Capitolo 36

La scientifica entrò subito nell’abitazione e la mattinata proseguì così, mentre Erika camminava nervosamente avanti e indietro sul ciglio dell’acqua. Il sole rimase nascosto fra le nuvole, ma il lago brillava di una bellezza inquietante, incorniciato dai rovi secchi e dagli alberi spogli. Erika si fermò a osservare la brezza leggera che tracciava nuove increspature nell’acqua. Uno stormo di sei anatre lasciò dodici scie allineate planando all’unisono. Si sentiva in colpa a godersi la bellezza della cava.

«Hanno trovato qualcosa, vogliono che entriamo», le arrivò la voce di Moss alle sue spalle. Erika si asciugò velocemente le lacrime e si voltò.

Prima di entrare, Erika, Moss e Peterson infilarono al volo la tuta della scientifica stendendo il tessuto blu di plastica sopra i loro abiti e sollevando la mascherina. C’era un grosso telo plastificato a coprire l’ingresso principale e Nils Åkerman, il responsabile della scena del crimine, lo scostò per permettere agli agenti di entrare. Era un uomo sulla trentina, con un bel viso e lineamenti nordeuropei. Annuiva e sorrideva man mano che gli passavano davanti.

Lo squallore che trovò all’interno sconvolse Erika. L’ingresso si apriva direttamente su una stanza piccola e soffocante: la puzza di marciume era soverchiante, acida e melensa. Si voltò a guardare Moss e Peterson e notò che anche loro erano rimasti scioccati. Il pavimento era irregolare, coperto di chiazze nere e bianche e frammenti di vetro.

«Il pavimento, è cacca d’uccello. Una tonnellata», spiegò Nils. «Abbiamo provato a rimuoverne un po’ ai lati. C’è il parquet sotto». Il leggero accento svedese trapelava di tanto in tanto nel suo inglese perfetto.

«Certa gente pagherebbe una fortuna per dare questo effetto al pavimento», borbottò Moss.

Sopra di loro, le travi marce correvano lungo un soffitto fatiscente con infiltrazioni d’acqua nell’intonaco – cosa che non giovava affatto all’umidità della stanza. Al centro c’era un cumulo deforme e cadente ricoperto di cacca d’uccello, giornali vecchi e vetri rotti. Qua e là spuntavano alcune molle arrugginite, probabilmente erano i resti di un vecchio divano. Un’agente della scientifica lavorava sotto una luce intensa, accanendosi su un cuscino sottile: aveva staccato lo strato di feci e la federa per arrivare alla gomma piuma. Il divano fumava appena sotto la luce bollente.

In un angolo, vicino a una sudicia finestra rotta, c’era un tavolo con delle tazze sporche e i resti di un fuoco che qualcuno aveva provato ad accendere. Anche in altri due punti della casa avevano tentato di attizzare le fiamme, sulla parete di fondo e vicino alla porta. Sul muro si vedevano i segni neri delle bruciature, intorno ai quali trovarono tutto un armamentario di arnesi per gli stupefacenti: stagnole annerite, siringhe, cucchiaini piegati. Erika attraversò il pavimento appiccicoso avvicinandosi a un punto in cui la parete era coperta da chiazze scure e marroni.

«Schizzi di sangue. Di qualche drogato probabilmente, ma preleveremo comunque dei campioni», disse Nils.

«Di sopra che c’è?», domandò Moss, guardando il soffitto cadente.

«Nessuno ci è ancora salito. Le scale sono marce, in alcuni punti crollate. E non sapremo se è sicuro procedere finché non le avremo fatte controllare».

Un’ombra attraversò la finestra ed Erika saltò per lo spavento.

«Merda», disse quando si rese conto che era solo la sagoma di un agente al lavoro all’esterno. Nils li condusse attraverso una porticina che si affacciava sul retro dell’abitazione. La cucina era vecchia e sudicia tanto quanto il salotto. Un bancone basso correva lungo tutta una parete, i cassetti erano spariti, si vedeva dentro. Ma, a parte qualche bruciatura e alcune padelle vecchie e impolverate, era vuota. Sul muro sopra il bancone erano affisse delle credenze, ma molte erano cadute e i frammenti se ne stavano a terra al centro della stanza. Gli stop spuntavano ancora dai buchi sulle pareti. I lampadari erano spariti, lasciando solo qualche filo pendente dal soffitto.

«Cos’è questa puzza?», domandò Peterson, coprendosi il naso sopra la mascherina con il dorso della mano guantata.

