Il mattino seguente Erika si svegliò poco prima delle sei, i raggi del sole filtravano attraverso le tende. Quando raggiunse il salotto, Peterson era sparito lasciando un post-it sul frigo.
GRAZIE, CAPO – SCUSA SE SONO STATO UN CRETINO + GRAZIE PER
IL DIVANO
CI VEDIAMO Al
lavoro – JAMES
(PETERSON)
Notò con piacere che non aveva scritto nulla di sdolcinato e sperò vivamente che l’inconveniente della sera prima non causasse imbarazzo o tensioni sul lavoro. Ce n’erano già abbastanza, senza metterci in mezzo anche la vita privata.
Il lungo corridoio era fresco e silenzioso mentre Erika si avvicinava alle porte dell’obitorio. Suonò il campanello, sollevando lo sguardo verso la piccola telecamera che sormontava l’entrata. Dopo il segnale acustico, la porta automatica d’acciaio si aprì con un leggero sibilo e l’aria fredda all’interno si riversò fuori in piccoli sbuffi di vapore.
«’Giorno», disse Isaac andandole incontro. Indossava ancora il camice blu, macchiato qua e là di sangue.
Entrarono insieme nella sala autopsie. Il pavimento era di mattonelle geometriche in stile vittoriano, bianche e nere. Il soffitto era alto ma privo di finestre, piastrelle bianche alle pareti. Da un lato si allineavano delle porte metalliche, mentre il centro della stanza era occupato da quattro tavoli d’acciaio inossidabile. Su quello più vicino alla porta riposava il cadavere di Jack Hart.
Una delle assistenti di Isaac, una giovane e minuta ragazza cinese, stava ricucendo la lunga incisione a forma di Y che partiva da sotto l’ombelico dell’uomo. Aveva quasi finito. Richiudeva dolcemente la pelle, risalendo fino al punto in cui il taglio si separava e proseguiva verso le spalle. I punti erano precisi, ma un po’ larghi e gonfi.
«La situazione è molto simile a quella di Gregory Munro: abbiamo riscontrato un alto livello di flunitrazepam nel sangue», la informò Isaac. «L’ha ingerito in forma liquida, ce n’era una grande quantità anche nella birra che abbiamo trovato nella stanza».
«Quindi è stato drogato?», chiese Erika.
«La quantità era maggiore rispetto a quella trovata nel sangue di Gregory Munro, ma non so dirti se sia una cosa premeditata o se si sia trattato di un incidente. Al contrario del dottore, Jack era giovane e in piena forma: poco grasso corporeo, muscoli ben sviluppati».
«L’assassino deve aver pensato che servisse una dose maggiore per stenderlo», rifletté Erika. Si voltarono entrambi a guardare la giovane assistente che ricuciva il petto del giornalista, ricongiungendo i pettorali scolpiti.
«Quindi credi che sia opera della stessa persona?»
«Non ho detto questo. Le modalità combaciano, ma sei tu a doverlo stabilire con certezza».
«D’accordo. Causa del decesso?», domandò Erika.
«Asfissia, dovuta al sacchetto di plastica stretto intorno alla testa».
«Il volto di Jack Hart ha un aspetto diverso da quello di Munro, però. Ha parecchi segni rossi e la pelle ha un colorito strano».
«Questo perché Gregory Munro è morto velocemente: ci ha impiegato soltanto uno o due minuti. Nel caso di Jack Hart, invece, i polmoni erano abbastanza forti da trattenere l’ossigeno per più tempo, per questo i segni e i sintomi dell’asfissia sono più evidenti. Questi piccoli segni rossi sul volto sono delle emorragie petecchiali. E il colorito bluastro è dovuto alla cianosi, fenomeno che si verifica quando il sangue non circola a dovere e la pelle si scolorisce. Anche gli organi interni mostravano emorragie in più punti».
«E quindi quanto tempo ci ha messo a morire?»
«Quattro, cinque… forse sei minuti. Le mani erano legate dietro la schiena, ma deve aver combattuto e resistito parecchio costringendo l’assassino a colpirlo. La ferita sull’occhio sinistro è quasi sicuramente stata provocata da un pugno in faccia e ci sono anche altri segni sulle labbra e sulle gengive che indicherebbero che è quella la zona su cui è stata esercitata la maggiore pressione. E poi devi vedere questo». Isaac si avvicinò al corpo. L’assistente fece un passo indietro e il dottore aprì cautamente la bocca del cadavere.
