Erika aiutò Lenka a trascinare valigie, passeggino e nipoti nell’appartamento. Dalla finestra dell’atrio vedeva Peterson in piedi sotto la pioggia, con la giacca tirata fin sopra la testa mentre cercava di fermare un taxi sul bordo della strada. Gli aveva detto di entrare ad aspettare, ma Lenka aveva iniziato a parlarle a raffica in slovacco e la bambina era scoppiata a piangere. Così Peterson aveva deciso di andarsene alla svelta, dopo un saluto veloce e imbarazzante.
Jakub e Karolina, i suoi nipoti, avevano un’aria davvero sfinita e nonostante tutto le si sciolse il cuore vedendoli. Avevano rispettivamente cinque e sette anni adesso, e fu un vero shock ritrovarseli davanti: quant’erano cresciuti! Erika accese le luci e il riscaldamento e li fece accomodare in salotto, dicendo che sarebbe tornata subito.
Uscì di corsa nel pianerottolo fiondandosi fuori, sotto la pioggia, avanzando a testa bassa sul vialetto di ghiaia. La pioggia cadeva a secchiate. Il marciapiede era deserto, riuscì appena a distinguere i fanali rossi di un taxi che svoltava l’angolo alla fine della discesa. Rimase lì impalata per qualche istante, mentre la pioggia le rigava il viso. Si sentiva come se avesse perso qualcuno. Ma si trattava di Peterson. L’avrebbe rivisto il giorno dopo.
Quando tornò dentro, la porta del bagno era chiusa. Jakub e Karolina erano seduti sul divano con la bambina in mezzo a loro che stringeva con la minuscola manina il dito della sorella e sorrideva sdentata. Indossava un cappellino rosa con un paio di bottoncini colorati cuciti sul davanti.
«Come sta la piccola Erika?»
«La chiamiamo Eva noi», rispose Jakub. Se ne stava spaparanzato sul divano con le mani strette intorno a un cappellino del Manchester United.
«Mamma è in bagno», disse Karolina, sollevando timidamente lo sguardo.
«E voi come state?», chiese Erika, avvicinandosi. Karolina si lasciò baciare, ma Jakub si allontanò ridendo. «Mi siete mancati tanto».
«Ma a Londra piove sempre?», domandò Karolina.
«Sì». Erika sorrise, accarezzando il mento della nipotina. Jakub tirò fuori il telefono e cominciò a muovere il dito fra i giochi nel menu.
«E quello? È nuovo?», chiese Erika.
«Sì. È l’ultimo modello», rispose con nonchalance. «Qual è la password del Wi-Fi?»
«Bisogna pagare per il Wi-Fi», disse Erika. «Due baci per ogni ora d’accesso».
«Che cosa?», scoppiò a ridere il nipotino.
«Che ci vuoi fare, è questo il prezzo…».
Il bimbo alzò gli occhi al cielo e le avvicinò il viso.
«Muà, muà!», disse Erika baciandolo. «La password è Fermituttipolizia1972».
Il bimbo sollevò il visetto corrucciato ed Erika lo aiutò con le parole straniere. Anche Karolina tirò fuori il suo iPhone – ultimo modello anche quello, notò Erika – e la aiutò a scrivere la password.
«Volete qualcosa da bere?».
Annuirono entrambi.
Erika andò alla credenza e trovò il succo di mirtilli che aveva comprato l’ultima volta che erano venuti a trovarla. Ne versò un bicchiere a testa e li appoggiò sul tavolino, accorgendosi di non aver messo via le foto dell’autopsia di Jessica Collins. Si sbrigò a raccoglierle prima che i bambini le vedessero. Sentì tirare lo sciacquone in bagno e Lenka tornò da loro. Era pallida e sembrava stressata.
«Perché non mi hai detto che stavate arrivando?», domandò Erika, prendendo in braccio la bambina e stringendola a sé.
«Ho provato a chiamarti. Ti ho lasciato dei messaggi, ma non mi hai mai risposto!».
«Aspetta, ma eri tu che chiamavi con un numero anonimo?»
«Sì…».
«Ma perché?»
«È così da un po’ ormai…», rispose in tono evasivo.
«Lenka, io ho un lavoro. Un lavoro davvero stressante. E mi piacerebbe essere avvisata. Hai visto quant’è piccolo l’appartamento e…».
«Ti ho avvisato! Sei tu che non mi hai risposto!».
«Anche se ti avessi risposto, non sarebbe stato certo un grande preavviso!».
«Sono tua sorella!».
Le sorsate di Jakub, che svuotava il bicchiere con gli occhi incollati sullo schermo, riempirono il silenzio. A quel punto Karolina sollevò lo sguardo e chiese: «Chi era quell’uomo alto e nero?»
«Chi? Oh, un collega. È un poliziotto. Lavoro con lui…».
Karolina guardò la madre, che sollevò un sopracciglio e disse: «Ti stava abbracciando. E sono quasi le dieci di sera…».
«Ne parliamo più tardi, Lenka, okay?», rispose prontamente Erika.
«Puoi scommetterci. Voglio sapere tutto».
Erika sorrise. Sotto sotto, le faceva piacere rivedere sua sorella.
«Bene. Chi ha fame?», chiese. «E chi vuole un po’ di pizza?». I bambini sorrisero e le loro mani schizzarono in alto. «Ottimo. C’è qualche menu nel cassetto».
Ordinarono la pizza ed Erika preparò il divano letto e riordinò il soggiorno, mentre Lenka faceva la doccia ai bambini e il bagnetto alla neonata. Ogni traccia di fastidio evaporò non appena sentì i gridolini e le risate dei nipoti in bagno. L’appartamento sembrava diverso ora che vi risuonavano i rumori della sua famiglia. E sapeva del profumo di sua sorella. Sembrava casa.
