Capitolo 6

Quando uscirono dal museo aveva ripreso a nevicare, perciò lasciarono l’auto di servizio e presero il treno di superficie fino al London Bridge, e da lì la metropolitana fino a Chiswick. I vagoni erano stracolmi e caldissimi, e per la maggior parte del viaggio dovettero rimanere in piedi, stretti l’uno contro l’altro. Erika si ritrovò schiacciata tra i due nuovi colleghi, il fisico snello di Peterson da una parte, la massiccia figura di Moss dall’altra. Erika avrebbe voluto cinque minuti di solitudine, un po’ di spazio e aria fresca per raccogliere i pensieri. In venticinque anni di indagini aveva informato della perdita dei loro cari molte persone. Un’infinità. Ma dopo essersi trovata dall’altro lato della barricata si sentiva diversa. Il dolore era ancora così crudo. E ora doveva riferire la notizia ai genitori di Andrea, starli a guardare mentre il lutto ormai familiare li divorava.

La neve aveva smesso di cadere quando uscirono dalla stazione di Turnham Green. Chiswick High Road sembrava ancora più elegante in confronto a South London. Le strade erano pulite, le cassette postali pitturate di fresco, le botteghe dei macellai e i negozi di cibo biologico si alternavano alle case vittoriane con le loro tipiche finestre a ghigliottina. Banche e supermercati erano vivaci e splendenti. Persino la neve pareva più candida.

La casa dei Douglas-Brown si trovava in un ampio cul-de-sac, un po’ distante dall’affollata strada principale. L’enorme casa georgiana era stata ristrutturata da cima a fondo, eliminando dai mattoni color burro gli strati di sporcizia e smog che si erano accumulati nel corso di anni. L’edificio dominava sulle altre case, nonostante fosse in parte coperto dagli alti alberi che crescevano in un piccolo parco al centro del cul-de-sac. C’erano delle impronte sulla neve, alcuni fotografi si erano radunati con le macchine a tracolla sopra i pesanti cappotti invernali. Il vapore saliva dalle tazze di caffè bollente. L’arrivo di Erika, Moss e Peterson al cancello principale attirò la loro attenzione. Le macchine fotografiche cominciarono a scattare, i flash rimbalzarono sulla porta d’ingresso nera e lucida di casa Douglas-Brown. Erika fece un profondo respiro e suonò il campanello. All’interno si udì un elegante rintocco.

«È la polizia?», gridò una voce alle loro spalle.

«Il corpo che hanno trovato è quello di Andie?», gridò qualcun altro. Erika chiuse gli occhi per un istante, la presenza dei fotografi era incombente, fastidiosa alle sue spalle. Che cazzo di diritto hanno di chiamarla Andie? Non la chiamavano così nemmeno i suoi genitori.

La porta si aprì, appena un filo, e un’esile anziana con i capelli scuri li osservò. Sollevò una mano per schermarsi gli occhi mentre i flash delle macchine fotografiche si intensificavano.

«Buongiorno, dobbiamo parlare con Simon e Diana Douglas-Brown, per favore», disse Erika. I tre agenti mostrarono i distintivi. Si aspettavano che la signora li facesse entrare, ma lei continuò a scrutarli da sotto le palpebre pesanti, con i flash che si riflettevano nei suoi occhi neri.

«State indagando su lord e lady Douglas-Brown?»

«Sì. Sulla scomparsa della figlia Andrea», disse Erika a bassa voce.

«Sono la governante di casa Douglas-Brown. Per favore, vorrei i vostri tesserini», disse la donnina. «Aspettatemi qui mentre verifico la vostra identità». Raccolse i tesserini e richiuse la porta. Nuovi flash si riverberarono sulla vernice.

«Potete confermare che è stata violentata?», gridò una voce.

«Potete confermare che si tratta di omicidio? E in tal caso credete che ci sia un movente politico?», gridò qualcun altro.