«Cristo santo», esclamò Erika.
«Si è quasi staccato la lingua a morsi», spiegò Isaac. «È stata una morte estremamente lenta e dolorosa».
«Ci sono tracce di violenza sessuale?»
«No».
Isaac fece segno all’assistente di continuare, e lei si rimise subito al lavoro. Il corpo inerme si mosse appena quando la ragazza tirò il filo. I lembi di pelle aperta somigliavano più a dei pezzi di plastica che a un corpo umano in carne e ossa.
«C’è un’altra cosa che vorrei mostrarti, se puoi seguirmi nel mio ufficio», disse Isaac.
Rispetto all’obitorio, il suo ufficio era molto più caldo. C’era una finestra in alto sulla parete che lasciava entrare molta luce. La stanza era tappezzata di librerie stracolme di testi di medicina e, attaccato alle casse Bose, c’era un iPod splendente. La scrivania era perfettamente ordinata, un cubo ruotava e rimbalzava sullo screensaver del PC.
«Gregory Munro e Jack Hart sono stati soffocati con due buste di plastiche identiche», disse Isaac sollevando un sacchetto sulla scrivania. All’interno c’era una busta di plastica, sgualcita e sporca di sangue rappreso e qualche residuo biancastro. Anche il cordoncino bianco era sporco di sangue.
«Che vuoi dire? Provengono dallo stesso supermercato?», chiese Erika, prendendogli la busta dalle mani.
«No, queste buste sono fatte apposta per le persone che vogliono suicidarsi. Le chiamano suicide bag o exit bag. Avrei dovuto accorgermene la prima volta che l’ho vista ma me ne sono reso conto solo con Jack Hart».
«In che senso aiuta la gente a suicidarsi? E perché non vanno bene i sacchetti normali?»
«Non è affatto facile infilarsi un sacchetto di plastica in testa e aspettare di morire soffocati. L’istinto di sopravvivenza ha la meglio. Noi del mestiere lo chiamiamo istinto di risposta all’ipercapnia. Quando una persona viene privata dell’ossigeno, strappa la busta in preda al panico. E così a qualcuno è venuto in mente di creare queste suicide bag. Come puoi vedere, il sacchetto è largo – non si appiccica alla testa, lascia dello spazio sopra. L’idea è piazzarsi la busta in testa e infilare un tubo sotto il cordoncino da tirare intorno al collo – senza fare forza, perché nel tubo deve passare un gas, come l’elio o il nitrogeno che ormai si trovano facilmente ovunque. La gente compra intere bombole di elio per gonfiare i palloncini. E così si respira questo gas, che aiuta a prevenire il panico, il senso di soffocamento e qualunque reazione istintiva prima della perdita dei sensi».
«Quindi il killer deve aver per forza comprato queste buste, giusto?», chiese Erika.
«Esatto».
«E dove si trovano?»
«Online, le vendono nei siti specializzati, credo», le rispose Isaac.
«Quindi in teoria potremmo riuscire a risalire a una lista di persone che le hanno acquistate?», domandò Erika.
«Questo adesso spetta a te», rispose Isaac.
Isaac accompagnò Erika all’entrata dell’obitorio.
«Dovresti dormire un po’. Sembri distrutto», disse Erika.
«Lo farò». Isaac premette il bottone e le porte automatiche si aprirono. «Ehm, so che la settimana prossima c’è l’anniversario. Due anni che Mark…».
Erika si fermò e si voltò di colpo.
«Che Mark è morto», disse sostenendo il suo sguardo.
«Sì, l’anniversario della sua morte. Se vuoi fare qualcosa, io ci sono. E ci sono anche se non vuoi fare niente. Possiamo uscire, stare a casa. Non voglio che tu stia da sola».
Erika sorrise. «Spero di risolvere il caso. Sarebbe una bella distrazione».
«Certo. Ma per qualunque cosa, puoi contare su di me».
«Grazie. Come va con Stephen?».
Isaac abbassò lo sguardo. Aveva un’aria colpevole. «Bene. Si trasferisce da me».
Erika annuì.
«Non giudicarmi», aggiunse.
«Sono l’ultima persona che può giudicare qualcuno», rispose lei, sollevando le mani. «Ci vediamo presto, Isaac». Gli sorrise per un’ultima volta e attraversò il lungo corridoio.