Capitolo 30

La casa di Jack Hart si trovava in una zona esclusiva di Dulwich, South London, ai piedi di una ripida collina. La polizia aveva chiuso la strada e, oltre la zona transennata, Erika intravedeva cinque volanti, un’ambulanza e due grossi veicoli di supporto che bloccavano l’accesso. Sul marciapiede di fronte si erano già radunate diverse persone, con tanto di telecamere e cellulari.

«Cavolo, come volano le notizie», commentò Erika quando lei e Moss scesero dalla macchina. Si fecero strada fra la folla di adolescenti, anziane e una signora che stringeva in braccio un neonato dai capelli scuri.

«Si tratta di Jack Hart?», urlò un tizio dai capelli rossi.

«Quella è casa sua. L’ho visto girare lì intorno», rispose una ragazzina con il piercing sulle labbra.

«Questa è una scena del crimine, smettetela subito di fare video con il telefonino», ordinò Erika.

«Non è mica illegale filmare in pubblico», commentò una ragazzina minuta con i capelli color topo e una pelosa borsetta rosa. Poi aggiunse con enfasi: «Sorridi, sei su YouTube».

«Perché non mostri un po’ di rispetto? È stato commesso un reato grave qui», rispose Moss in tono pacato. Le signore più anziane osservarono la scena in silenzio.

«Jack Hart era un vero bastardo. Praticamente l’ha uccisa lui, quella Megan Fairchild. Era sempre il primo quando si trattava di sfruttare la gente, quindi perché non posso sfruttarlo io adesso?», chiese un ragazzo con la testa rasata. Incoraggiati dalle sue parole, anche gli altri giovani sollevarono i cellulari.

«Fa’ spostare tutti quanti», ordinò Erika a un agente.

«Ma sono dietro il cordone», rispose lui.

«Allora sposta il cordone, genio!», lo riprese Erika.

Proprio in quel momento un furgone di Sky News con una grande parabola montata sul tetto parcheggiò sul lato opposto della strada.

«Se ti servono altri agenti, chiamali pure. Ma sbrigati», disse Erika.

«Sissignora», annuì l’agente.

Erika e Moss mostrarono il distintivo e superarono il nastro, avvicinandosi alla casa.

Un agente le accolse sulla porta, accompagnandole dentro. Nel corridoio faceva più fresco. L’ingresso era arredato con gusto: un grande specchio alla parete, moquette color crema fino alle scale, ringhiere di legno scuro e lucido. Erika e Moss seguirono l’agente al piano di sopra. C’era la stessa moquette. La casa era immersa in un silenzio inquietante. Probabilmente insonorizzata per bloccare il caos della strada. La camera matrimoniale era in fondo al corridoio. I raggi del sole si insinuavano attraverso la porta semiaperta, illuminando le particelle di polvere che si rincorrevano nell’aria.

«Gesù», esclamò Moss quando entrò in camera. La vittima era stesa sul materasso, completamente nuda. Doveva essere stato un uomo alto, la pelle era morbida e glabra. Era steso a pancia in su, con un sacchetto premuto sul volto e stretto intorno al collo. Aveva un occhio e la bocca aperti, la plastica gli schiacciava la palpebra. L’altro occhio era ferito e si era gonfiato fino a chiudersi. Teneva le labbra tirate come se stesse scoprendo i denti.

«Chi ha trovato il corpo?», chiese Erika.

«La sua produttrice», spiegò l’agente. «Si è arrampicata fino alla finestra alle vostre spalle e l’ha rotta per entrare».

Si voltarono e videro l’enorme vetrata che dava sul giardino. C’era un buco proprio nel mezzo, circondato da una fitta ragnatela di crepe da cui erano caduti dei frammenti, atterrando sulla moquette.

«Quindi ha confermato lei l’identità della vittima? Si tratta di Jack Hart?», chiese Erika.

«Sì», annuì l’agente.