Erika lanciò un’occhiata a Moss e a Peterson e loro continuarono a fissare la porta. I secondi passavano. Riuscivano quasi a sentire il calore dei flash sulla schiena.

«Ma che si è messa in testa quella vecchia? Crede che siamo qui per venderle dei doppi vetri?», sibilò Moss sottovoce.

«L’anno scorso lord Douglas è stato beccato da una telecamera nascosta», sussurrò Peterson. «Quelli della rivista “News of the World” l’hanno ripreso mentre tentava di corrompere un contatto di Teheran per un appalto».

«Il finto sceicco?», mormorò Erika. Stava per proseguire quando la porta si aprì, questa volta un po’ di più. Gli scatti delle macchine fotografiche alle loro spalle si intensificarono.

«Sì, sembra tutto a posto», disse la donna, restituendo i tesserini e facendo cenno di entrare. La seguirono all’interno e lei sbatté la porta in faccia al freddo e ai fotografi. L’ingresso lungo e stretto dava su una scalinata rivestita di moquette che si inerpicava su per tre piani. In alto c’era un lucernario colorato che creava delicati giochi di luce sulle pareti color crema. Ai piedi delle scale c’era un grande orologio lucido, il pendolo dondolavo silenzioso. La governante li condusse lungo un corridoio, passando davanti a una porta dove si intravedeva un’ampia cucina tutta pietra e acciaio. Sotto a un enorme specchio con la cornice dorata c’era una fioriera altrettanto imponente. Arrivarono di fronte a una porta di quercia. La vecchia li fece entrare in uno studio che si affacciava sul giardino posteriore, coperto di neve.

«Aspettate qui, prego», disse lanciando loro un’occhiataccia. Poi uscì richiudendo la porta. Sotto l’elegante finestra c’era una massiccia scrivania di legno scuro, rivestita in cuoio. Era completamente vuota, fatta eccezione per un computer portatile argentato. Sulla parete a sinistra c’era una libreria, mentre su quella di destra un grande divano di pelle e due poltrone. La parete davanti a loro era tappezzata di fotografie di Simon Douglas-Brown: Erika lo riconobbe dagli articoli sulla scomparsa di Andrea. Era un uomo basso, dall’aria virile e con intensi occhi marroni.

Quelle foto tracciavano una mappa dei suoi successi, a cominciare da quando aveva ancora una folta chioma di capelli e la sua azienda hi-tech era stata quotata in borsa per la prima volta, nel 1987. Mentre i capelli si diradavano, le fotografie lo ritraevano insieme alla regina, a Margaret Thatcher, a John Major e infine a Tony Blair. Erika notò che Sua Maestà era almeno un paio di centimetri più alta di lord Douglas-Brown. C’erano quattro foto con Tony Blair, a dimostrazione del grande coinvolgimento di Douglas-Brown nelle attività del governo laburista.

Al centro del collage, al posto d’onore, c’erano due fotografie più grandi. Una era un ritratto ufficiale, in cui Douglas-Brown era in piedi tra tappeti rossi e pareti rivestite in legno, con indosso un manto di ermellino. La didascalia sottostante informava che la foto era stata scattata il giorno dell’investitura, quando era diventato baronetto Simon Douglas-Brown di Hunstanton. La posa era identica nella seconda foto, questa volta però accanto a lui c’era anche la moglie Diana, piccola ed esile in un elegante abito bianco. Aveva i capelli lunghi e scuri e sembrava una versione più vecchia ed emaciata di Andrea.

«Dov’è Hunstanton?», chiese Erika.

«Sulla costa, nella contea del Norfolk. C’è un bellissimo acquario», disse Moss, chinandosi a osservare le foto con sguardo imperturbabile.

«Quindi sua moglie è diventata lady Diana», disse Peterson.

«Già», gli fece eco Moss. «Ma il titolo non ha portato molta fortuna neanche a lei!».

