Capitolo 5

Moss era china sul volante e scrutava la strada innevata davanti a sé. Accanto a lei c’era Erika, e sul sedile posteriore Peterson. Il silenzio imbarazzato veniva interrotto a intervalli regolari dai tergicristalli che fischiavano e sibilavano contro il vetro. Come se qualcuno li avesse immersi nella granella di cocco.

South London era una tavolozza di varie sfumature di grigio cupo. File di malandate casette a schiera sfrecciavano dal finestrino, i cortili anteriori lastricati e utilizzati come parcheggi. Le uniche macchie di colore erano i bidoni dell’immondizia, ammucchiati in piccoli gruppetti neri, verdi e blu.

La strada piegò bruscamente a sinistra e la macchina si fermò in fondo a una fila di altre auto, allineate alla prima curva della circonvallazione a senso unico di Catford. Moss accese la sirena e le auto si spostarono sul marciapiedi per farla passare. Il riscaldamento era fuori uso, quindi Erika aveva una buona scusa per tenere le mani tremanti nelle tasche della giacca di pelle. Sperava che fosse la fame e non la paura a causarle quel tremito. Scorse un pacchetto di liquirizie rosse nello scomparto sopra la radio.

«Vi dispiace?», chiese spezzando l’imbarazzante silenzio.

«Prego», disse Moss. Poi spinse l’acceleratore e sfrecciò nel varco aperto nel traffico, sbandando leggermente con le ruote posteriori sulla strada ghiacciata. Erika prese una rotella di liquirizia dal pacchetto, se la infilò in bocca e masticò. Lanciò un’occhiata a Peterson sul sedile posteriore. Testa china, tutto concentrato su un iPad. Era alto e aveva un volto ovale, ancora da ragazzino. Le ricordava un soldatino giocattolo. Lui alzò lo sguardo e la fissò.

«Allora. Che sai dirmi di Andrea Douglas-Brown?», chiese Erika mandando giù la rotella e prendendone un’altra.

«Il capo non l’ha aggiornata?», chiese Peterson.

«Sì, ma fai conto che io non sappia niente. Mi approccio sempre a un nuovo caso fingendo di essere completamente all’oscuro di tutto. Resteresti stupito se scoprissi quanti indizi escono fuori in questo modo».

«Ha ventitré anni», cominciò Peterson.

«Lavora?»

«Non risultano esperienze professionali…».

«Perché?».

Peterson scrollò le spalle. «Non ne ha bisogno. Douglas-Brown possiede la SanTech, un’azienda privata che si occupa di Difesa. Sviluppano sistemi GPS e software per il governo. Secondo gli ultimi rendiconti il suo patrimonio ammonta a trenta milioni».

«Fratelli o sorelle?», chiese Erika.

«Sì, un fratello minore, David, e una sorella maggiore, Linda».

«Quindi ti sentiresti di affermare che Andrea e i suoi fratelli sono dei figli di papà?»

«Sì e no. La sorella, Linda, lavora, anche se per sua madre. Lady Douglas-Brown possiede un negozio di fiori di lusso. David sta facendo un master all’università».

Nel frattempo avevano raggiunto Catford High Street, che era stata liberata dalla neve, perciò ora il traffico procedeva regolarmente. Passarono accanto a discount, banchi dei pegni, supermercati pieni di prodotti esotici disposti in pile che minacciavano di rovesciarsi a terra da un momento all’altro.

«E il fidanzato di Andrea, Giles Osborne?»

«Stanno… stavano per sposarsi. Un matrimonio in grande stile, quest’estate», rispose Moss.

«Lui cosa fa?», chiese Erika.

«Dirige una società che organizza eventi, roba di alto livello: la regata di Henley, il lancio di nuovi prodotti, matrimoni dell’alta società».

«Lui e Andrea convivono?»

«No, lei sta dai genitori a Chiswick».

«West London, giusto?», chiese Erika. Dal finestrino vide Peterson annuire.

