«Ho conosciuto il Gufo online, un paio di anni fa», disse Keith. Erano tornati nel soffocante salotto illuminato.
«“Gufo”?», domandò Erika.
«Sì, è il suo nickname: il nome che usa nelle chat. Non dormo molto, così mi connetto per parlare con spiriti affini».
Si accorse subito dell’occhiata che corse tra Erika e Peterson.
«Non che io abbia uno spirito affine al Gufo… quello che voglio dire, insomma, sì, lei è diversa. Ma siamo connessi a un livello più profondo. Possiamo dirci ogni cosa».
«Ti ha rivelato il suo vero nome?», chiese Erika.
«No, la conosco solo come Gufo… Ma questo non vuol dire che non ci sia una grande intimità tra noi. La amo».
Erika si rese subito conto che la storia che avevano portato alla luce era ben più oscura di quanto avessero immaginato. E Keith c’era dentro fino al collo.
«Di che cosa parlavate di preciso?», chiese Peterson.
«Di tutto. Abbiamo iniziato chiacchierando del più e del meno, per mesi è andata avanti così. Discutevamo dei nostri programmi preferiti, i cibi che amavano… E poi una sera, la chat era piena e gli altri utenti continuavano a interromperci, così l’ho invitata in una conversazione privata. Solo io e lei. E le cose si sono fatte… serie».
«“Serie” in che senso? Sesso virtuale?», chiese Peterson.
«Non lo chiami così – è stato molto di più di questo», rispose Keith, con una smorfia di fastidio.
«Capisco», rispose Erika. «Poi? È successo qualcos’altro quella sera?»
«Ha iniziato a raccontarmi di suo marito, mi ha detto che la stuprava».
«La stuprava? Dove?»
«A casa, nel loro letto. Mi raccontava che lui si svegliava nel cuore della notte e la costringeva a farlo. Diceva anche che molte persone non lo considerano stupro, ma in realtà lo è, non è vero?»
«Sì, lo è», rispose Erika.
Keith rimase in silenzio per qualche istante.
«Io la ascoltavo – be’, leggevo quello che diceva. Scriveva al computer per tutta la notte. Suo marito era violento e pieno di rabbia e lei si sentiva in trappola. La cosa peggiore è che non riusciva mai a dormire: soffre di insonnia, come me».
«E questo quando succedeva?», chiese Erika.
«Quattro anni fa».
«Hai chattato con lei ogni giorno per quattro anni?», chiese Peterson.
«Be’, qualche volta sparisce per un po’ di tempo. Capita anche a me ogni tanto, ma passiamo la maggior parte delle notti insieme. E un giorno staremo insieme davvero. Vuole scappare via con me…». Keith abbassò lo sguardo, investito da un attimo di consapevolezza. «Be’, almeno questo era il piano».
«E di te cosa le hai raccontato?», domandò Erika.
Keith aprì e chiuse la bocca un paio di volte, insicuro. «Lei pensa che io abbia un’azienda tutta mia. Un’organizzazione benefica che si batte per la qualità dell’acqua potabile. Crede che anch’io abbia un matrimonio infelice. Che mia moglie non sia in grado di capirmi come lei».
«E immagino che invece non sei sposato. Divorziato?», domandò Peterson, lanciando uno sguardo al soggiorno soffocante.
«Nessuna delle due», rispose Keith.
«Come ti sei descritto fisicamente?», chiese Peterson. Erika gli lanciò un’occhiataccia: non voleva che Keith si chiudesse a riccio. Seguì un’altra pausa imbarazzante.
«Va tutto bene. Non sei stato completamente onesto con lei. E poi cosa è successo?», chiese.
«Ha detto di aver fantasticato di uccidere suo marito… E quasi nello stesso periodo, io ho attraversato una fase particolarmente buia della mia vita, stavo cercando un modo per suicidarmi. Sapete, considerando le mie condizioni fisiche non mi aspetto di sopravvivere a lungo… Spesso provo dei dolori lancinanti… E così sono andato su un forum in cui si parlava di come procurarsi una suicide bag. Insieme a una cannuccia con cui introdurre il gas ti permette di toglierti la vita facilmente. Niente dolore, solo un sonno perenne».
Erika e Peterson si scambiarono uno sguardo.
«Le hai detto come usare la suicide bag per uccidere suo marito, vero?».
Keith annuì.
«E lei ti ha chiesto di comprare uno di questi sacchetti per conto suo?»
