In bagno, David si ripulì alla svelta, tamponando il naso per fermare il sangue. Poi prese la borsa, il passaporto con i soldi e portò Erika di sotto, caricandola sulle spalle. Non si aspettava che pesasse così tanto, a vederla sembrava uno scheletro. Scesero nel garage sotterraneo e le luci si accesero. Si incamminò verso il bagagliaio. Dentro c’era la prostituta con i capelli lunghi e scuri che aveva caricato alla stazione di Paddington.
Erano andati in giro per un po’, lui e la prostituta; la ragazza provava a farglielo venire duro, infilandogli le mani sotto i pantaloni, ma non era riuscita a stuzzicarlo. Era stata una serata concitata e in tutti i suoi posti preferiti, i parchi e le spiagge, c’era troppo movimento. Gente che passeggiava per strada, auto della polizia che avanzavano lentamente.
Era stato costretto a portarla a casa. Lei era sembrata più che felice. Almeno a giudicare dalla sua espressione riflessa nello specchietto retrovisore. Come se non fosse una prostituta che veniva pagata per scopare; forse aveva visto troppe volte Pretty Woman. Era scoppiato a ridere quando ci aveva pensato, e lei si era unita alla sua risata.
Stupida puttana.
Appena erano entrati nel garage sotterraneo ed erano scesi dalla macchina, le aveva sbattuto la testa contro il muro di cemento. Non aveva più ripreso conoscenza. E questo aveva reso il momento della morte davvero deludente.
Tuttavia, adesso aveva una preda nuova di zecca. La detective Foster.
Quando aprì il bagagliaio, trovò la ragazza stecchita stesa di schiena. Era andato a controllarla in tre diverse occasioni da quando era morta e ogni volta era rimasto affascinato di fronte ai sottili cambiamenti: il freddo sguardo sgomento del rigor mortis, il colorito violaceo, l’aria tranquilla, come se stesse dormendo. Ora, le guance gonfie e pallide che facevano sembrare i lividi delle macchie d’inchiostro. David rise vedendo il gonfiore del suo viso: non avrebbe mai sopportato di ingrassare in quel modo! Appoggiò il corpo inerme di Erika accanto all’altro, abbassò il portellone e chiuse a chiave.
Era ancora mattino presto quando uscì dal garage sotterraneo, imboccò la via di casa sua, guidò cautamente per qualche chilometro, fino allo svincolo per l’M4. Prese l’autostrada, si immise nel traffico, scivolando sull’M25 e costeggiando la periferia di Londra.
Erika sapeva di aver riaperto gli occhi, ma il buio non se ne andava. Aveva qualcosa di duro contro il viso. E aveva un braccio immobilizzato e addormentato sotto di lei. Sollevò l’altro e provò a toccarsi la faccia, ma la sua mano sfiorò una superficie dura a pochi centimetri di altezza. Si voltò, sentendo il dolore che si espandeva su tutto il viso. Sentì il sangue in bocca, e ingoiò dolorosamente. C’era una sorta di tremore, un movimento oscillante sotto di lei. Esaminò a tentoni lo spazio ristretto in cui si trovava, scoprì i confini ricurvi, il metallo sopra la testa e il meccanismo interno della sicura, e così capì che era nel bagagliaio di un’auto. E poi un odore disgustoso e pungente le ferì il naso. C’era qualcosa di marcio. Riusciva a malapena a respirare, la puzza di rancido aveva invaso l’angusto abitacolo. La macchina prese velocità e svoltò, la strada era dissestata e irregolare. La forza di gravità cacciò Erika in fondo al bagagliaio, qualcosa di pesante andò a sbattere contro di lei.
Fu allora che capì che era chiusa in un bagagliaio in compagnia di un cadavere.