Moss proseguì. «Dovrebbe vedere la casa. Hanno unito quattro abitazioni e aggiunto un seminterrato. Quella proprietà deve valere milioni».

Superarono un piastrellificio che pareva chiuso. L’ampio parcheggio era un’unica distesa di neve fresca. Poi un ristorante, dove un uomo che indossava un paraorecchie stava lentamente infilando un grosso albero di Natale in una cippatrice. Il ronzio del motore fece vibrare tutta la macchina e poi si affievolì. Si stavano avvicinando a una serie di pub dall’aria malandata. Davanti a uno di questi, The Stag, c’era una donna anziana dal volto emaciato che fumava una sigaretta appoggiata a una porta verde tutta scrostata. Accanto a lei un cane teneva il muso in un sacco dell’immondizia e sparpagliava pezzi di cibo su tutto il terreno coperto di neve.

«Cos’era venuta a fare Andrea Douglas-Brown qui da sola? È un posto un po’ curioso per la figlia di un milionario che vive a Chiswick, non trovate?», chiese Erika.

Per un istante un turbinio di fiocchi di neve avvolse la macchina, e quando la bufera concesse loro un attimo di tregua l’Horniman Museum comparve all’orizzonte. Un edificio in pietra arenaria, fiancheggiato da un’alta pianta di yucca e da alcune palme. Sembravano decisamente fuori contesto ora che erano coperte di neve.

Moss rallentò quando arrivò al cancello e accostò accanto a un giovane agente in divisa. Erika abbassò il vetro e si sporse, afferrando il bordo del finestrino con la mano guantata. La neve penetrò all’interno dell’abitacolo, attaccandosi alla parte imbottita della portiera. Erika mostrò il distintivo.

«La prima a sinistra. È un po’ ripido. Abbiamo mandato su una spargisale, ma meglio andare piano», disse. Erika annuì e tirò su il finestrino. Moss svoltò a sinistra e cominciarono a inerpicarsi su per la strada scoscesa. Una volta arrivati in cima videro un posto di blocco, presidiato da un altro agente in divisa. In piedi, a sinistra del nastro della scena del crimine, c’era un gruppetto di giornalisti tutti infagottati in abiti pesanti. L’arrivo della volante li fece scattare, i flash delle macchine fotografiche piovvero impetuosi sul parabrezza.

«Fuori dai piedi», brontolò Moss, mentre tentava di inserire la terza. Il motore si ingolfò, l’auto scattò in avanti e poi si bloccò. «Merda!», imprecò stringendo il volante. Schiacciò il freno, ma l’auto continuò a scivolare in avanti. Dal finestrino posteriore Erika vide la strada in discesa alle loro spalle. I fotografi reagirono alla scena drammatica dandoci dentro con i flash.

«Sterza a sinistra, subito!», esclamò Peterson, abbassando il finestrino e sporgendosi. Erika si tenne al cruscotto e Moss girò il volante con tutta la sua forza, riuscendo a infilare l’auto in un parcheggio lungo il cordolo del marciapiede, libero dalla neve. Le ruote riacquistarono la presa sull’asfalto e l’auto si fermò.

«Davvero un colpo di fortuna», disse Peterson con un sorriso asciutto. La neve entrava dal finestrino e rimaneva appiccicata tra le sue treccine corte.

Erika slacciò la cintura, un po’ in imbarazzo perché le tremavano le gambe.

Uscirono tutti dalla macchina mentre i fotografi se la ridevano e sparavano domande sul corpo che era stato ritrovato. La neve li aggrediva da ogni direzione, tirarono fuori i distintivi e il nastro protettivo fu sollevato per lasciarli passare. Erika si sentì improvvisamente a suo agio. Era tornata, il nastro della polizia veniva di nuovo sollevato per lei. Si godeva la sensazione del distintivo tra le dita.

Un altro agente in divisa li guidò verso il cancello di ferro che conduceva al giardino.

C’era un grosso tendone della scientifica che copriva la rimessa per le barche, la base era sepolta sotto un mucchio di neve. Un assistente consegnò a Erika, Moss e Peterson delle tute. Le indossarono prima di entrare.

