Nel tardo pomeriggio, Erika era di nuovo nella sala operativa. Il suo telefono era stato affidato al dipartimento crimini informatici del MET, con sede a Tower Bridge, e la richiesta dei tabulati telefonici e della cronologia Internet di Amanda Baker era stata inoltrata.
Erika era di fronte allo schermo di un computer, a osservare i video del circuito di sicurezza della centrale insieme a Moss e Peterson.
«Questo è di mercoledì scorso, il 9 novembre», disse Moss. Lo schermo mostrava un’immagine statica e in bianco e nero del corridoio in cui si trovava la porta della sala multimediale. «Qui ci sei tu, capo, che entri nella sala insieme all’agente McGorry», aggiunse mentre mandavano avanti i minuti della ripresa. «Qualche ora dopo Peterson fa un piccolo cameo», aggiunse mentre i secondi scorrevano sullo schermo. «E qui ci siete di nuovo voi che ve ne andate poco prima delle sette chiudendo a chiave la porta».
«Era poco prima che mandassi tutti a casa», aggiunse Erika.
«Bene, ora vediamo che succede dopo le sette di quello stesso giorno», disse Moss, riportando il video alla velocità normale. Il corridoio era vuoto, finché Crawford non comparve nell’inquadratura, guardandosi intorno. Si fermò ad ascoltare i suoni provenienti dalla sala multimediale e poi infilò la chiave ed entrò dentro.
«Potrebbe esserci entrato per un’altra ragione, no?», ipotizzò Erika.
Moss proseguì: «D’accordo, quindi ora è dentro, mando avanti un paio di minuti e… Ecco, qui ci sei di nuovo tu capo, alle sette e dodici. Provi ad aprire la porta…».
«Ma Crawford l’aveva bloccata dall’interno», continuò Erika, osservandosi sullo schermo.
«Oh, ed ecco di nuovo Peterson, con le buste della spesa e…».
«Il mio quaderno degli appunti», disse Erika. Rimasero a guardare Erika e Peterson che parlavano in maniera imbarazzante sullo schermo. «Puoi mandare un po’ avanti?», chiese.
«No problem», rispose Moss, lanciandole un’occhiata.
Le immagini accelerate mostrarono Peterson che se ne andava per primo ed Erika che, pochi minuti dopo, si allontanava nel corridoio.
«Ed eccoci qua. Alle sette e trentasei di sera, quasi venti minuti più tardi, Crawford riemerge dalla sala multimediale», disse Moss. Lo schermo mostrava la porta della stanza che si apriva lentamente, la testa di Crawford che si affacciava appena da quello spiraglio e l’agente che usciva, richiudendo in fretta la porta e sparendo lungo il corridoio.
Rimasero tutti in silenzio a riflettere su quanto appena visto. E poi John li raggiunse dall’altro lato della sala operativa: «Capo, ho appena controllato i tabulati telefonici di Amanda Baker. Non ci sono molti numeri, non chiamava granché, ma il numero di Crawford compare un mucchio di volte. Gli ha telefonato diverse volte al giorno nell’arco delle ultime due settimane».
«E questo solleva un unico quesito: dov’è il detective Crawford?», rispose Erika. Si voltò a guardare gli agenti sparsi per la stanza.
John sollevò le spalle. «Non saprei proprio, capo».
«Be’, metti in moto il cervello e chiamalo, no?», sbottò Erika.
Pioveva ancora, e il cielo si faceva sempre più scuro mentre Erika e Moss partivano da Bromley per raggiungere casa di Crawford, fra Beckenham e Sydenham. Avevano provato a raggiungerlo sia al cellulare che al telefono di casa, senza successo. Persino la chiamata alla moglie si era rivelata un fiasco. Non lo vedeva da giorni.
«Ho una brutta sensazione», disse Moss quando si fermarono di fronte a casa sua.
«È qui che abita?», chiese Erika guardando fuori dal parabrezza. Si trovavano a Beckenham Hill Road, una strada piena di monti dei pegni, edicole, centri scommesse, qualche lavanderia scadente e un supermercato Iceland. Il traffico infuriava sulle carreggiate.
«Non posso parcheggiare fuori. Ho un paio di autobus dietro di me», disse Erika. Andò un po’ più avanti ed entrò nel parcheggio di un McDonald’s.
Scesero di corsa e aspettarono un paio di minuti per attraversare la strada affollata. Crawford viveva in un appartamento sopra un banco dei pegni, con la porta d’ingresso bianca che si apriva sulla strada. Trovarono il suo campanello e suonarono un paio di volte, senza ricevere risposta. Un uomo uscì dal portone e lo tenne aperto per Erika e Moss, che s’intrufolarono dentro.
Le scale, rivestite da una moquette sudicia, salivano per quattro piani. Quello di Crawford era l’ultimo. Al terzo piano trovarono una porta aperta, da cui arrivavano le urla di una signora cinese. Sulla porta apparve un uomo dai capelli grigi, seguito dalla donna piccola ma feroce.
«Tu idraulico ma non aggiusta perdita?»
«Gliel’ho detto, viene dall’appartamento di sopra ma ora non c’è nessuno in casa».
«Salve, sono l’ispettore capo Foster e lei è la detective Moss», si presentò Erika mostrando i distintivi. «Non risponde nessuno al piano di sopra?»
«Questo dice lui», sbottò la donna. «C’è una perdita in mia cucina. Da ieri notte si è allargata su tutto soffitto…».
Erika e Moss si guardarono per un attimo e poi si fiondarono su per le scale.
Ci vollero due tentativi per sfondare la porta. Crawford viveva in un monolocale. Il letto era sfatto e posizionato sotto una finestra che si affacciava sulla strada principale e nel cucinino all’angolo mosche e moscerini ronzavano sul cumulo di piatti sporchi. Appesa a una parete c’era un collage di foto che mostravano Crawford insieme a due ragazzini, un maschio e una femmina, intorno ai tredici anni.
C’era una grossa chiazza umida in un angolo della moquette, davanti a una porta. L’anta era accostata e le due agenti si avvicinarono lentamente.
Con una spinta Erika aprì la porta. Era il bagno, un minuscolo e squallido bagno. Il corpo nudo di Crawford galleggiava nell’acqua, colorata di rosa. C’erano degli schizzi di sangue sulla parete alle spalle della vasca, che formavano un’enorme macchia di almeno un metro. Si trovava dalla parte opposta del braccio di Crawford, che pendeva molle verso il pavimento sommerso dall’acqua.
Si era tagliato le vene.