Nils inclinò la testa verso una finestrella che sormontava un lavandino di pietra. Nel vetro sporco di sangue secco c’era un grosso buco in cui si era infilato un piccione che aveva cercato di uscire ed era rimasto incastrato. La carcassa era ormai in putrefazione.

Erika si avvicinò e la puzza si fece ancora più insostenibile.

«Quella è…», farfugliò vedendo il lavandino pieno di una sostanza marrone e secca.

«Merda», concluse Nils. «Forse dei tossici».

Il soffitto era leggermente più alto rispetto a quello del salotto, una trave di sostegno scoperta correva per tutta la lunghezza della stanza.

«Bob Jennings può essersi impiccato lì, forse?», chiese Moss.

«Non posso saperlo con certezza, ma ho trovato questo», disse Nils.

Li portò di fronte a una porticina all’angolo della stanza. La porta era rotta, marciva sul pavimento. Allo stipite avevano attaccato una lampada potente, che illuminava una scala sudicia e angusta che scendeva nell’oscurità dove volteggiava la polvere spessa. I pochi scalini che riuscivano a vedere erano ricoperti da una sostanza marrone e dura, mescolata alle feci di uccelli e all’immondizia.

Nils fece un passo avanti e con una mano guantata indicò in alto. C’era una corda decomposta e marcia attaccata a un uncino sul ciglio delle scale.

«Potrebbe essere stata usata per un’impiccagione», disse Nils. «Farò esaminare ciò che ne resta». Quando la polizia si imbatte in un cadavere impiccato, taglia sempre la corda mantenendo il cappio integro. Come prova. Nils continuò: «Seguitemi, per piacere. Fate attenzione a dove mettete i piedi, camminate al lato dei gradini», disse mentre superava la soglia e avanzava sui gradini scricchiolanti.

Lo scantinato era piccolo e angusto, con un soffitto talmente basso da far venire la pelle d’oca. Il team aveva piazzato un’altra lampada da terra in un angolo ma, nonostante il bagliore intenso, alcune parti dello scantinato restavano ancora in ombra. Le pareti erano marroni, scure, e gli angoli ricoperti di ragnatele. Anche lì il pavimento era irregolare. Dal piano di sopra arrivavano gli scricchiolii attutiti degli uomini di Nils al lavoro.

«Fa un caldo bestiale», disse Moss.

«Man mano che ci avviciniamo all’inverno il suolo rilascia il calore immagazzinato», spiegò Nils.

Come il piano superiore, anche lo scantinato presentava qua e là segni di bruciature e mucchietti di stagnola annerita e legnetti. Il suolo era compatto, di un marrone acceso. L’area era punteggiata di chiazze più scure. Due agenti della scientifica erano in ginocchio e setacciavano attentamente la terra estratta da alcune piccole sezioni di suolo scuro.

«Il terreno è saturo», disse Nils.

Raccolse una busta per le prove e la passò a Erika. L’ispettore la avvicinò al naso e, anche senza togliersi la maschera, capì subito di cosa si trattava.

«Benzina», annunciò passando il sacchetto a Peterson. «Credi che il generatore fosse qui sotto?»

«Probabile. A quanto pare i tossici hanno acceso diversi fuochi qui, potrebbe anche trattarsi di un liquido infiammabile», rispose Nils. Peterson passò il sacchetto a Moss. «Se il generatore si fosse trovato davvero qui sotto, in una stanza priva di ventilazione, i vapori sarebbero stati davvero opprimenti».

Gli agenti si scambiarono un’occhiata.

«Penso proprio che abbiamo qualcosa qui», disse qualcuno della scientifica, con la voce attutita dalla mascherina. Si voltò verso di loro tenendo con le pinze un piccolo oggetto compatto. «Era incastrato nel suolo, esattamente qui».

Nils preparò subito una busta per la raccolta delle prove e l’agente lo rovesciò dentro. Sollevò la plastica sotto la luce e tutti si avvicinarono a guardare.

Un dentino. Calò il silenzio, ed Erika si voltò verso Moss e Peterson.

«Dai resti che abbiamo trovato di Jessica Collins mancava uno dei denti davanti… Voglio che eseguiate un esame tossicologico, immediatamente», ordinò Erika cercando di non far trapelare l’emozione. Nils annuì. L’ispettore si guardò attorno, rabbrividendo al pensiero della bambina intrappolata in un posto del genere. «Se il dente è di Jessica, significa che siamo vicini a risolvere il caso», disse.

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