Capitolo 67

«Bene, capo. Dov’è che andiamo di preciso?», chiese Peterson salendo a bordo. Indossava jeans e maglietta, uno zainetto in spalla. Erano quasi le nove di mattina, ed Erika era passata a prenderlo davanti a casa sua, un edificio ampio ed elegante in una tranquilla strada alberata di Beckenham. Un cartello sul prato curato di fronte all’ingresso annunciava che l’edificio si chiamava Tavistock House.

«A Worthing», rispose Erika passandogli una mappa ripiegata. Le tendine della finestra al piano terra si scostarono, spuntarono il viso e le spalle nude di una biondina esile e carina. Salutò Peterson con la mano, lanciando un’occhiata rapida a Erika. Lui le rispose con un cenno e tirò fuori un paio di occhiali da sole dallo zaino.

«È la tua ragazza quella?», chiese Erika mentre Peterson puliva le lenti di un paio di Ray Ban con un panno di stoffa grigia. Li inforcò, la ragazza li stava ancora fissando.

Alzò le spalle. «Avanti, capo. Andiamo», disse palesemente a disagio. La macchina partì, restarono in silenzio per un po’. Il riflesso degli alberi scorreva allegramente sul parabrezza.

«Dobbiamo prendere l’M23 e poi l’A23», disse infine Erika, intuendo che Peterson non aveva voglia di parlare della ragazza.

«Perché mi hai chiesto di venire?», le chiese spiegando la mappa. Le lanciò una rapida occhiata.

«Moss è stata riassegnata a un altro caso e quando ti ho chiamato hai detto che eri libero… E tu, perché hai detto di sì?»

«Mi avevi incuriosito». Peterson sorrise.

Erika ricambiò il sorriso.

«Anch’io sono stato riassegnato», disse.

«A cosa?»

«Operazione Hemslow».

Erika si voltò di scatto a guardarlo in faccia e la macchina deviò verso il marciapiede di destra. Peterson allungò un braccio e raddrizzò il volante.

«Non emozionarti troppo. Mi hanno messo alla sorveglianza. Si tratta di roba piuttosto noiosa, non faccio che guardare Penny Munro e Peter».

«E?»

«Stanno bene… Il bambino va a scuola, torna a casa, va a nuotare una volta a settimana e adora dar da mangiare alle anatre…». Peterson sbuffò. «Stanno davvero per inchiodare Gary Wilmslow. Ora al centro dell’attenzione c’è un magazzino a Crystal Palace. Hanno solo bisogno di beccare Wilmslow là dentro. Sembra semplice, eppure è complicatissimo. È riuscito a schermarsi dietro ad almeno tre persone, nessun legame diretto con la produzione dei video e l’adescamento dei bambini… Dobbiamo solo decidere quanto possiamo aspettare prima di entrare in azione e chiudere lo show».

«Dovete prendere Wilmslow», disse Erika.

«Nessuno vuole vederlo dietro le sbarre più di me… Sai che non dovrei dirtele queste cose, vero, capo?»

«Sì, lo so. E grazie».

«Sparks vuole incriminare Isaac anche per l’omicidio di Gregory Munro e Jack Hart, oltre che di Stephen Linley».

«Merda».

«Perché non hai informato la squadra della nostra gita di oggi?», chiese Peterson.

«Perché ho bisogno di vedere come stanno le cose. Con i miei occhi. Chiaramente hanno preso la loro decisione, ormai. È fin troppo facile accusare Isaac… E così la storia è finita. Caso risolto e via».

«Tu non pensi che sia stato lui?».

Erika guardò Peterson negli occhi. «No, non lo penso. Ma devo prima accertarmene. Mi rendo conto che è un tentativo a dir poco azzardato, ma se telefono in centrale ed espongo la mia teoria, nessuno se ne occuperà per chissà quanto tempo. Daranno la precedenza a mille altre cose e dopo potrebbe essere troppo tardi. Per te va bene?».

Peterson alzò le spalle e sorrise. «Certo che mi sta bene. In fondo, come hai detto al telefono, è solo una giornata al mare».

«Grazie».

Le cose erano cambiate così velocemente. Ormai era fuori dal caso. Spiegò a Peterson tutto ciò che aveva scoperto, come pensava di agire.