Dentro la tenda la luce dei faretti scintillava sulla neve e illuminava il legno marcio del tetto basso. Si chinarono, videro tre agenti della scientifica che aiutavano il loro capo perlustrando ogni centimetro. Sul piccolo pontile c’era una barca a remi e un sommozzatore della polizia con la muta scura riemerse dall’acqua ghiacciata, accompagnato dall’odore caldo e disgustoso di acqua stagnante. Intorno a lui galleggiavano immondizia e fango, nei punti in cui il ghiaccio si era sciolto per il calore sprigionato dalle luci.

«Detective Foster», disse una profonda voce maschile. Questa volta Erika dovette alzare la testa per vedere l’alta figura che era comparsa da dietro la rimessa. L’uomo si tolse la mascherina e rivelò un volto gradevole e orgoglioso, con dei grandi occhi scuri. Le sopracciglia erano curate, due linee immacolate.

«Sono Isaac Strong, anatomopatologo», disse. «Moss e Peterson li conosco già», aggiunse. I due annuirono. Strong li accompagnò all’esterno della rimessa, fino a una barella metallica accostata nel senso della lunghezza alla parete della tenda. La ragazza morta era nuda, a parte i brandelli di un vestito strappato e infangato intorno alla vita. Sotto si intravedeva un perizoma nero lacero. Le labbra carnose erano leggermente dischiuse e uno degli incisivi era spezzato, vicino alla gengiva. Gli occhi erano spalancati in un lattiginoso sguardo di morte, i capelli lunghi coperti di foglie e di detriti raccolti in acqua.

«È lei, non è vero?», disse Erika a bassa voce. Moss e Peterson annuirono.

«Okay», disse Isaac rompendo il silenzio. «Il suo corpo è stato ritrovato congelato nel ghiaccio. In questa fase preliminare mi azzarderei a dire – e sottolineo mi azzarderei – che è stata in acqua almeno per settantadue ore. La temperatura è scesa sotto lo zero tre giorni fa. E il suo cellulare funzionava ancora quando l’hanno trovata. Un ragazzo che lavora qui l’ha sentito squillare». Porse a Erika un iPhone in una busta di plastica trasparente. La cover era tempestata di Swarovski.

«Sappiamo chi la stava chiamando?», chiese Erika, fiutando una possibile pista.

«No, la batteria è morta poco dopo che l’abbiamo recuperato dall’acqua. Hanno già provato a rilevare le impronte, ma è un casino».

«Dov’è il ragazzo che l’ha trovata?»

«In un’ambulanza con i paramedici, al centro accoglienza. Era messo male quando sono arrivati gli agenti. Era finito nell’acqua ghiacciata, sopra il cadavere, aveva vomitato, urinato e defecato per lo shock, quindi stiamo tentando di togliere di mezzo il suo DNA il prima possibile», disse Isaac. Si spostò accanto al corpo sulla barella.

«Il gonfiore del volto e i segni sul collo potrebbero indicare uno strangolamento, e la clavicola sinistra è fratturata», disse muovendo la testa con delicatezza, la mano protetta da un guanto di lattice. «Mancano dei ciuffi di capelli, più o meno negli stessi punti su entrambe le tempie».

«Chiunque sia stato forse le è arrivato alle spalle e le ha tirato i capelli», disse Moss.

«Ci sono segni di violenza sessuale?», chiese Erika.

«Mi serve un po’ di tempo per approfondire la questione. Ci sono lividi e graffi sull’interno coscia, sulle costole e sul petto…».

Indicò una serie di graffi rossi sotto entrambi i seni, e sempre con grande prudenza mostrò alcuni segni di dita sulle costole. «Ci sono lacerazioni sui polsi, il che potrebbe indicare che aveva le mani legate, ma in acqua le braccia erano libere. Ha anche dei lividi sulla nuca e abbiamo trovato frammenti di smalto dentale nell’angolo anteriore del pontile… stiamo ancora cercando i resti del dente. Ma potrebbe averlo ingoiato, quindi magari lo troverò solo più in là».

