Keith era seduto di fronte al computer nel piccolo salotto. Gli sembrava che le luci pulsassero e bruciassero, era zuppo, il sudore gli colava dai capelli radi per infrangersi sul PVC della sedia nera da ufficio. Erika e Peterson erano seduti alle sue spalle, sulle sedie pieghevoli.
«Non so che dire», disse Keith voltandosi verso di loro.
«Cerca soltanto di chiacchierare del più o del meno per un po’. Non vogliamo che si insospettisca», disse Erika.
Keith annuì e tornò con gli occhi sullo schermo, iniziando a digitare.
DUCA: Ehi, Gufo. Come va?
ILGUFO: Ciao.
DUCA: Che succede?
Passarono una manciata di secondi. Erika si sbottonò un po’ la camicetta e cercò di farsi aria. Lanciò uno sguardo a Peterson, che grondava di sudore. «Non possiamo spegnere qualche luce?», chiese, asciugandosi la fronte con il dorso della mano.
«No! No, non mi piace il buio. Le ombre», rispose Keith. «Ma potete aprire una finestra se volete».
Peterson andò in cucina e spalancò la finestra sopra il lavandino. La puzza di fogna si sparse per tutta la casa, ma almeno faceva più fresco.
«Non scrive», disse Keith, voltandosi di nuovo verso di loro.
«È normale?», domandò Peterson rimettendosi a sedere.
«Non lo so… Di solito non ho un pubblico alle spalle, nessuno mi sta con il fiato sul collo quando parlo con lei. E se sapesse?»
«Non può saperlo», lo rassicurò Erika. Rimasero seduti in silenzio ancora per qualche minuto.
«Vado un attimo in bagno», disse Erika. Keith annuì e tornò a fissare lo schermo. Lei uscì dal salotto e attraversò il corridoio. Dal piano di sopra arrivava il ronzio sommesso della musica, le luci erano forti, intense. Entrò in bagno e chiuse la porta.
Si posizionò con attenzione sopra la tazza per disabili e fece pipì il più velocemente possibile. Quando si girò per cercare la carta igienica, colpì violentemente con la spalla l’enorme barra di sicurezza. La spinse e la guardò sollevarsi, quasi come una bizzarra ghigliottina fatta al contrario. Il bagno era davvero deprimente, sembrava di essere in un ospedale. Dovette abbassarsi per guardarsi allo specchio. Subito si pentì di averlo fatto: aveva un’aria esausta.
Con tutte le luci accese, il salotto sembrava persino più caldo di prima. Trovò Peterson che curiosava fra le mensole di DVD.
«Eccola! Sta scrivendo», disse Keith avvicinandosi allo schermo. Erika e Peterson lo raggiunsero all’istante.
ILGUFO: Scusa, stavo cucinando.
DUCA: Ooh, e che mangi di buono?
ILGUFO: Toast con uovo in camicia.
DUCA: Gnam. Ce n’è anche per me? Però io ci vorrei la salsa barbecue.
ILGUFO: C’è, l’ho comprata apposta per te.
«Bene così», disse Erika, mentre sbirciava insieme a Peterson alle spalle di Keith. Rimasero a guardare la conversazione che scorreva sullo schermo.
«Non capita tutti i giorni di guardare un serial killer che parla della sua giornata di merda al lavoro e della sua passione per l’uovo in camicia», mormorò Peterson, con gli occhi fissi sul computer e il mento poggiato sulla mano. «Che ore sono?»
«Le due e mezzo», rispose Erika controllando l’orologio.
Alle cinque e mezzo, mentre fuori spuntavano le prime luci del giorno, la chat continuava. Il cortile fuori dalla finestra si stava tingendo di azzurro.
Erika svegliò Peterson, che era riuscito a addormentarsi sulla sedia pieghevole con la testa buttata all’indietro. L’agente riprese coscienza, strofinandosi pian piano gli occhi.