«Vi sembra divertente?», scattò Erika. «Perché io non ho riso per niente quando hanno tirato fuori il corpo di Andrea dall’acqua ghiacciata».

Moss e Peterson si affrettarono a scusarsi. Poi tutti e tre rimasero a guardare le foto in un silenzio imbarazzato. Lord e lady Douglas-Brown con il presidente Barack Obama e sua moglie Michelle. Gli Obama torreggiavano sui Douglas-Brown, che ostentavano un sorriso quasi inquietante. Senza dubbio fuori dall’inquadratura c’era una lunga fila di lord, lady, diplomatici e capitani d’industria, con le rispettive mogli, che aspettavano il proprio turno per farsi avanti per scattare una foto assolutamente identica. Un incontro durato pochi secondi, immortalato per sempre su quel muro consacrato all’ego.

Un colpo di tosse li distrasse dalle foto, e quando si voltarono videro Simon e Diana Douglas-Brown sulla soglia dello studio. Erika si sentì immediatamente in colpa per i suoi giudizi di poco prima, perché ora di fronte a lei non c’erano che due genitori terrorizzati, che attendevano ansiosi.

«Vi prego, diteci cosa sta succedendo. Si tratta di Andrea?», chiese Diana. Dietro l’intonazione perfetta di Diana, Erika percepì un accento straniero molto simile al suo.

«Sedetevi, per favore», disse.

Diana notò la loro espressione e si portò le mani al volto. «No, no, no, no, no! Non è lei! Non la mia bambina! Vi prego, non la mia bambina!».

Simon l’abbracciò.

«Mi dispiace dovervi informare che il corpo di vostra figlia è stato ritrovato questa mattina nella tenuta dell’Horniman Museum, a South London», disse Erika.

«E siete sicuri che sia lei?», chiese Simon.

«Sì. Abbiamo trovato la sua patente… addosso, e poco lontano c’era un cellulare intestato a suo nome», rispose Erika. «Stiamo facendo tutto il possibile per stabilire la causa della morte, ma devo informarvi che ci sembra sospetta. Crediamo che Andrea sia stata assassinata».

«Assassinata?». Diana si scostò dal marito e si accasciò sul divano accanto alla libreria, sempre con le mani sul volto. La pelle olivastra di Simon si era fatta più pallida, diventando quasi verde. «Andrea, assassinata?», ripeté Diana. «E da chi?».

Erika rimase in silenzio per un momento, poi disse: «Temo di dovervi chiedere di identificare in modo ufficiale il corpo di Andrea».

Calò di nuovo il silenzio. Dalle profondità della casa giunsero i rintocchi di un orologio. Diana scostò le mani dal viso e scrutò quello di Erika.

«Odkial ste?», disse.

«Narodila som sa v Nitre», rispose lei.

«Niente slovacco, non adesso. Parliamo inglese», disse Simon.

«E come mai viene una donna di Nitra a informarmi che mia figlia è morta?», disse Diana tenendo gli occhi fissi su Erika. La sua era un’espressione di sfida.

«Come lei, ho vissuto in Inghilterra molto più che in Slovacchia», spiegò Erika.

«Lei non è affatto come me! Dov’è quell’altro agente, quello che c’era prima… Sparks? Non voglio che il destino di nostra figlia sia nelle mani di una qualsiasi slovacca».

«Signora Douglas-Brown», disse Erika, sentendo la rabbia montare dentro di lei.

«Lady Douglas-Brown».

Erika sbottò. «Sono un agente di polizia da venticinque anni. E ispettore detective da…».

«Le assicuro che stiamo facendo tutto il possibile per trovare il colpevole», si intromise Peterson, lanciando un’occhiata a Erika.

Erika si ricompose, tirò fuori il taccuino e lo sfogliò fino a trovare una pagina bianca. «Se mi permette, lady Diana, dovrei farle qualche domanda».