«Quando è scomparsa aveva delle scarpe rosa con il tacco e una borsetta, sempre rosa. Sono state trovate?», chiese Moss.

«Addosso aveva solo il vestito e le mutande, niente reggiseno né scarpe». Isaac le sollevò con cura le gambe. «Ci sono lacerazioni gravi sui talloni».

«È stata trascinata a piedi nudi», disse Erika, ritraendosi alla vista di quei piedi, ferocemente graffiati e lacerati, con la carne rosacea esposta.

«Uno dei nostri sommozzatori ha tirato fuori questa dall’acqua». Isaac porse a Erika una bustina trasparente. Conteneva una patente di guida. Fissarono tutti la foto e rimasero in silenzio per qualche istante.

«Che foto intensa. È come se fosse lì e ci stesse guardando dall’oltretomba», disse Peterson.

Erika pensò che aveva proprio ragione. Spesso nelle fototessera gli occhi sono offuscati e il soggetto sembra intrappolato, preso alla sprovvista. Andrea invece aveva uno sguardo fiero.

«Cazzo», disse Erika spostando lo sguardo dalla foto al corpo sulla barella, sudicio e con gli occhi spalancati. «Quanto ci vorrà per stabilire la causa della morte?»

«Intanto vi ho già dato qualcosa da cui cominciare. Per il resto mi serve l’autopsia», rispose Isaac.

«Che farai oggi», disse Erika fissandolo negli occhi.

«Sì. Oggi», disse Isaac.

Fuori dal tendone della scientifica era tutto tranquillo. La neve aveva smesso di cadere e un gruppo di agenti in divisa perlustrava le sponde del lago, le gambe dei pantaloni scuri immerse nel bianco manto mentre si aprivano la strada tra i cumuli.

Erika prese il cellulare e chiamò Marsh. «Signore, è Andrea Douglas-Brown», disse.

Una pausa di silenzio. «Merda».

«Vado a parlare con il ragazzo che l’ha trovata, poi andrò a informare i genitori», disse Erika.

«Che ne pensi, Foster?»

«Senza dubbio omicidio, forse stupro e strangolamento, o annegamento. Ho già comunicato tutto quello che ho».

«Possibili sospetti?»

«No, signore. Sono subentrata in corsa, dobbiamo organizzare ancora un’identificazione formale con i membri della famiglia. Quelli della scientifica stanno andando a fare l’autopsia, la terrò aggiornata».

«Se potessi dire ai giornalisti che abbiamo un sospettato…», cominciò Marsh.

«Sissignore. Lo so. Parlare con la famiglia è la nostra priorità. Ci sono forti possibilità che Andrea conoscesse il suo assassino. Quando è scomparsa non ci sono stati testimoni, nessuno che abbia assistito al rapimento. Forse era sul posto per incontrare l’assassino».

«Vacci piano, Foster. Non cominciare a sparare ipotesi alla cieca, sottintendendo che Andrea stesse andando a farsi una scopata…».

«Non ho mai detto che…».

«Ricorda che faceva parte di una famiglia rispettabile, che…».

«Mi sono già occupata di casi del genere, signore».

«Sì. Ma ricorda con chi hai a che fare».

«Sì. Una famiglia in lutto. E dovrò fare le solite domande».

«Okay. Ma vacci piano. È un ordine».

Erika riattaccò, l’atteggiamento di Marsh la innervosiva. L’unica cosa che disprezzava della Gran Bretagna era il suo sistema di classi. Persino in un’indagine per omicidio sembrava proprio che Marsh pretendesse chissà quale trattamento speciale per la famiglia.

Moss e Peterson spuntarono fuori dalla tenda con un agente, oltrepassarono il lago e scesero nell’avvallamento. Erika si chiese se quelle statue dagli occhi vuoti avessero visto Andrea urlante che veniva trascinata dal suo assassino.