«Credo che ci siamo finalmente», bisbigliò Erika. Entrambi ripresero a fissare lo schermo.
DUCA: Allora… C’è una cosa che volevo dirti da un po’ di tempo.
ILGUFO: ???
DUCA: Sono andato dal dottore l’altro giorno.
ILGUFO: Ah sì?
DUCA: So che tu odi i dottori.
ILGUFO: Li detesto con tutto il cuore.
DUCA: La mia è donna. È brava.
ILGUFO: Mi hai messo le corna con lei?
DUCA: Ma certo che no. Mi ha detto che ho il colesterolo troppo alto. E con lo stress del lavoro… Devo alleggerire un po’ il carico, altrimenti…
ILGUFO: Altrimenti?
DUCA: Altrimenti potrei avere un infarto. Mi ha spaventato a morte, davvero. Mi ha spinto a vedere le cose in un’altra prospettiva.
ILGUFO: Pensavo che volessi morire. Mettere fine a tutto.
DUCA: A volte sì, a volte no. Ma ora come ora, sento che non è tutto da buttare, la vita è corta… E io ti amo.
DUCA: Perciò volevo chiederti, e mi rendo conto che è una richiesta grossa, insomma, se ti va di incontrarmi. Dal vivo. Io e te.
Seguì un lunga pausa.
«Ecco qua. L’ho spaventata», disse Keith, con gli occhi stanchi e velati di panico. «Ci ho provato. L’avete visto anche voi, ci ho provato tutta la notte!».
«È tutto okay, Keith», disse Erika. «Guarda».
Keith si voltò di nuovo verso lo schermo.
ILGUFO: Va bene, allora. Incontriamoci.
«Oddio», disse Keith. E ricominciò subito a scrivere.
DUCA: Ma è FANTASTICO!!!
ILGUFO: Non voglio che resti deluso però.
DUCA: Mai. Mai. MAI!
ILGUFO: Dove?
ILGUFO: E quando?
«Che cosa devo rispondere? Dove?», chiese Keith.
«Dille che vuoi incontrarla alla stazione di Waterloo, a Londra», disse Erika.
«Aspetta, proponiglielo prima», aggiunse Peterson. «E se dice che va bene, allora fissa un appuntamento alle cinque di stasera, sotto l’orologio dell’atrio».
Keith annuì e riprese a scrivere:
DUCA: Che te ne pare della stazione di Waterloo a Londra?
ILGUFO: D’accordo. Quando?
DUCA: Domani. Che sarebbe già oggi, in teoria. Sotto l’orologio alle cinque.
ILGUFO: Okay.
DUCA: FANTASTICOOO! Sono così felice!!! Come farò a riconoscerti?
ILGUFO: Non preoccuparti.
ILGUFO: Lo capirai.
E così il Gufo uscì dalla chat. Rimasero tutti in silenzio per qualche secondo. Keith sorrideva, aveva i capelli umidicci dritti sulla nuca e spandeva una certa puzza di sudore.
«Le cinque sono l’orario di punta alla stazione di Waterloo», disse Peterson. «Avremmo dovuto chiedergli di dire prima».
«Prenderla sarà molto più complicato», concordò Erika. «E avremo anche meno libertà d’azione».
«Capo, devi dirlo a Marsh. Non c’è altro modo per ottenere l’autorizzazione a un’operazione di sorveglianza di questa entità… Sempre sperando che l’autorizzi».
«Già», rispose Erika. Controllò di nuovo l’orologio. Erano le sei meno un quarto. «Andiamo a mangiare qualcosa. Aspettiamo almeno che Marsh si svegli».
«Io devo tornare. Sono di turno fra due ore», rispose Peterson.
«Certo, è vero», disse Erika. «Scusami. Va’ pure, non voglio farti finire nei casini. E, ehm, tu non sei mai stato qui, okay? Cioè, voglio dire, se va tutto a puttane non sei mai stato qui. Se invece finisce in trionfo, sì».