Quando Simone tornò a casa dopo la telefonata a Erika Foster la puzza era nauseabonda. Il sugo dei maccheroni al formaggio era schizzato sullo specchio all’ingresso e sul computer. Andò in salotto e si accorse che era finito ovunque: sulle pareti, sopra il televisore.
Mentre puliva, ripassò mentalmente ogni sua mossa. Come faceva la polizia a sapere che era stata lei a uccidere Munro e Hart? Come avevano fatto a scoprire che era stata una donna? Come?
Era stata così astuta, così attenta.
Solo un’ombra, niente di più.
Stava sfregando con forza il tappeto quando con la coda dell’occhio vide qualcosa che si muoveva. Si fermò immediatamente. Pat, pat. Un rumore di passi alle sue spalle. Strinse forte la spazzola di legno e si voltò.
Stan era in piedi sulla porta del salotto. Nudo. Rivoli d’acqua gli scorrevano sulla pelle pallida, gocciolando sul tappeto pulito. La bocca socchiusa mostrava una fila di denti marci. Simone questa volta non aveva paura, e se ne sorprese. Si alzò, le ginocchia schioccarono.
«Duhu… kah». Uno strano suono schioccante uscì dalla bocca di Stan. Non erano parole, sembravano più che altro dei sospiri. Un’esalazione. «Duhu… kah, Duhu… kah». Il braccio gli ricadde lungo un fianco e gli angoli della bocca si curvarono in una specie di sorriso. Un sorriso che Simone ricordava bene. Famelico. Quello che aveva in volto quando le saltava addosso. Così vicino. L’anticipazione del dolore. Più si avvicinava, più l’acqua scorreva impregnando il tappeto. Ora aveva paura, sì.
«NO!», urlò. «NO!». Gli lanciò addosso la pesante spazzola di legno. Stan scomparve, e la spazzola si scagliò contro lo specchio dell’ingresso mandandolo in mille pezzi.
Se ne era andato. Il tappeto era asciutto e all’improvviso Simone capì cosa aveva detto Stan.
Duca. Aveva detto Duca.
Corse al computer nel sottoscala ed entrò nella chat.
ILGUFO: Duca?
Qualche momento dopo, arrivò anche il Duca.
DUCA: Ehi, Gufo! Brutta serata?
ILGUFO: E tu come fai a saperlo?
DUCA: Io ti conosco. Meglio di quanto tu conosca te stessa.
Stavolta la pausa fu lunga. Simone fissava il cursore che lampeggiava. Si chiese se il Duca dall’altra parte fosse seduto con le dita sospese sulla tastiera, alla ricerca di qualcosa da dire. Aveva fatto due più due?
Per la prima volta, Simone si chiese dove vivesse il Duca. Ormai si era abituata a pensare che abitasse lì dentro, nel suo computer. Per lunghi anni gli aveva parlato dei suoi piani, delle sue fantasie. Gli aveva descritto tutto il dolore che avrebbe inferto al dottore, a quel tizio della televisione e a tutti gli altri sulla sua lista. Il Duca l’aveva sempre incoraggiata, sempre. E le aveva confessato i suoi timori – il terrore del buio, i tentativi di suicidio falliti. Simone ricordava la straziante descrizione di quella volta che il Duca aveva cercato di soffocarsi con la suicide bag senza però utilizzare il gas. Se l’era messa in testa, aveva stretto il laccio intorno al collo ma poi si era fatto prendere dal panico e aveva rotto il sacchetto. Il laccio gli era rimasto incastrato nella palpebra, strappandola e lacerando il bulbo oculare.
Le aveva detto che sarebbe morto senza di lei. E Simone gli credeva.
Strizzò gli occhi. Il cursore si stava di nuovo muovendo sullo schermo.
DUCA: Certo che ti conosco, Gufo. Certo. Io ti conosco meglio di chiunque altro. E ti amo. Ti prometto che i tuoi segreti moriranno insieme a me.