Novanta minuti più tardi uscirono dall’autostrada e si diressero verso Worthing imboccando una complicata e grigia serie di sensi unici. Arrivati in città, però, davanti ai loro occhi si aprì un panorama pittoresco. Un antico borgo sul mare, che nel caldo cocente dell’estate sembrava regale, per nulla decadente. Erika seguì la strada che correva parallela al lungomare. La spiaggia era affollata di gente seduta a prendere il sole o stesa su delle sdraio vecchio stile, mentre dall’altro lato della carreggiata sfilavano case, appartamentini e negozi. Parcheggiò vicino alla spiaggia. Si mischiarono alla folla che passeggiava sul lungomare, mangiando un gelato o godendosi semplicemente il sole.

«Come ce la giochiamo?», chiese Peterson raggiungendola vicino al parchimetro sul marciapiede.

«Non abbiamo alcun diritto di essere qui, ma lui questo non lo sa», rispose Erika inserendo le monetine nella macchinetta. «Spero solo che l’effetto sorpresa giochi a nostro favore».

Raccolse la ricevuta del parchimetro e chiusero la macchina. L’indirizzo che cercavano era quasi in fondo al lungomare, dove i negozi di souvenir e le sale da tè iniziavano a diradarsi. Le case a schiera in quella zona erano piuttosto malmesse, molte erano state trasformate in appartamenti e monolocali.

«Eccoci qua», annunciò Erika, quando arrivarono di fronte a un ampio edificio a cinque piani con un piccolo cortile lastricato. C’erano cinque bidoni dell’immondizia, ciascuno con il numero dell’appartamento verniciato sopra. Tutte le finestre erano aperte e dall’ultimo piano arrivava della musica.

«Sento odore d’erba», disse Peterson fermandosi ad annusare l’aria.

«Sì, ma non siamo qui per questo», rispose Erika. «Tienilo a mente».

Salirono gli scalini ed Erika suonò il campanello dell’appartamento al piano terra. Rimasero ad aspettare sulla soglia mentre dentro la musica cessava per un momento. Dopo qualche secondo, le prime note di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana.

Nelle finestre al piano terra, che si affacciavano sui bidoni ed erano coperte quasi interamente da dei vestiti appesi a grucce, le luci si accendevano a intermittenza. Erika suonò di nuovo il campanello e attraverso il vetro oscurato vide un’ombra bassa e larga che si avvicinava all’ingresso. La porta si aprì di un centimetro, per poi bloccarsi. Un ronzio, poi si aprì del tutto.

L’ombra bassa e larga che avevano visto attraverso il vetro era un’enorme sedia a rotelle elettrica, con ruote larghe e resistenti e delle bombole di ossigeno agganciate alla spalliera. Un meccanismo sollevò il sedile su cui era seduto un ometto basso e paffuto. Aveva degli occhiali da vista con delle lenti spesse e, a parte dei radi ciuffi di capelli color grigio topo, era quasi completamente calvo. Teneva una maschera d’ossigeno premuta sul volto. Soffriva di nanismo, era evidente. Le gambe corte e ossute superavano appena il bordo della carrozzina. Teneva un braccio infilato sotto il bracciolo mentre con l’altro stringeva il cordoncino che aveva usato per aprire la porta. Lo lasciò andare e premette il telecomando attaccato alla sedia, avanzando sulla soglia e bloccando l’ingresso.

«Lei è Keith Hardy?», chiese Erika.

«Sì», rispose lui con una voce acuta, spostando lo sguardo da un agente all’altro.

Erika e Peterson gli mostrarono i distintivi.

«Sono l’ispettore capo Erika Foster e lui è il mio collega, l’ispettore Peterson. Possiamo scambiare due parole con lei?»

«A proposito di cosa?».

Erika lanciò un’occhiata a Peterson. «Preferiremmo parlarne dentro».

«E io non vi permetto di entrare».

«Non le ruberemo molto tempo, signor Hardy», disse Erika.

«No, infatti, non mi ruberete nemmeno un minuto».

«Signor Hardy…», cominciò a dire Peterson.

«Avete un mandato?»

«No».

«Be’, allora andate a procurarvelo», rispose. Allungò il braccio e afferrò il cordoncino attaccato alla serratura interna. Erika fece un passo in avanti e glielo impedì.

«Signor Hardy, stiamo indagando su un triplice omicidio. L’arma del delitto è una suicide bag… Abbiamo avuto accesso alle sue transazioni bancarie e abbiamo visto che lei ne ha comprate cinque, ed è ancora vivo. Vogliamo eliminare ogni possibile fraintendimento».

Keith arricciò il naso e si sistemò gli occhiali. Poi si spostò di lato e li lasciò entrare.

La donna di ghiaccio - La vittima perfetta - La ragazza nell'acqua
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