punirmi della causa vinta contro di loro».
A quel punto si alzò una voce fra la folla di curiosi e giornalisti che si erano riuniti sul marciapiede, e Marianne Collins si fece largo con addosso un lungo cappotto. Sbandava e ondeggiava, fendendo la folla fiancheggiata da Laura.
«Assassino!», urlava. «Schifoso pezzo di merda!».
Seguì qualche secondo di trambusto, mentre avanzava fra il gruppo di giornalisti e telecamere che la separavano da Trevor.
Erika corse alla reception e sollevò il telefono. «Abbiamo dei problemi all’ingresso della centrale, sì, a Bromley. Voglio che tutti gli agenti presenti vengano subito alla reception».
Riagganciò e tornò all’entrata. Marianne e Trevor erano ancora a qualche metro di distanza. Negli occhi della donna bruciava un odio profondo e selvaggio. Lui teneva entrambe le mani alzate, in segno di pace.
La folla si era gonfiata a dismisura e, oltre ai giornalisti, c’erano molti giovani che filmavano con i cellulari.
«Hai rapito mia figlia, l’hai uccisa con i tuoi schifosi amici e ora ci prendi pure in giro!», strillava Marianne con la voce spezzata.
«La prego, mi ascolti», disse Trevor, «ho sempre cercato un modo per parlarle…».
«Non chiedermi di ascoltarti! Non avrai mai modo di parlare con me!», gridava Marianne. «L’hai uccisa, porco bastardo! Hai ucciso la mia bambina e l’hai buttata in acqua! Ho dovuto seppellirla ieri, era solo un mucchio di ossa!».
Le lacrime le rigavano il viso. La folla tutt’intorno osservava la scena in un silenzio rapito. Ormai tutto il marciapiede era occupato, la gente si riversava persino in strada. Le macchine suonavano il clacson, il passaggio ostruito su entrambe le carreggiate.
«Andiamo! Dove cazzo sono gli agenti?», gridò Erika. La segretaria alla reception sollevò di nuovo il telefono. Erika tornò a guardare fuori e vide Laura in piedi vicino alla macchina di Marksman, con le lacrime agli occhi.
L’atmosfera cambiò non appena si accorsero che Marianne aveva in mano un grosso coltello da cucina. Lo brandì minacciosamente, facendo dileguare di colpo la folla che corse in strada mentre gli automobilisti ormai strombazzavano come matti.
Marianne si scagliò contro il suo obiettivo, affondando il coltello da una parte all’altra, ferendolo agli avambracci, che Marksman aveva alzato d’istinto per proteggersi. Laura aveva gli occhi sgranati e urlava a sua madre di fermarsi.
«Cazzo!», gridò Erika. «Dove sono gli agenti?».
Lei e Moss si fiondarono fuori, scendendo di corsa le scale. Dopo una manciata di secondi le seguirono sei agenti.
Riuscirono a fermare Marianne Collins, immobilizzandola a terra. Aveva una smorfia selvaggia sul volto ricoperto di sangue, tre chiazze le macchiavano la camicetta bianca e uno spruzzo le sporcava la guancia. Un giovane poliziotto con il giubbotto anti taglio riuscì a immobilizzarle il braccio e a buttare a terra il coltello. Con un calcio lo tirò verso un altro agente, che lo fermò con la suola della scarpa.
Marianne urlava a più non posso, un suono terribile e graffiante. Un’agente donna le piazzò un piede sulla schiena, mentre lei si dimenava ribellandosi alle manette.
Erika corse verso Trevor Marksman, steso sul marciapiede. Era coperto di sangue, gli fuoriusciva dai tre grossi tagli sull’avambraccio. L’ispettore notò che in un punto il coltello gli aveva persino sfiorato l’osso. Si tolse immediatamente la giacca e l’avvolse intorno alle braccia ferite.
«Chiamate un’ambulanza, presto! Quest’uomo è ferito!», gridò sopra la baraonda.
La folla adesso si stava accalcando ai due lati del marciapiede, con la gente che usciva dalla stazione ferroviaria e si ritrovava suo malgrado coinvolta nell’incidente.
Portarono via Marianne Collins che urlava ricoperta di sangue, mentre un altro agente correva fuori con un kit di primo soccorso.
In mezzo al caos, la stampa registrava e scattava foto.