Una radio attaccata al bavero dell’agente sibilava scariche statiche. «Abbiamo appena trovato una borsetta rosa su una siepe lungo London Road», disse una voce metallica.

«Da che parte è London Road?», chiese Erika.

«È quella strada in alto», disse l’agente indicando una fila di alberi.

Dopo mesi di inattività Erika non vedeva l’ora di rimettere in moto il cervello. Ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva il corpo di Andrea, la pelle lacera e contusa, gli occhi vuoti e spalancati. C’erano così tante variabili in un caso di omicidio. Una casa di medie dimensioni poteva impegnare la scientifica per giorni, ma quella che si trovavano tra le mani era una scena del crimine che potenzialmente si estendeva per sette ettari, con indizi sparpagliati in luoghi pubblici e intrappolati sotto una spessa coltre di neve.

«Portatela al centro accoglienza, dove c’è l’ambulanza», disse Erika all’agente, che si allontanò di corsa. Pochi istanti dopo emerse con Moss e Peterson dai filari di siepi. In fondo a un pendio coperto di neve c’era il futuristico cubo di vetro del centro visitatori. Il cortiletto antistante era stato occupato da un’ambulanza con le portiere aperte. Dentro era seduto un giovanotto sui vent’anni, avvolto in una pila di coperte. Aveva il volto grigio e tremava. Accanto all’ambulanza c’era una donnetta bassa, che sorvegliava l’agente che stava ispezionando i vestiti del ragazzo: con una mano guantata etichettava e infilava in sacchetti di plastica la tuta sudicia, il maglione e le scarpe da ginnastica. La donna aveva le stesse sopracciglia cespugliose del ragazzo, ma il volto più affilato.

«Voglio un documento firmato», stava dicendo, «e un elenco scritto di quello che vi state portando via. Lee si era comprato quei pantaloni a novembre, e anche le scarpe sono nuove, mi mancano ancora tredici settimane di rate per pagarle. Quanto ve le terrete?»

«Adesso sono delle prove in un’indagine per omicidio», disse Erika appena raggiunsero l’ambulanza. «Sono il detective Foster, loro sono il detective Moss e il detective Peterson». Tirarono fuori i distintivi e la donna scrutò le fotografie socchiudendo gli occhi.

«Lei come si chiama?», chiese Erika.

«Grace Kinney, e l’unica colpa del mio Lee è essersi presentato al lavoro. E visto che è rimasto fuori ad aspettare al freddo adesso si ammalerà e gli sospenderanno il sussidio!».

«Lee, puoi raccontarci cosa è successo?».

Lee annuì, il volto pallido e angosciato. Disse che stava andando al lavoro e aveva seguito il suono del cellulare, fino a scoprire il corpo di Andrea sotto il ghiaccio. Un agente comparve accanto all’ambulanza e lo interruppe, in mano aveva una borsetta rosa dentro una busta di plastica trasparente. Una seconda busta conteneva invece sei banconote da cinquanta sterline, due assorbenti interni, un mascara, un rossetto e un profumo.

«Erano della ragazza morta?», disse Grace chinandosi a sbirciare. L’agente fu rapido a nascondere le buste dietro la schiena.

«Ormai le ha viste», sibilò Erika all’agente. Poi proseguì: «Signora Kinney. Deve capire che si tratta di prove in un’indagine molto delicata e…».

«Terrò la bocca chiusa, non si preoccupi», disse Grace. «Anche se solo Dio sa cosa ci è venuta a fare qui una ragazza con una borsetta firmata piena di cinquantoni».

«Secondo lei?», chiese Erika.

«Non mi metto certo a fare il vostro lavoro. Ma non ci vuole Sherlock Holmes per capire che batteva. Probabilmente ha portato qui un cliente e le cose si sono messe male», disse Grace.

«Lee, hai riconosciuto la ragazza?»

«Perché mai il mio Lee dovrebbe riconoscere una prostituta?»

«Non… non pensiamo che fosse una prostituta».