«No. No, non glielo permetto», disse Simon, con un’espressione dura negli occhi scuri. «Non vede che mia moglie è… che noi… devo fare delle telefonate. Mi ripete le sue generalità?»

«Nitra si trova nella Slovacchia occidentale, ma come ho già detto vivo in Inghilterra da più di vent’anni».

«Non me ne frega niente della sua vita privata. Voglio sapere se siete della polizia metropolitana».

«Sì. Stazione di Lewisham Row», rispose lei.

«Bene. Voglio fare qualche telefonata. Capire la situazione. Finora ho parlato direttamente con il commissario Oakley…».

«Signore, sono io che dirigo le indagini».

«E ho lavorato con il comandante Clive Robinson in diversi comitati delle forze di polizia e…».

«E io ho il massimo rispetto per il suo lavoro, ma deve capire che ora seguo io le indagini e ho bisogno di fare delle domande a entrambi!». Erika si rese conto troppo tardi di aver alzato la voce.

Scese il silenzio.

«Capo, posso parlarle un momento?», chiese Peterson. Lanciò un’occhiata a Moss, che rispose con un impercettibile cenno del capo. Erika sentì le guance avvampare.

«Due parole, capo. Adesso», disse Peterson. Erika si alzò e lo seguì in corridoio. Lui richiuse la porta. Erika si appoggiò alla parete e tentò di rallentare il respiro affannoso.

«Lo so», disse.

«Senta, non voglio essere certo io a crearle problemi. È finita in mezzo a un bel casino, me ne rendo conto, ma non può essere così aggressiva con i genitori di una vittima. Perché è questo che sono adesso. Genitori. Lasci pure che quell’uomo si dia tutte le arie che vuole, tanto sappiamo come andranno le cose».

«Lo so. Merda», disse Erika. «Oh, merda…».

«Perché la madre voleva sapere da che parte della Slovenia proviene?»

«Della Slovacchia», lo corresse Erika. «È un atteggiamento comune degli slovacchi. Quelli di Bratislava pensano di essere meglio di tutti gli altri… immagino che lei venga da lì».

«E si sente migliore di lei», concluse Peterson. Erika inspirò e annuì, tentando di placare la rabbia.

Due uomini in tute da lavoro avanzavano dal capo opposto del corridoio, trascinando un enorme albero di Natale. Erika e Peterson si scostarono per farli passare. L’albero era rinsecchito e si era scurito in alcuni punti, i rami sfregavano contro le pareti, gli aghi di pino si staccavano, sparpagliandosi lungo tutta la folta moquette verde e azzurra.

Sembrava che Peterson volesse aggiungere qualcosa, poi ci ripensò e cambiò atteggiamento. «L’ora di pranzo è passata da un pezzo. Credo che un po’ di zuccheri le farebbero bene», disse scrutando il volto pallido di Erika. «So che il capo è lei, ma che ne pensa di scendere e aspettarci in qualche pub o in un bar?»

«Devo tornare dentro a scusarmi».

«Capo, lasciamo che il polverone si plachi da solo. Noi cercheremo di raccogliere più informazioni possibili e poi verremo da lei».

«Sì. Okay. Ma se ci riuscite…».

«Mi metterò d’accordo con loro per l’identificazione. Sì».

«Ci servirà anche il computer di Andrea… e… Be’, per il momento cercate di ottenere il possibile da quei due».

Peterson annuì e rientrò nello studio. Erika si fermò per un istante. Aveva fatto un casino e se ne andava a mani vuote.

Stava quasi per farsi un giro della casa quando ricomparve la governante con gli occhi semichiusi.

«L’accompagno all’uscita?», disse.

Seguirono la pista lasciata dagli aghi di pino fino alla porta d’ingresso. Quando Erika si ritrovò fuori, sui gradini, fu assalita dai flash delle macchine fotografiche. Dovette mordersi il labbro inferiore per non scoppiare a piangere.

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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