«Pensavo che il suo programma fosse in diretta. E che andasse in onda nei giorni feriali, no? Oggi è venerdì», fece notare Moss.

Rifletterono tutti per qualche secondo.

«Okay. Dobbiamo chiamare la scientifica, subito», disse Erika tirando fuori il cellulare dalla tasca.

Isaac Strong e il suo team in tuta blu si misero subito all’opera. Un paio d’ore più tardi, Erika e Moss si infilarono le stesse tute sterili e li raggiunsero di sopra. La scientifica aveva piazzato delle scatole di acciaio intorno al letto, per evitare che i poliziotti compromettessero le prove.

«Allora, Isaac. Pensi che si tratti dello stesso assassino di Gregory Munro? C’è la busta di plastica, è nudo ed è un maschio single», lo incalzò Erika.

«Lasciamo perdere queste supposizioni per il momento», rispose Isaac, guardando Erika e Moss dall’altra parte del letto matrimoniale. Un fotografo si sporse in mezzo a loro per uno scatto ravvicinato al corpo. «È morto da meno di ventiquattro ore. Ci sono ancora i segni del rigor mortis, per esempio sulle mani contratte, intorno alla bocca e accanto agli occhi. La casa è esposta a est e questa stanza in particolare durante il giorno è all’ombra. La temperatura ha permesso un processo di decomposizione del corpo piuttosto standard. È stato paparazzato mentre tornava a casa ieri sera tardi, quindi in realtà la mia ipotesi si fonda più sulla logica che sulla scienza. La busta di plastica è stata legata sotto al mento…». Isaac indicò il punto in cui il laccio aveva lacerato la pelle. «Potrebbe esserci stata una colluttazione; l’occhio sinistro è gonfio e ferito, probabilmente da un oggetto contundente, un pugno o una mano. C’era una bottiglia vuota di birra sul comodino, l’abbiamo già mandata in laboratorio per i test tossicologici. Come sulla scena del crimine di Gregory Munro, è tutto molto ordinato e pulito, non ci sono segni di lotte feroci. La vittima probabilmente è stata prima drogata e poi sopraffatta. Non ci sono segni di violenza sessuale. Ma come al solito, saprò dirvi di più una volta che l’avrò aperto».

«Che c’è qui?», chiese Erika, indicando una macchia grigiastra sul lenzuolo blu scuro accanto al corpo. Si abbassò e guardò sotto al letto: c’erano un paio di calzini raggomitolati e uno spesso strato di polvere.

«Polvere», disse rispondendosi da sola. «Era sotto il letto, si è sollevata ed è ricaduta sul materasso».

«Cristo santo, c’era qualcuno sotto il letto», commentò Moss. Il fotografo della scena del crimine si avvicinò per una serie di primi piani della vittima, inondando di flash il corpo. All’improvviso un altro flash, ma questa volta alle loro spalle. Erika si voltò e vide un uomo fuori dalla finestra della stanza, in piedi sul davanzale. Era magro, con i capelli rasati ai lati e una cresta blu elettrico al centro. Infilò l’obiettivo nel buco nel vetro e scattò un altro paio di foto.

«Ehi!», urlò Erika, abbassandosi la mascherina. Corse alla finestra ma l’uomo, che indossava dei pantaloncini jeans e una T-shirt nera degli AC/DC, si abbassò e scattò qualche altra foto fra le sue gambe. Si spostò velocemente verso la ringhiera del davanzale e, con un leggero tintinnio di vetri rotti, iniziò a scendere aggrappandosi a una rigogliosa pianta di glicine che cresceva intorno alla grondaia.

«Merda, ma chi era quello?», chiese Erika.

«Un paparazzo, a quanto sembra», rispose Moss.

Si affacciarono alla finestra, mentre l’uomo continuava a scendere. Non c’erano poliziotti sul retro. Erika scambiò un’occhiata fugace con Moss. Uscirono di corsa dalla stanza.

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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