Sembrava che Grace non si fosse accorta del disagio di Lee. Lui si strinse nella coperta e aggrottò la fronte, unendo le sopracciglia cespugliose. «Era bella», disse a bassa voce. «Persino da morta, sotto il ghiaccio… è morta in un modo orribile, vero?».

Erika annuì.

«Gliel’ho letto in faccia», disse Lee. «Scusi, cosa mi aveva chiesto?»

«Se l’hai riconosciuta. L’hai per caso vista da queste parti?», ripeté Erika.

«No. Mai vista prima», disse.

«Forse è andata in uno dei pub lungo la strada, prima. Qual è quello in cui vanno i giovani?», chiese Peterson.

Lee scrollò le spalle. «Il Wetherspoon è sempre pieno nei weekend… Il Pig and Whistle. Subito dopo il benzinaio».

«Esci spesso la sera, Lee?», chiese Peterson. Lee scrollò le spalle. «Il Wetherspoon, il Pig and Whistle. Ce ne sono altri?»

«Lui si tiene lontano da quei posti, vero?», disse Grace lanciando un’occhiata a Lee.

«Sì, sì. Alla larga», disse Lee.

Grace proseguì: «Una volta era bello da queste parti. Niente roba di lusso, ma era un posto carino. Quel vecchio Wetherspoon un tempo era un cinema adorabile. I peggiori sono il Glue Pot e lo Stag. Davvero, non ci metterei piede neanche se ci fosse un diluvio di piscio e quelle due bettole fossero gli unici posti ancora a galla. E poi sono pieni di maledetti immigrati, senza offesa tesoro», aggiunse rivolta a Peterson. Erika vide Moss reprimere un sorriso.

Grace continuava a ignorare l’imbarazzo di Lee. «Davvero, esco in strada e mi sento una straniera nel mio Paese: polacchi, rumeni, ucraini, russi, indiani, africani… e Lee mi ha detto che sono tutti lì al centro di collocamento, pronti a prendere tutto quello su cui riescono a mettere le mani. Dovreste raderli al suolo quei pub. Un sacco di quelli là ci lavorano e poi vanno in pausa e corrono a firmare per prendersi l’assegno di disoccupazione. Ma per loro chiudete un occhio. Il mio Lee invece deve andare al lavoro anche con questo tempaccio per quaranta ore la settimana per sessanta sterline. È vergognoso».

«Da quanto lavori nei giardini del museo?», chiese Erika. Lee scrollò le spalle. «Prima di Natale ho fatto quattro settimane».

«E adesso daranno la colpa a Lee se non è andato a lavorare perché una stupida prostituta è venuta a qui a farsi…».

«Basta così», disse Erika.

Grace parve incassare il colpo. «Immagino che anche quella povera ragazza avesse una madre. Sapete già chi è?»

«Ancora non possiamo dirlo».

Quel commento suscitò l’interesse di Grace. «Per caso è quella ragazza, quella tutta elegante che è sparita? Come si chiamava, Lee… Angela? Assomigliava alla ragazza che è sui giornali?».

Lee teneva gli occhi fissi davanti a sé e pareva rivivere il momento in cui si era ritrovato faccia a faccia con Andrea, con solo una sottile lastra di ghiaccio a separarli.

«Come le ho detto, dobbiamo ancora identificare il corpo», disse Erika. «Contatteremo noi il centro per l’impiego, Lee, spiegheremo cosa è successo. Tu resta nei paraggi. Potremmo avere bisogno di parlarti di nuovo».

«Pensate che voglia lasciare il Paese?», replicò Grace. «Sarebbe bello, ma saremmo gli unici da queste parti!».

Erika, Moss e Peterson se ne andarono mentre i paramedici si preparavano a ripartire con l’ambulanza.

«Bel caratterino», disse Moss.

«Ma ci ha dato più informazioni lei di Lee», disse Erika. «Controlliamo quei pub. Il Glue Pot, lo Stag. Possibile che Andrea sia davvero andata lì la notte in cui è scomparsa?».

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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