I funerali di Jessica Collins si tennero a Bromley, nella chiesa della santa Vergine Maria. La sala era piccola e arredata con semplicità. Odorava d’incenso e lucido per pavimenti e le candele accese brillavano nell’ombra.
Marianne e Martin avevano scelto per Jessica la bara di mogano più pregiata che erano riusciti a trovare. Rialzata su una struttura di legno, non era piccola quanto quella di un bambino, ma nemmeno grande quanto quella di un adulto.
Marianne era arrivata all’alba, voleva essere presente quando l’agenzia funebre avrebbe portato la salma. Si sedette e rimase a guardare i resti di sua figlia, quelle ossa piccine e vulnerabili adagiate nell’imbottitura di raso della bara e coperte da un leggero strato di mussolina. Il cappottino rosso che le avevano regalato per il compleanno era stato piegato e sistemato accanto al cuscino di raso.
Martin, Laura e Toby arrivarono un po’ più tardi. Bussarono dolcemente al portone di legno massiccio e Marianne si alzò e andò ad aprire.
Si fermarono sulla soglia, sorpresi e in silenzio.
«La bara è aperta», disse Martin, fissando i resti di Jessica. Da come erano state disposte le ossa, sembrava che lo scheletro fosse semplicemente saltato dentro per mettersi a dormire. «Pensavo che fossimo d’accordo che l’avremmo tenuta chiusa».
«Non siamo mai stati d’accordo. Sei tu che me l’hai imposto», rispose Marianne cupamente. «Io voglio vedere la mia bambina. Voglio accarezzarla. Voglio essere qui con lei».
Toby guardò prima il padre, poi Laura. «Papà. Non è giusto», disse. Si avvicinarono al sottile strato di mussolina, e Martin allungò una mano.
«Oh, Jessica», mormorò, sfiorando il tessuto sopra il teschio.
Laura era rimasta indietro, con una mano davanti alla bocca e uno sguardo di terrore negli occhi.
«Vieni. Toccala», disse Marianne. «È Jessica… tua sorella».
Laura si avvicinò di qualche passo, con gli occhi ancora spalancati. Marianne allungò un braccio e le prese la mano. Lei cercò di sottrarsi, ma la stretta della madre era troppo forte: le appoggiò il palmo sulla fronte di Jessica. «Senti i suoi capelli, Laura. Ti ricordi com’era pettinarle i capelli?»
«No!», urlò Laura, tirando via di scatto la mano e uscendo di corsa dalla sala. Marianne quasi non se ne accorse, continuava semplicemente a fissare la bara.
«Toby, voglio che la tocchi anche tu. Voglio che tocchi tua sorella», gli disse.
«No, mamma… Non voglio ricordarla così. Mi dispiace», rispose. Guardò suo padre, che sembrava ipnotizzato dallo scheletro nella bara, e poi seguì Laura fuori nel corridoio.
«Volevo soltanto un’altra figlia. Non desideravo altro che vederla felice e al sicuro», disse Marianne voltandosi verso Martin. «È la nostra punizione per quello che abbiamo fatto?»
«Avevamo giurato di non parlarne mai più», disse Martin guardandola negli occhi.
«Sono d’accordo. Ma questa è la fine, non è vero?»
«No, non è la fine. Ce l’hanno portata via, ma ora è insieme al Signore. E un giorno la rivedremo. Non dovremmo chiederci perché l’ha presa così presto, ma rallegrarci di averla ritrovata. Adesso riposa in pace».
«Oh, Martin», disse Marianne. Si gettò tra le sue braccia e lui la strinse, come non faceva più da anni. E insieme piansero per la loro perdita e il senso di colpa.
Quando anche Martin lasciò la stanza, Marianne rimase da sola. Le candele continuavano a bruciare e un quadrato di luce colorata, proiettata da una vetrata decorata, avanzava sulla parete.
Trascorse l’intera giornata a pregare, china sul corpicino della figlia. Recitò con cura tutte le preghiere, quasi in automatico dopo tanti anni di pratica. Ma quando sussurrava le parole «Perdonami, padre, perché ho peccato», le sembrava sempre che fosse la prima volta.