La pizza arrivò un’ora più tardi e i bambini l’assalirono, tirando fuori le fette e chinandosi a raccogliere la mozzarella filante. Lenka aveva portato il DVD di Rapunzel, lo mise e diede da mangiare alla bimba seduta sulla poltrona vicino alla finestra.
Dopo aver mangiato, i bambini tornarono sul divano e si addormentarono di fronte al film.
«Li ho visti solo un paio di mesi fa, ma già mi sembrano più grandi», disse Erika fissando quei visetti rossi e addormentati. Eva si era addormentata subito e Lenka l’aveva rimessa sul passeggino avvolta in una copertina. Erika si chinò a baciarli tutti, sistemando la coperta su Jakub e Karolina.
«Lei è diventata altissima», disse Erika.
«Lo so. Litighiamo già perché vuole mettersi il rossetto. E ha solo sette anni».
«Parli tu che ti truccavi ancora prima di imparare a camminare», rispose Erika. «Sei passata direttamente dalle tette di mamma a Max Factor».
Lenka scoppiò a ridere, ma poi si incupì. «Possiamo parlare?»
«Certo», rispose Erika. Aprì la finestra del cortile e vide che aveva smesso di piovere. S’infilarono i cappotti e uscirono fuori al freddo.
«Questo sarebbe il tuo giardino?», domandò Lenka sbirciando nel buio.
«Sono solo in affitto, ma sì. Adesso vuoi dirmi perché ti sei presentata a Londra così all’improvviso?»
«Te l’ho detto. Ho provato a telefonarti, ma non hai risposto e non hai ascoltato i messaggi».
«Avrei dovuto farlo, scusa. Ma perché mi chiamavi con un numero anonimo?».
Lenka si morse un labbro. «Le cose a casa si sono fatte difficili. Dovevo andarmene. E poi i bambini non vedevano Londra da un bel po’».
«Oh, andiamo. È periodo di scuola. Mi stai dicendo che li hai trascinati via per portarli in gita a Londra i primi di novembre? Dov’è Marek?»
«Lui, ehm…». Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Marek ha avuto un po’ di problemi con il lavoro».
«Quando dici lavoro ti riferisci al crimine organizzato?»
«Non dire così!».
«E cosa vuoi che dica? Mafia? O facciamo solo finta che gestisca la gelateria più redditizia di tutta l’Europa dell’Est?»
«È una gelateria vera, Erika».
«Lo so, e non capisco perché non possiate farvela bastare».
«Sai com’è la vita a casa. Tu te ne sei andata tanti anni fa, e non sei più tornata».
«Dov’è Marek?»
«Se n’è andato».
«Dove?»
«Fra i monti Tatra. Un tizio pensa che gli abbia rubato dei soldi».
«Un mafioso?». Lenka annuì. «Ed è vero?»
«Non lo so… Non mi dice mai niente. La settimana scorsa mi ha fatto cambiare la scheda del cellulare. E stamattina mi ha detto di andare via, di partire, finché le acque non si fossero calmate».
Piangeva adesso, le lacrime le rigavano il viso.
«Oh, mi dispiace… Vieni qui…», rispose Erika. Strinse fra le braccia la sorella scossa dai singhiozzi. «Puoi restare da me, non c’è nessun problema. Sarete al sicuro e cercheremo di sistemare questa faccenda».
«Grazie», rispose Lenka.
Qualche minuto più tardi erano distese una accanto all’altra nel letto di Erika. Jakub e Karolina dormivano da tempo nel soggiorno. Erika aveva preso il lato vicino alla finestra, così che Lenka potesse tenere il passeggino con la bambina vicino a sé.
«Quell’uomo di prima è un collega. Peterson. James. L’avevo invitato per un caffè», disse Erika.
«Un caffè e basta?», chiese Lenka.
«Sì. Forse… Non lo so».
«È carino».
«Lo so, ma non si tratta di questo, non solo. Volevo svegliarmi accanto a qualcuno, non essere più sola ogni mattina. E avevo bevuto un po’. Sono contenta che ci fossi tu. Sarebbe stato stupido andare a letto con lui. Lavoriamo insieme».
«Anche tu e Mark lavoravate insieme».
«Ma è diverso: ci siamo messi insieme prima di entrare in polizia, ed eravamo già moglie e marito, quindi l’hanno preso tutti come un dato di fatto… Sono a capo di un’indagine per omicidio ora. Devo guidare la squadra. Non voglio storie di una notte o appuntamenti saltuari con uno del mio team».
«Mi manca molto Mark», disse Lenka. «Era un brav’uomo. Il migliore».
«Sì», disse Erika. Si asciugò le lacrime con il palmo della mano.
«Non credo che Marek sia un brav’uomo».
«Ama te e i bambini. Si prende cura di tutti voi. A volte capita che ti trovi in situazioni particolari, e devi cercare di tirarne fuori il meglio».
«Magari venire qui è stato un bene. Non sarai da sola. Ti sveglierai accanto a me domattina», sorrise Lenka.
«Tu sì che sai come rigirare la frittata», rise Erika. Si voltò a guardare la sorella immersa nel buio. Erano simili per tanti aspetti, ma Lenka vestiva in modo più provocante, si truccava e teneva i capelli lunghi mentre quelli di Erika erano tassativamente corti.
«A che stai lavorando?».
Erika le raccontò del caso e di Jessica Collins.
«Karolina ha la sua stessa età. Non voglio neanche immaginare cosa farei se la rapissero», disse Lenka.
Quella frase rimase sospesa nell’aria ed Erika ci mise un bel po’ ad addormentarsi.