«No, a quel tempo ne avevo una. E gliel’ho mandata per posta».
«Gliel’hai mandata per posta?»
«Sì, be’, ho chiesto alla mia infermiera di infilarla nella buca delle lettere. Un indirizzo di Uxbridge, West London. Mi aveva detto di mandarla lì in modo che suo marito non la scoprisse. E infatti non è successo. Ma è morto prima che lei avesse modo di portare a termine il piano».
«E come?», domandò Erika.
«Un attacco di cuore. Pensavo che ne sarebbe stata felice. Invece si sentiva come se il destino le avesse strappato via l’opportunità di vendicarsi. Ha ripensato a tutta la sua vita, è diventata sempre più ossessiva e arrabbiata. Mi sembrava confusa. Ha iniziato a parlare di tutti gli uomini che avrebbe voluto uccidere. Il suo dottore per primo: si era rivolta a lui quando suo marito era arrivato a versarle addosso una pentola d’acqua bollente».
«Gesù. È proprio quello che accade in uno dei romanzi di Stephen Linley», disse Erika a Peterson.
«Esatto, è per questo che ha scelto lui come terza vittima», rispose Keith. «Odiava Stephen Linley. Suo marito nutriva una vera ossessione per i suoi libri. Era da lì che traeva ispirazione per nuove torture».
«E non ti è mai venuto in mente di parlarne con qualcuno, di chiamare la polizia?»
«Mettetevi nei miei panni… Io adesso vi sto facendo il riassunto di anni e anni di conversazioni».
«Keith, andiamo!».
«Io la amo!», gridò. «Voi non capite! Noi… Noi scapperemo insieme. Mi porterà via da… da… QUESTO!».
Keith scoppiò a piangere, la testa china sul petto scosso dai singhiozzi. Erika si avvicinò e gli posò una mano sulle spalle.
«Keith, mi dispiace davvero tanto. Parli ancora con lei?».
Sollevò lo sguardo e fece di sì con la testa. Le lenti degli occhiali sporchi erano ormai annebbiate dalle lacrime.
«E che vi dite? Stavate per scappare insieme davvero?».
Peterson tirò fuori un pacchetto di fazzoletti e ne passò uno a Keith.
«Grazie», gli disse lui fra i singhiozzi. «Dovevamo prendere un treno per la Francia. L’Eurostar è attrezzato per i disabili. Ho controllato. E poi saremmo scesi verso sud, sempre in treno. Avremmo visitato i castelli della Loira e saremmo andati in Spagna, a vivere sul mare».
Erika notò le foto di Barcellona e di alcune città di mare della Spagna appese sopra il computer.
«Quando pensavate di partire?», chiese Peterson.
Keith strinse le spalle. «Quando avrà finito».
«Finito di fare cosa?», domandò Erika.
«Finito con… i nomi sulla sua lista».
«E quanti nomi ci sono su quella lista?»
«Quattro, diceva lei».
«E ti ha detto qualcosa sulla quarta vittima? Hai idea di chi possa essere?», chiese Erika.
«No, l’unica cosa che so è che quando avrà finito staremo finalmente insieme». Keith si morse un labbro e guardò prima Erika poi Peterson. Ricominciò a piangere. «È vero. È TUTTO vero. Magari non sa chi sono, ma abbiamo un legame forte!». Fece dei respiri profondi e si sfilò gli occhiali, pulendoli con l’orlo della maglietta.
«Keith, ti rendi conto del fatto che adesso che ci hai detto tutto ci saranno delle conseguenze? Questa donna è ricercata. È colpevole di ben tre omicidi».
Keith si rimise gli occhiali e fece una smorfia di dolore.
Erika addolcì il tono. «Sei sicuro al cento per cento che non ti abbia mai rivelato il suo vero nome o l’indirizzo di casa… Non hai proprio nessuna idea di chi possa essere?».
Keith scosse la testa. «Una volta ha menzionato Londra. E ho controllato, ma la casella postale che mi ha dato è anonima».
«Non hai mai provato a risalire al suo indirizzo IP?», domandò Peterson.
«Ho provato, ma non ci sono riuscito. Probabilmente anche lei usa Tor. Come me».
«Cos’è Tor?»
«Un browser che permette di navigare in maniera anonima, così nessuno può sapere cosa fai online».
Erika si massaggiò le tempie con i polpastrelli. «Quindi mi state dicendo che è impossibile risalire alla sua posizione quando si connette alla chat, giusto?»
«Esatto», rispose Keith. «Impossibile».